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'L'ODISSEA ^
I>1 OMERO
TRADOTTA
DA
IPPOLITO PINDEMONTE
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CASA EOnRICIi: ITALIANA DI M. GUICOm
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TO NEW TCRK
PUBLIC LIBRARY
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AVTOR, LSr.'OX AMD
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Tip. Guigoni
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LIBRO PRIMO
ARGOMENTO
Proposisione del Poema. — Concilio degli Dei. ore 91 deteri
mina il ritorno d'Ulisse. — Minerva discende in Itaca; e-
sotto la figura di Mente re de* Tafl , conforta Telemaco di
condursi a Pilo ed a Sparta, per sapere del padre . e per
ÙLvaì anch*egli nel tempo stesso conoscere. — Banchetto de'
Proci, cioè di coloro che richiedon Penelope in moglie. —
Femio Ti canta il funesto ritorno de* Greci da' Troia ; e Pe-
nelope , che ode il canto dalle sue stanxe , ne cala giù con
due ancelle, e prega Femio di prèndere un altro tema. —
Telemaco parla con fermezza alla madre , ed ai Proci in-
tima un parlamento pel giorno seguente, e nella sua stanza
ritirasi a riposare.
Musa, quell'uom di moltiforme ingegno
Dimmi, che molto errò, poich' ebbe a terra
Gittate d'Ilion le sacre torri;
Che città vide molte, e delle genti
L'indol conobbe; che sovr* esso il mare
Molti dentro del cor sofferse affanni,
Mentre a guardar la cara vita intende,
E i suoi compagni a ricondur: ma indarno
[ C^icondur desiava i suoi compagni,
,^phe delle colpe lor tutti perirò.
^^Stoltil'che osaro violare i sacri
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CO.
6 ODISSEA (v. 12-47)
Al Sole Iperion candidi buoi
Con empio dente, ed irritaro il Nume,
Che del ritorno il di lor non addusse.
Deh parte almen di si ammirande cose
Narra anco a noi, di Giove figlia e Diva.
Già tutti i Greci, che la nera Parca
Rapiti non avea, ne' loro alberghi
Fuor dell'arme sedeano, e fuor dell'onde.
Sol dal suo regno e dalla casta donna
Rimanea lungi Ulisse : il ritenea
Nel cavo sen di solitarie grotte
La bella renerabile Calipso,
Che unirsi a lui di maritali nodi
Bramava pur, Ninfa quantunque e Diva.
E poichò giunse al fin, volvendo gli anni,
La destinata dagli Dei stagione
Del suo ritorno in Itaca, novelle
Tra i fidi amici ancor pene durava.
Tutti pietà ne risentian gli Eterni,
Salvo Nettuno, in cui l'antico sdegno
Rrima non si stancò, che alla sua terra
Venuto fosse il pellegrino illustre.
Ma del mondo ai confini, e alla remota
Gente degli Etìopi in duo divisa,
Vèr cui quinci il sorgente ed il cadente
Sole gli obbliqui rai quindi saetta,
Nettun condotto a un'ecatombe s'era
Di pingui tori e di montoni; ed ivi
Rallegrava i pensieri a mensa assiso.
In questo mezzo gli altri Dei raccolti
Nella gran reggia dell'olimpio Giove
Stavansi; e primo a favellar tra loro
Fu degli uomini il padre e de' Celesti,
Che il bello Egisto rimembrava, a cui
Tolto avea di sua man la vita Oreste,
L'inclito figlio del più vecchio Atride,
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(v. 48-83) LIBRO I. 7
Poh! disse Giove, incolperà l'uom danqoe
Sempre gli Dei? Qaando a so stesso i mali
Fabbrica, de' suoi mali a noi dà carco,
£ la stoltezza sua chiama destino.
Così, non tratto dal destino, Egisto
Disposò d'Agamennone la donna,
E lui da Troia ritornato spense;
Benché ccmscio dell'ultima ruina
Che TArgicida esplorator Mercurio,
Da noi mandato, prediceagli. Astienti
Dal sangue d^U^Atride, ed il suo letto
Guardati di jsafir, che alta vendetta
Ne farà Oreste, ce^me il volto adorni
Della prima lanugine, e lo sguardo
Verso il retaggio de' suoi padri volga.
Ma questi di Mercurio utili avvisi
Colui nell'alma non accolse: quindi
Pagò il fio d'ogni colpa in un sol punto. ^^
Di Saturno figliuol, padre de* Numi,
Re de' regnanti, cosi a lui rispose
L'occhiazzurra Minerva, egli era dritto
Che colui non vivesse: in simil foggia
Pera chiunque in simil foggia vive.
Ma io di doglia per l'egregio Ulisse
Mi struggo. Lasso I che da' suoi lontano
Giorni conduce di rammarco in quella
Isola che del mar giace nel cuore,
E di selve nereggia: isola, dov/
Soggiorna entro alle sue celle secreto
L' immortai 'figlia di quel saggio Atlante
Che del mar tutto i pit riposti fondi
Conosce, e regge le colonne immense ,/
Che la volta sopportano del cielo.
Pensoso, incòjisolabile, l'accorta ^
Ninfa il ritiene, e con soavi e molli
Parolette carezzalo, se mai
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8 ODISSEA (v, 84-119)
Potesse Itaca sua trargli del petto : ^
Ma ei non brama che veder dai tetti
Sbalzar della sua dolce Itaca il fumo,
E poi chiuder per sempre al giorno i lumi.
Né commuovere, Olimpio, il cuor ti senti?
Grati d'Ulisse i sacrifici al greco
Navile appresso ne' Troiani campi
Non t'eran forse? Onde rancor sì fiero,
Giove, centra lui dunque in te s'alletta? -
Figlia, qual ti lasciasti uscir parola
Dalla chiostra de' denti? allor riprese
L'eterno delle nubi addensatore.
Io l'uom preclaro disgradir« che in senno
Vince tutti i mortali, e gl'Immortali
Sempre onorò di sagrifici opimi?
Nettuno, il Nume che la terra cinge.
D'infuriar non resta pel divino
Suo Polifemo, a cui lo scaltro Ulisse
Dell'unic' occhio vedovò la fronte,
Benché possente più d'ogni Ciclopc:
Pel divin Polifemo, che Toosa
Partorì alnume, che pria lei soletta
Di Forco, re degl' infecondi mari.
Nelle cave trovò paterne grotte.
Lo scotitor della terrena mole
Dalla Patria il disvia da queir istante.
E, lasciandolo in vita, a errar su i neri
Flutti lo sforza. Or via, pensiam del modo
Che l'infelice rieda, e che Nettuno
L'ire deponga. Pugnerà con tutti
Gli Eterni ei solo? Il tenterebbe indarno.
Di Saturno figliuol, padre de' Numi/
De* regi Re, replicò a lui la Diva
Cui ti4ge gli occhi un' azzurrina luce,
Se il ritorno d'Ulisse a tutti aggrada,
Che non s'invia nell'isola d'Ogige
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(v. 120-155) LIBRO X. 9
L'ambasciatop Mercurio, il qual veloce
Eechi alla Ninfa dalle belle trecce,
Com* è fermo voler de' Sempiterni
Che Ulisse al fine il natio suol rivegga?
Scesa in Itaca intanto, animo e forza
Nel figlio io spirerò, perch' ei, chiamati
Gli Achei criniti a parlamento, imbrigli
Que* Proci baldi cbelfòl suo palagio
L'intero gregge sgozzangli^ .e l'armento
Bai piedi torti ^ dalle torte coi^n^.
Ciò fatto, a Pilo io manderpHo e a^ Sparta ,
Acciocché sapiJià-del suo. pajo^d^re;
Se udirne gli avv^ni^e in qtfaicBe narte,^
Ed anch' ei fan)a^ viaggiando acquisti.
Detto così,^sotto l'etèrne pianta
Si stnnse i bei talar d'oro, immortali ,
Che lei sul mar, lei su l' immensa terra
Col soffio trasportavano del vento.
Poi la grande afferrò lancia pesante,
Forte, massiccia, di appuntato rame
Guernita in cima, onde le intere doma
Falangi degli eroi, con cui si sdegna,
E a cui sentir fa di qual padre è nata.
Dagli alti gioghi del beato Olimpo
Rapidamente in Itaca discese,
Si fermò all'atrio del palagio in faccia,
Del cortil nu la soglia, e le sembianze
Vestì di Mente, il condottier de'Tafi.
La forbita in sua man lancia sfavilla.
Nel regale atrio, e su le fresche pelli
Degli uccisi da lor pìngui giovenchi
Sedeano, e trastullavansi tra loro
Con gli schierati combattenti bossi
Della Regina i mal vissuti drudi.
Trascorrean qua e là serventi e araldi
Frattanto: altri mescean nelle capaci
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lo ODISSÈA (v. 156.19Ì)
Urne l'umor deiruva e il fresco fonte;
Altrrie mense con forata e ingorda
Spugna tergeano, e le metteane^^ innanzi,
E le molte pHì*tian fumanti carili. ^
Simile a un Dia nella beltà, ma Tieto
Non già dentro del sen, sedea tra i Proci
Telemaco : mirava entro il suo spirto
L'inclito genitor, qual s'ef, d'alcuna
Parte spuntando, a Sbaragliar si desse
Per l'ampia sala gli abborriti prenci,^
E l'onor prisco a ricovrare e il regno.. ^
Fra cotali pensier Pallade scoese,
Né soffrendogli il cor che lo straniero
A. cielo aperto lungamente stesse.
Dritto uscì fuor, s'accostò ad essa, prese
Con una man la sua, con Taltra l'asta,
E queste le drizzò parole alate;.
Porestier, salve. Accoglimento amico
Tu avrai, sporrai le brame tue: ma prima
Vieni i tuoi spirti a rinfrancar col cibo.
Ciò detto, innanzi andava ed il seguià
Minerva. Entrati nell'eccelso albergo,
Telemaco portò Tasta, e appoggioUa
A sublime colonna, ove in astiera
Nitida molte dell'invitto Ulisse
Dormiano arme simili. Indi a posarsi
* Su nobii seggio con sgabello ai piedi
La Dea menò, stesovi sopra un vago
Tappeto ad arte intesto; e un variato
Scanno vicin di lei pose a sé stesso.
Cosi, scevri anibo dagli arditi Proci,
Queir impronto frastuon l'ospite a mensa
Non disagiava; e dell'assente padre
Telemaco potea cercarlo a un tempo.
Ma scorta ancella da bel vaso d'oro
Purissim' onda nel bacil d'argento
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(V. 192-227) LIBRO L 11
Versava, e stendea loro an liscio desco,
Sa cui la saggia dispensiera i pani
Venne a impor candidissimi, e di pronte
Dapi serbate generosa copia;
B carni d'ogni sorta in larghi piatti
Recò l'abile scalco, ed auree tazze ,
Che del succo de' grappoli ricolme
Lor presentava il banditor solerte.
Entraro i Proci, ed i sedili e i troni
Per ordine occupare: acqua gli araldi
Diero alle mani, e di recente pane
I rotondi canestri empier le ancelle.
Ma in quel che i Proci all'imbandito pasto
Stendean la man superba, incoronare
Di vermiglio licer l'urne i donzelli.
Tosto che in lor del pasteggiar fa pago.
Pago del bere il naturai talento,
Volgeano ad altro il core : al canto e al ballo
Che gli ornamenti son d'ogni convito.
Ed un'argentea cetera l'araldo
Porse al buon Femio, che per forza il canto
Tra gli amanti sciogliea. Mentr' ei le corde
Ne ricercava con maestre dita,
Telemaco piegando in vèr la Dea
Si, che altri udirlo non potesse, il capo,
Le parlava in tal guisa: Ospite caro,
Ti sdegnerai se l'alma io t'apro? in mente
Non han costor che suoni e canti. Il credo.
Siedono impune agli altrui deschi, ai deschi
Di tal, le cui bianche ossa in qualche terra
Giacciono a imputridir sotto la pioggia,
le volve nel mare il negro flutto.
Ma s'egli mai lor s'affacciasse un giorno
Ben più che in dosso i ricchi panni e l'oro,
Aver l'ali vorrebbero alle piante.
Vani desiri i una funesta* morte
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12 ODISSEA (v. 228-26
Certo ei trovò, speme non resta, e invano
Favelleriami alcun del suo ritorno:
Del suo ritorno il di piti non s'accende.
Su via, ciò dimmi, e non m'asconder nulla
Chi? di che loco? e di che sangue sei?
Con quai nocchier venistù, e per quàl mod
E su qual nave, in Itaca? Pedone
Giunto per alcun patto io non ti credo.
Di questo ancor tu mi contenta: nuovo
Giungi, o al mio genitor t'unisce il nodo
Dell'ospitalità? Molti stranieri
A' suoi tetti accostavansi; che Ulisse
Voltava in sé d'ogni mortale il core.
Tutto da me, gli rispondea la Diva
Che' ceruleo splendor porta negli occhi.
T'udrai narrare. Io Mente esser mi vanto,
Figliuol d'Anchialo bellicoso, e ai vaghi
Del trascorrere il mar Tafì comando.
Con nave io giunsi e remiganti miei,
Fendendo le salate onde vèr gente
D'altro linguaggio, e a Temesa recando
Ferro brunito per temprato rame,
Ch'io ne trarrò. Dalla città lontano
Fermossi, e sotto il Neo frondichiomoso
Nella baia di Retro il mio naviglio.
Sì, d'ospitalità vincol m'unisce
Col padre tuo. Chieder ne puoi l'antico
Restringendoti seco, eroe Laerte,
Che a città, com'è fama, or piti non viene.
Ma vita vive solitaria e trista
Ne' campi suoi con vecchierella fante.
Che, quandunque tornar dalla feconda
Vigna, per dove si trae a stento, il vede.
Di cibo il riconforta e di bevanda.
Me qua condusse una bugiarda voce.
Fosse il tuo padre in Itaca, da cui
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(t. 264-299) LIBRO i. 13
Stornanlo i Nami ancor; che tra gli estinti
L'illustre pellegrin, no, non comparve.
Ma vivo, e a forza in barbara contrada,
Cui cerchia un vasto mar, gente crudele
Rattienlo: lo rattien gente crudele
Vivo, ed a forza in barbara contrada.
Pur, benché il vanto di profeta, o quello
D'augure insigne io non m'arroghi, ascolta
Presagio non. fallace, che su i labbri
Mettono a me gli Eterni. Ulisse troppo
Non rimarrà della sua patria in bando.
Lo stringessero ancor ferrei legami.
Da quai legami uom di cotanti ingegni
Disvillupparsi non sapria? Ma schietto
Parla: sei tu vera sua prole? Certo
Nel capo e ne* leggiadri occhi ad Ulisse
Molto arieggi tu. Pria che per Troia,
Che tutto a sé chiamò di Grecia il flore.
Sciogliesse anch' ei su le cavate navi,
Io, come oggi appo il tuo, cosi sedea
Spesse volte al suo fianco, ed egli al mio.
D'allora io non più luì, né me vid' egli.
E il prudente Telemaco: Sincero
Risponderò. Me di lui nato afferma
La madre veneranda. E chi fu mai
Che per sé stesso conoscesse il padre?
Oh foss'io figlio d'un che una tranquilla
Vecchiezza colto ne* suoi tetti avesse!
Ma, poiché tu. mei chiedi, al piU infelice
Degli uomini la vita, ospite, io deggio.
Se ad Ulisse Penelope, riprese
Pallade allor dalle cilestre luci,
Ti generò, vollero i Dei che gisse
Chiaro il tuo nome ai secoli più tardi.
Garzon, dal ver non ti partir: che' festa,
Che turba è qui? Qual ti sovrasta cura?
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i
14 ODISSEA (v. 300-335)
Convitto? No2Z6? Genial non parmi
A carco di ciascun mensa imbandita.
Parmi banchetto si oltraggioso e turpe,
Che mirarlo, e non irne in foco d'ira,
Mal può chiunque un'alma in petto chiuda.
Ed il giovane a lui: Quando tu brami
Saper cotanto delle mie vicende,
Abbi, che al mondo non fu mai di questa
Né ricca più nò più innocente casa.
Finché quell'uomo il pie dentro* vi tenne.
Ma piacque altro agli Dei, che, divisando
Sinistri eventi, per le vie più oscure.
Quel, che mi cuoce più, sparir mei fero.
Piangerei, si, ma di dolcezza vóto
Non f^ra il lagrimar, s'ei presso a Troia
Cadea pugnando, o vincitor chiudea
Tra i suoi più cari in Itaca le ciglia.
Alzato avriangli un monumento i Greci,
Che di gloria immortale al figlio ancora
Stato sarebbe. Or lui le crude Arpie
Ignobilmente per lo ciel rapirò:
Peri non visto, non udito, e al figlio
Sol di sturbi e di guai lasciò retaggio.
Che lui solo io non piango: altre e non poche
Mi fabbricare i Numi acerbe cose.
Quanti ha Dulichio, e Same, e la boscosa
Zacinto, e la pietrosa Itaca prenci,
Ciascun la destra della madre agogna.
Ella né rigettar può, né fermare
Le inamabili nozze. Intanto i' Proci
Da mane a sera banchettando, tutte
Le sostanze mi struggono e gli averi;
Né molto andrà che struggeran me stesso.
S'intenerì Minerva, e: Oh quanto, disse
A te bisogna il genitor che metta
Lia ultrice man su i chieditori audaci!
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(y. 336-371) libro i. 15
Sol ch'ei con elmo e scudo, e con due lance
Sul limitar del sao palagio appena
Si presentasse, quale io prima il YiàU
Che, ritornato d'Ef ra, alla nostra
Mensa ospitai si giocondava assiso
(Ratto ad Efira andò, chiedendo ad Ilo,
Di Mermero al figliuol, velen mortale,
Onde le frecce unger volea, veleno.
Che non dal Mermerìde, in cui de' Numi
Era grande il timor, ma poscia ottenne
Dal padre mio che deramente amollo).
Sol ch'ei cosi si presentasse armato.
De' Proci non saria cui non tornasse
Breve la vita e il maritaggio amaro.
Ma venir debba di si trista gente
A vendicarsi o no, su le ginocchia
Sta degli Dei. Ben di sgombrarla quinci
Vuoisi l'arte pensare. Alle mie voci
Porrai tu mente? Come il ciel s'inalbi
De' Greci i capi a parlamento invita.
Ragiona franco ad essi e al popol tutto
Chiamando i Numi in testimonio, e ai Proci
Nelle lor case rientrare ingiungi.
La madre, ove desio di nuove nozze
Nutra, ripari alla magion d'Icario,
Che ordinerà le sponsalizie, e ricca
Dote apparecchierà, quale a diletta
Figliuola è degno che largisca un padre.
Tu poi se non ricusi un saggio avviso,
Ch' io ti porgo, seguir, la meglio nave
Di venti e forti remator guernisci,
E, del tuo genitor molt'anni assente
Novelle a procacciarti, alza le vele.
Troverai forse chi ten parli chiaro,
quella udrai voce fortuita in cui
Spesso il cercato ver Giove nasconde.
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16 ODISSEA (v. 372-4<
Pria vanne a Pilo, e interroga Fantico
Nestore: Sparta indi t'accolga, e il prode
Menelao biondo, che dalFarsa Troia
Tra i loricati Achivi ultimo giunse.
Vive, ed è Ulisse in sul ritorno? un anno.
Benché dolente, sosterrai. Ma dove
Lo sapessi tra l'Ombre, in patria riedi
E qui gli ergi un sepolcro^ e i più solenni
Rendigli, qual si addice, onor funebri,
E alla madre presenta un altro sposo.
Dopo ciò, studia per qual modo i Proci
Con inganno tu spegna, o alla scoperta:
Che de* trastulli il tempo e de' balocchi
Passò, ed uscito di pupillo sei.
Non odi tu levare Oreste al cielo.
Dappoi che uccise il fraudolento Egisto,
Che il genitor famoso aveagli morto?
Me la mia nave aspetta e i miei compagni
Cui forse incresce questo indugio. Amico,
Di te stesso a te caglia, e i miei sermoni
Converti in opre: d'un eroe l'aspeito
Ti veggio: abbine il core, acciò risuoni
Porte ne' dì futuri anco il tuo nome.
Voci paterne son, non che benigne,
D'Ulisse il figlio ripigliava: ed io
GuarderoUe nel sen tutti i miei giorni.
Ma tu, per fretta che ti punga, tanto
Fermati almen che in tepidetto bagno
Entri, e conforti la dolce alma, e lieto
Con un mio dono in man, torni alla nave:
Don prezioso per materia ed arte.
Che sempre in mente mi ti serbi; dono
Non indegno d'un ospite che piacque.
No, di partir mi tarda, a lui rispose '
L'occhicerulea Drva. Il bel presente i
Allor l'accetterò, che, questo mare
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(T. 408-443) LIBRO I. 17
RinaTÌgando, per riporml in Tafo,
T'offrirò un dono anch' io che al tuo non ceda.
Cosi la Dea dagli occhi glauchi; e forza,
Infondendogli, e ardire a Ini nel petto
La per sé viva del suo padre immago
Ravvivando piti ancora, alto levossi,
E, veloce com' aquila, disparve.
Da maraviglia, poiché seco in mente
Ripetè il tutto, e s'avvisò del Nume,
Telemaco fu preso: indi già fatto
Di sé stesso maggior, venne tra i Proci.
Taciti sedean questi, e nell'egregio
Vate conversi tenean gli occhi; e il vate
Quel difficil ritorno che da Troia »
Pallade ai Greci destinò crucciata,
Della cetra d'argento al suon cantava.
Nelle superne vedovili stanze
Penelope, d'Icario la prudente
Figlia, raccolse il divin canto, e scese
Per l'alte scale al basso, e non già sola ,
Che due seguianla vereconde ancelle.
Non fu de' Proci nel cospetto giunta,
Che s'arrestò della Dedalea sala
L'ottima delle donne in su la porta.
Lieve adombrando l'una e l'altra gota
Co' bei veli del capo, e tra le ancelle
Al sublime cantor gli accenti volse.
Femio, diss'ella, e lagrimava, Femio,
Bocca divina, non hai tu nel petto
Storie infinite ad ascoltar soavi
Di mortali e di Numi imprese altere
Per cui tocqan la cetra i sacri vati?
Narra di quelle, e taciturni i prenci
Le colme tazze votino, ma cessa
Canzon molesta che mi spezza il cuore.
Sempre che tu la prendi in su le corde;
Oditfea 9
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18 ODISSEA (v.r444-479)
Il cuor, cui doglia, qual non mai da donna
Provossi, invase, mentre aspetto indarno
Cotanti anni un eroe, che tutta empieo
Del suo nome la Grecia, e eh' è il pensièro
De' giorni miei, delle mie notti è il sogno.
madre mia, Telemaco rispose.
Lascia il dolce cantor che e* innamora
Là gir co' versi dove l'estro il porta.
I guai che canta, non li crea già il vate;
Giove li manda, ed a cui vuole, e quando.
Perchè Femio racconti i tristi casi
De' Greci, biasmo meritar non parmi ;
Che quanto agli uditor giunge più nuova,
Tanto più" loro aggrada ogni canzone.
Udirlo adunque non ti gravi, e pensa
Che del ritorno il dì Troia non tolse
Solo ad Ulisse; d'altri eroi non pochi
Fu sepolcro comune. Or tu risali
Nelle tue stanze, ed ai lavori tuoi.
Spola e canocchia, intendi ; e alle fantesche
Commetti, o madre, travagliar di forza.
II favellar fra gli uomini assembrati
Cura è dell'uomo, e in questi alberghi mia
Più che d'ogni altro ; però eh' io qui reggo.
Stupefatta rimase, e del figliuolo
Portando in mezzo l'alma il saggio detto.
Nelle superne vedovili stanze
Ritornò con le ancelle. Ulisse a nome
Lassù chiamava, il fren lentando ai pianto,
Finché invidie l'occhiglauca Palla
Sopitor degli affanni un sonno amico.
1 drudi, accesi via più ancor, che prima
Del desio delle nozze a quella vista.
Tumulto fean per l'oscurata sala,
E Telemaco ad essi: della madre
Vagheggiatori indocili e oltraggiosi,
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(V. 480515) LIBRO I. 19
Diletto dalla mensa or si riceva,
Né si schiamazzi mentre canta un vate
Che uguale ai Numi stessi è nella Toce.
Ma, riapparsa la bell'Alba, tutti
Nel fòro aduneremci, ov* io^dirovvi
Senza paurs», che di qua sgombriate;
Che gavazziate altrove; che Tun l'altro
Inviti alla sua volta, e il suo divori.
Che se disfare impunemente un solo
Vi par meglio, seguite. Io dell'Olimpo
Gli abitatori invocherò, né senza
Fiducia, che il Saturnio a colpe tali
Un giusto guiderdon renda, e che inulto
Tinga un di queste mure il vostro sangue.
Morser le labbra ed inarcar le ciglia
A si franco sermon tutti gli amanti.
E Antinoo, il fìgliuol d'Eupite: Di fermo
A ragionar, Telemaco, con sensi
Sublimi e audaci t'imparare, i Numi.
Guaì, se il paterno scettro a te porgesse
Nella cinta dal mare Itaca Giove!
Benché udirlo, Telemaco riprese,
Forse, Antinoo, t* incresca, io noi ti celo:
Riceverolo dalla man di Giove.
Parriati una sventura? Il più infelice
Dal mio lato io non credo in fra i mortali
Chi re diventa. Di ricchezza il tetto
Gli splende tosto, e piU onorato ei vanne.
Ma la cinta dal mare Itaca molti
Si di canuto pel, come di biondo,
Chiude, oltre Antinoo, che potran regnarla,
Quando sotterra dimorasse il padre.
Non però ci vivrà chi del palagio
La signoria mi tolga, e degli schiavi,
Che a me solo acquistò l'invitto Ulisse.
Eurimaco di Polibo allor surse:
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^0 ODISSEA (v. 516-551)
Qual degli Achei sarà d'Itaca il rege.
Posa de' Numi onnipossenti in grembo.
Di tua magion tu il sei; né de* tuoi beni,
Finché in Itaca resti anima viva,
Spogliarti uomo ardirà. Ma dimmi, o buono.
Chi è quello strànier? Dond'ei partissi?
Di qnal terra si gloria^ e di qual ceppo,
Del padre non lontan forse il ritorno
T'annunzia? o venne in' questi luoghi antico
Debito a dimandar? Come disparve
Ratto! come parea da noi celarsi!
Certo d'uom vile non avea Taspetto.
Ah, ripigliò il garzon, del genitore
Svanì, figlio di Polibo, il ritorno!
Giungano ancor no.velle, altri indovini
L'avida madre nel palagio accolga,
Né indovin più né piti novelle io curo.
Ospite mio paterno è il forestiere.
Di Tafo, Mente, che figiiuol si vanta
Del bellicoso Anchialo, e ai Tafi impera*
Tal rispondea: ma del suo cor nel fondo
La calata di ciel Dea riconobbe.
I Proci al ballo ed al soave canto
Rivolti trastullavansì, aspettando
Il buio della notte. Della notte
Lor sopravenne il buio, e ai tetti loro
Negli occhi il sonno ad accettar n'andaro.
Telemaco a corcarsi, ove secreta
Stanza da un lato del cortil superbo
Per lui construtta si spiccava all'aura»
Salse, agitando molte cose in mente.
E con accese in man lucide faci
Il seguiva Euriclèa, l'onesta figlia
D'Opi di Pisenór, che già Laerte
Col prezzo comperò di venti tori,
Quando fìoriale giovinezza in volto: ,
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(v. 552-587) LIBRO i. 21
Né cara men della consorte l'ebbe,
Benché, temendo i coniugali sdegni,
Del toccarla giammai non s'attentasse.
Con accese il seguia lucide faci:
Più gli portava amor, che ogni altra serva,
Ed ella fu che il rallevò bambino.
Costei gli apri della leggiadra stanza
La porta: sovra il letto egli s'assiso;
Levò la sottil veste a sé di dosso,
E all'amorosa vecchia in man la pose,
Che piegolla con arte, e alla caviglia
L'appese accanto il traforato letto.
Poi d'uscire affrettavasì: la porta
Si trasse dietro per Fanel d'argento.
Tirò là fune, e il chiavistello corse.
Sotto nn fior molle di tessuta lana
Ei Yolgea nel suo cor per queir intéra
Notte il cammin che gli additò Minerva.
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LIBRO SECONDO
ARGOMENTO
Convocasione del parlamento — Telemaco si richiama dei
Proci al popolo, e agli ottimati. — Antinoo. capo di quelli
il più temerario, ritorce V accusa contra la madre, e vuole
eh* ei la costringa di scegliersi un nuovo marito tra essi,
mercecchè il ritorno d'Ulisse non è più da sperarci. — Ma
il figlio gli risponde, non dover far ciò. né potere. Giove
manda due aquile; donde il vecchio Aliterse pronostica vi-
cino il ritorno d'Ulisse; e n'è ingiuriato da Eurimaco. l'al-
tro capo de' Proci, ma men ribaldo. — Dimanda che Tele-
maco fa d'una nave per andare a Pilo ed a Sparta. — Men-
tore si studia di eccitare il popolo contra i Proci; eLeo-
crito il minaccia, e scioglie il parlamento. Telemaco, riti-
ratosi in riva del mare , priega Minerva . che gli appare
sotto la figura di Mentore, e l'assistenza sua gli promette.
— Egli rientra nel palagio,- e richiede la nutrice Euricléa
del viatico. — Dolore di questa per la partenza. — Giunta
la notte, il giovinetto imbarcasi con Minerva, che, par sotto
la figura di Mentore, l'accompagna.
Come la figlia del mattin, la bella
Dalle dita di rose Aurora surse,
Sarse di letto anche il figliuol d'Ulisse,
I suoi panni vestìy sospese il brando
Per lo pendaglio all'omero; i leggiadri
Calzari strinse sotto i molli piedi,
E della stanza nsci rapidamente
Simile ad un degl'immortali in volto,
Tosto agli araldi dall'arguta voce
^hiamare ìmpo36 i capelluti Aclùvi;
(v. 11-46) LIBRO li. 23
E questi, al gridar loro accorsi in fretta,
Si ragunaro, s'affollare. Ei pure
AI parlamento s'avviò: tra mano
Stavagli un'asta di polito rame,
E dae bianchi il seguian cani fedeli.
Stupia ciascun, mentr'ei mutava il passo,
E il paterno sedil, che dai vecchioni
Gli fu ceduto, ad occupar sen già:
Tanta in quel punto e si divina grazia
Sparse d'intorno a lui Pallade amica.
Chi ragionò primiero? Egizio. illustre.
Che il dorso avea per l'età grande in arco,
E di vario saver ricca la mente.
Su le navi d'Ulisse alla feconda
Di nobili destrier ventosa Troia
Andò il più caro de* figliuoli, Antifo;
E a lui dio morte nel cavato speco
Il ciclope crudel, che la cruenta
S'imbandì del suo corpo ultima cena.
Tre figli al vecchio rimanean: l'un detto
Eurinomo, co' Proci erasi unito,
E alla coltura de* paterni campi
Presedean gli altri due. Ma in quello, in quello
Che più non ha, sempre s*affisa il padre.
Che nel pianto i di passa, e che si fatte
Parole allor, pur lagrimando, sciolse:
O Itacesi, uditemi. Nessuna,
Da che Ulisse levò nel mar le vele.
Qui si tenne assemblea. Chi adunò questa?
Giovane, o veglio? E. a che? Primo udì forse
Di estrania gente che s'appressi armata?
O d'altro, da cui penda il ben comune.
Ci viene a favellar? Giusto ed umano
Costui, penso, esser dee. Che che s'aggiri.
Per la sua mente, il favorisca Giove!
Telemaco gioia di tali, accenti,
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24 ODISSEA (v. 47-82)
Quasi d'ottimo angario, e sorto in piedi.
Che il pungea d'arringar giovane brama,
Trasse nel mezzo, dalla man del saggio
Tra gli araldi Pisenore lo scettro
Prese, e ad Egizio indi rivolto: 0, disse,
Buon vecchio, non è assai quinci lontano
L'uom che il popol raccolse: a te dinanzi.
Ma qual, cui punge acuta doglia, il vedi.
Non di gente che a noi s'appressi armata,.
Né d'altro, da cui penda il ben comune
10 vegno a favellarvi. A. far parole
Vegno di me, d'un male, anzi di duo,
Che aspramente m'investono ad un'ora.
11 mio padre io perdei! Che il dico mio?
Popol d'Itaca, il nostro: a tutti padre.
Più assai che re, si dimostrava Ulisse.
E a questa piaga, ohimè! l'altra s'arroge.
Che ogni sostanza mi si sperde, e tutta
Spiantasi dal suo fondo a me la casa.
Noioso assedio alla ritrosa madre
Poser de* primi tra gli Achivi i figli.
Perchè di farsi a Icario, e di proporgli
Trepidan tanto che la figlia ei doti,
E a consorte la dia cui più vuol bene?
L'intero dì nel mio palagio in vece
Banchettan lautamente, e il fior del gregge
Struggendo, e dell'armento, e le ricolme
Della miglior vendemmia urne votando,
Vivon di me: né v'ha un secondo Ulisse,
Che sgombrar d'infra noi vaglia tal peste.
Io da tanto non son, né uguale all' opra
In me si trova esperienza e forza.
Oh cosi le avess'io, com'io le bramo!
Poscia che il lor peccar varca ogni segno
E, che più m'ange, con infamia io péro.
Deh s'accenda in voi pur nobil dispetto;
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(v. 83-118) LIBRO li. 25
Temete il biasmo delle genti intorno,
Degrimmortàli Dei, non forse cada
Delle colpe de* Proci in yoi la pena,
L'ira temete. Per Tolimpìo Giove,
Per Temi che i consigli assembra e scioglie
Costoro, amici, d'aizzarmi contro
Restate, e me lasciate a quello in preda
Cordoglio sol, che il genitor mi reca.
Se non che forse Ulisse alcuni offese
De' prodi Achivi, ed or s'intende i torti
Vendicarne sul figlio, E ben, voi stessi
Stendete ai beni la rapace destra:
Meglio fora per me, quando consunti
Suppellettil da voi fessemi e censo.
Da voi, dond'io sperar potrei restauro.
Vi assalirei per la città con blande
Parole ad uno ad un, né cesserei,
Che tutto in poter mio pria non tornasse,
E di nuovo s'ergesse in pie il mio Stato.
Ma or dolori entro del petto, a cui
Non so rimedio alcun, voi mi versate.
Detto così gittò lo scettro a terra.
Ruppe in lagrime d'ira, e viva corse
Di core in cor nel popolo pietade.
Ma taciturni, immoti, e non osando
Telemaco ferir d'una risposta.
Tutti staTano i Proci. Antinoo solo
Sorse, e arringò: Telemaco, a cui bolle
Nel petto rabbia che il tuo dir sublima,
Quai parole parlasti ad onta nostra?
Improntar sovra noi macchia si nera?
Non i migliori degli Achei: la cara
Tua madre, e l'arti, ond'è maestra, incolpa.
Già il terzo anno si volse, e or gira il quarto,
-Che degli amanti suoi prendesi gioco.
Tutti di speme e d'impromesse allatta,
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26 0DIS8BA (v. 119-154)
Manda messaggi a tutti, ed altro ha in core.
Questo ancor non pensò novello inganno?
Tela sottile, tela grande, immensa,
A oprar si mise o a sé chiamonne, e disse:
Giovani, amanti miei, tanto vi piaccia,
Poiché già Ulisse tra i defunti scese.
Le mie nozz» indugiar, ch'io questo possa
Lugubre ammanto per Teroe Laerte,
Acciò le fìla inutili io non perda.
Prima fornir, che Tinelemente Parca
Di lunghi sonni apportatrice il colga.
Non vo' che alcuna delle Achee mi morda.
Se ad uom, che tanto avea d'arredi vivo.
Fallisse un drappo in cui giacersi estinto.
Coù simil fola leggiermente vinse
Gli animi nostri generosi. Intanto,
Finché il giorno splendea, tessea a tela
Superba, e poi la distessea la no Ite
Al complice chiaror di mute facifc
Cosi un triennio la sua frode ascose,
E deluse gli Achei. Ma come il quarto
Con le volubil ore anno sorvenne.
Noi, da un'ancella non ignara istrutti,
Penelope trovammo, che la bella
Disciogliea tela ingannatrice: quindi
Compierla dovè al fin, benché a dispetto.
Or, perché a te sia noto e ai Greci il tutto.
Ecco risposta che ti fanno i Proci.
Accommiata la madre, e quel di loro,
Che non dispiace a Icario, e a lei talenta,
A disposar costringila. Ma dove,
Le doti usando, onde la ornò Minerva.
Che man formelle così dotta, e ingegno
Tanto sagace, e accorgimenti dielle.
Quali non s'udir mai né dell'antiche
Di Grecia donne dalle belle trecce,
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;v. 155-190) LIBRO II. ZI
Tiro, Alcmena, Micene, a cui le menti
Di sì fini pensier mai non fiorirò;
Bove credesse lungo tempo a bada
Tenerci ancor, la sua prudenza usata
Qui Tabbandoneria. Noi tanto il figlio
Consumerem, quanto la madre in core
Serberà questo suo, che un Dio le infuse,
Strano proposto. Eterna gloria forse
K so procaccerà, ma gran difetto
Di vettovaglia a te; mentre noi certo
Da te pensiam non istaccarci, s'ella
Quel, che le aggrada più, pria non impalma.
Io, rispose Telemaco, di casa
Colei sbandir, donde la vita io tengo?
Dal cui lattante sen pendei bambino?
Grave in oltre mi fora, ov' io la madre
Dipartissi da me, sì ricca dote
Tornare a Icario. Crucceriasi un giorno
L'amato genitor, che forse vive.
Benché lontano, e punirianmi i Numi,
' Perch* ella, slontanandosi, le odiate
Imploreria vendicatrici Erinni.
Che le genti dirian? No, tal congedo
Non sarà mai ch'io liberi dal labbro.
L'avete voi per mal? Da me sgombrate,
Gozzovigliate altrove; alternamente
L'un l'altro inviti, e il suo retaggio scemi.
Che se disfare impunemente un solo
Vi par meglio, seguite. Io dell'Olimpo
Gli abitatori invocherò, né senza
Speme che il Saturnide a tai misfatti
La debita mercè renda, e che inulto
Scorra nel mio palagio il , vostro sangue.
Sì favellò Telemaco, e dall'alto
Del monte due volanti aquile a lui
Mandò l'eterno onmveggente Giove,
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28 0DI8SBÀ (v. 191-226)
Tra lor vicine, distendendo i vanni^
Fendean la vana regìon de* venti.
Né prima fur dell'assemblea sul mezzo,
Che si volsero in giro, e, Tali folte
Starnazzando, e mirando a tutti in faccia.
Morte augurare: al fin, poiché a vicenda
Con l'unghie il capo insanguinato e il collo
S'ebber, volare a destra e dileguarsi
Della città su per gli eccelsi tetti.
Maravigliò ciascuno; e ruminava
Fra sé quai mali promettesse il fato.
Quivi era un uom di molto tempo e senno,
Di Mastore figliuol, detto Aliterse,
Che nell'arte di trar dagli osservati
Volanti augelli le future cose,
Tutti vinceva i più canuti crini.
Itacesi, ascoltatemi, e più ancora
M'ascoltin, di^se, i Proci, a cui davante
S'apre un gran precipìzio. Ulisse lungi
Da' cari suoi non rimarrà molt'anni.
Che parlo? ei spunta, e non ai soli Proci,
Strage prepara e morte: altri e non pochi
Che abitiam la serena Itaca, troppo
Ci accorgerem di lui. Consuìtiam dunque
Come gli amanti che pel meglio loro
Cessar dovrian per sé, noi raffreniamo.
Uom vi ragiona de' presagi esperto
Per lunghissima prova. Ecco maturo j
Ciò ch'io vaticinai quando per Troia I
Scioglieano i Greci, e Ulisse anch'ei sarpava.
Molti, io gridai, patirà duoli, e tutti
Perderà i suoi: ma nel ventesìm' anno, I
Solo e ignoto a ciascun, farà ritorno. i
Già si compie l'oracolo: tremate.
Folle vecchiardo, in tua magion ricovra,
Eurimaco di Polibo rispose, :
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(v. 227-262) LIBRO li. 29
E oracoleggia ai figli tuoi, non forse
Grl' incolga un di qualche infortunio. Assai
Più là di te.n:ei vaticini io veggio.
Yolan, riyolan mille augelli e mille
Per l'aere immenso, e non dibatton tutti,
Sotto i raggi del Sol penne fatali.
Quinci lontano peri Ulisse. Oh fossi
Tu perito con lui! Ohe non t'udrammo
Profetare in tal guisa, e il furor cieco
Secondar di Telemaco, da cui.
Qualche don, credo, alle tue porte attendi.
Ma oracol più verace odi. Se quanto
D'esperienza il bianco pel t'addusse
A sedurre il fanciullo e a più infiammarlo
L'adopri, tu gli nuoci, a* tuoi disegni
Non giovi, e noi tale ìmporremti multa.
Che morte fiati il sostenerla, lo poi
Tal consiglio al fanciul porgo: la madre
Rimandi a Icario: che i sponsali e ricca,
Qaal dee seguir una diletta figlia.
Dote apparecchierà. Prima io non penso
Che da questa di nozze ardua tenzone
I figli degli Achei vorran giù tòrsi.
Di nessun temiam, non, benché tanto
Loquace, di Telemaco; né punto
Del vaticinio ci curiam, che indarno
T'uscii vecchio di bocca, e che fruttarti
Maggiore odio sol può. Fine i conviti
Non avran dunque, e non sarà mai calma,
Finché d*oggi in doman costei ci mandi.
Noi ciascun di contenderem per lei.
Né ad altre donne andrem, quali ha l'Acaia
Degne di noi, perchè cagion primiera.
Dell' illustre contesa é la virtude.
Eurimaco e voi tutti, il giovinetto
Soggiu!U3e aUor, competitori alteri,
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30 ODISSEA (v. 263-a
Non più: già tutti il sanno, nomini e Dei.
Or non tì chiedo che veloce nave
Con dieci e dieci poderosi remi,
Che sul mar mi trasporti. Ali-arenosa
Pilo ed a Sparta valicare io bramo»
Del padre assente per ritrar s' io mai .
Trovar potessi chi men parli chiaro,
quella udir voce fortuita in cui
Spesso il cercato ver Giove nasconde.
Vivrà? ritornerà? Benché dolente,
Sosterrò un anno. Ma se morto e fatto
Cenere il risapessi, al patrio nido
Riederò senza indugio; e qui un sepolcro
Gli iJzerò; renderògli i piti solenni
Qual si convien funebri onori, e un altro
Sposo da me riceverà la madre.
Tacque e s'assise; e Mentore levossi^
Del padre *1 buon compagno, a cui su tutto
Vegghiar, guardare il tutto, ed i comandi
Seguitar di Laerte, Ulisse ingiunse.
Quando per Talto sai mise la nave.
Itacesi, tal parlava il saggio
Vecchio, alle voci mie l'orecchio date.
Né giusto più, né liberal, né mite.
Ma iniquo, ma inflessibile, ma crudo
D*ora innanzi un re sia, poiché tra gente
Su cui stendea scettro paterno Ulisse,
Più non s'incontra un sol cui viva in core.
Che arroganti rivali ad opre ingiuste
Trascorran ciechi della mente, io taccio.
Svelgono, é ver, sin dalle sue radici
La casa di quel grande, a cui disdetto
Sperano il ritornar, ma in rischio almeno
Pongon la vita. Ben con voi m* adiro,
Con voi, che muti, ed infingardi e vili
Vi state lì, né d'un sol motto il vostro
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{v. 209S34)- tTBRO ti. 31
Signore inclito aitate. Ohimè! dai pochi
Restano 1 molti soverchiati e vinti.
Mentor, non so qual piti, se audace o stolto ,
Leocrito d* E.venore rispose ,
Che mai dicesti! ? Centra noi tu ardisci
Il popolo eccitar? Non lieve impresa
Una gente assalir, che per la mensa
Brandisca Tarmi, e i piacer suoi difenda.
Se lo stesso re d'Itaca tornato
Scacciar tentasse i banchettanti Proci,
Scarso del suo ritorno avria diletto
Questa sua donna che il sospira tanto,
E morire il vedria morte crudele.
Benché tra molti er combattesse: quindi
Del tuo parlar la vanità si scorge.
Ma su, via, dividetevi, e alle vostre
Faccende usate vi rendete tutti.
Mentore ed Aliterse, che fedeli
A Telemaco son paterni amici,
Gli metteran questo viaggio in punto.
Bench'ei del padre le novelle, invece
Di cercarle sul mar, senza fatica
Le aspetterà nel suo palagio, io credo.
Disse; e ruppe il concilio. I cittadini
Scioglieansi Tun dall'altro, e alle lor case
Qua e là s'avviavano: d'Ulisse
Si ritirare alla magione i Proci.
Ma dalla turba solitario e scevro
Telemaco rivolse al mare i passi.
Le mani asterse nel canuto ms^re ,
E supplicò a Minerva: Diva amica.
Che degnasti a me ier scender dal cielo
E fender Tonde m'imponesti, un padre
Per rintracciar, che non ritorna mai,
Il tuo solo favor puommi davante
QV inciampi tór, che m' opporranno 1 Greci,
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32 ^ 0DIS8BA <v. 335-370)
E più, che altr* uom in Itaca, i malvagi
Proci, la cui superbia ognor più monta.
Cosi pregava; e se gli pose allato
Con la faccia di Mentore e la voce
Palla, e a nome chiamoUo, e feb tai detti:
Telemaco, né ardir giammai nò senno
Ti verrà men, se la virtù col sangue
Trasfuse in te veracemente Ulisse, «
Che quanto impreso avea, quanto avea detto,
Compiea mai sempre. Il tuo viaggio vóto
Non andrà, qual temer, dove tu figlio
Non gli fossi, io dovrei. Vero è che spesso
Dal padre il figlio non ritrae: rimane
Spesso da lui lungo intervallo indietro,
E raro è assai che il giungalo od il passi.
Ma senno a te non verrà men, né ardire,
Ed io vivere Ulisse in te già veggo.
Lieto dunque degli atti il fine spera:
Né t'anga il vano macchinar de' Proci,
Che non sentono, incauti e ingiusti al paro.
La nera parca che gli assai da tergo.
Ed in un giorno sol tutti gli abbranca.
Io, d'Ulisse il compagno, un tale aiuto
Ti porgerò, che partirai di corto.
Su parata da me celere nave,
E con me stesso al fianco, in su la poppa.
Orsù, rientra nel palagio, ai Proci
Novamente ti mostra, ed apparecchia
Quanto al viaggio si richiede, e il tutto
Riponi: il bianco nelle dense pelli
Gran macinato, ch^è dell'uom la vita,
E nell'urna il licer che la rallegra.
Compagni a radunarti in fretta io movo
Che ti seguano allegri. Ha sull* arena
Molte l'ondicerchiata Itaca navi
Novelle e antiche : ne' salati fiutti
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(v. 371-406)^ LIBRO IL 33
Noi lancerem senza ritardo armata
Qual miglior mi parrà veleggi atrice.
Così di Giove la celeste figlia:
Né più, gli accenti dalla Diva uditi,
S'indugiava Telemaco. Al palagio,
Turbato dalla mente ire affrettossi.
E trovò i Proci, che a scoiar capretti,
E pingui ad abbronzar corpi di verri.
Nel cortile intendeano. Il vide appena
Che gli fu incontro sogghignando, e il prese
Per mano Antinoo, e gli parlò in tal guisa:
molto in arringar, ma forte poco
Nel dominar te stesso, ogni rancore
Scaccia dal petto, e, qual solevi, adopra
Da prode il dente, e i eolmi nappi asciuga.
Tutto gli Achei t'allestiran di botto:
Nave e remigi eletti, acciò tu possa
Ratto varcando alla divina Pilo,
Correr del padre tuo dietro alla fama.
E Telemaco allor: sedermi a mensa.
Con voi, superbi, e una tranquilla gioia
Provarvi, a me non lice. Ah non vi basta
Ciò che de* miei piti preziosi beni
Nella prima età mia voi mi rapiste?
Ma or ch'io posso dell'altrui saggezza
Giovarmi, e sento con le membra in petto
Cresciutami anco l'alma, io disertarvi
Tenterò pure, o eh' io qui resti, o parta ;
Ma parto, e non invan, spero: e su nave
Parto non mia, quando al fìgliuol d'Ulisse,
Né ciò sembravi sconcio, un legno manca.
Tal rispose cruciato, e destramente
Dalla man d'Antinòo la sua disvelse.
Già il convito apprestavano, ed acerbi
Motti scocca van dalle labbra i Proci.
Certo, dicea di quei protervi alcuno,
Oditsea ' r^r^r^T,
DigitizedbyVjOOvl*
e
34 ODISSEA (v. 407-442)
Telemaco un gran danno a noi disegna.
Da Pilo aiuti validi o da Sparta
Menerà seco, però ch'ei non vive
Che di sì fatta speme: o al suol fecondo
D'Efira condurassi, e ritrarranno
Fiero velen, che getterà nell' urne
Con man furtiva; e noi berem la morte.
E un altro ancor de' pretendenti audaci :
Chi sa eh* egli non men, sul mar vagando,
Dagli amici lontano un di non muoia.
Come il suo geùitor? Carco più grave
Su le spalle ne avremmo: il suo retaggio
Partirci tutto, ma la casta madre,
E quel di noi ch'ella scegliesse a sposo,
Nel palagio lasciar sola con solo.
Telemaco frattanto in quella scese
Di largo giro, e di sublime volta
Paterna sala, ove rai biondi e rossi
L'oro mandava e l'ammassato rame;
Ove nitide vesti, e di fragrante
Olio gran copia chiudean l'arche in grembo;
E presso al muro ivano intorno molte
Di vino antico, saporoso, degno
Di presentarsi a un. Dio, gravide botti .
Che del ramingo, travagliato Ulisse
Il ritorno aspettavano. Munite
D'opportuni serrami eranvi, e doppie
Con lungo studio accomodate imposte;
Ed Euriclèa, la vigilante figlia
D'Opi di Pisenorre il dì e la notte
Questi tesori custodia col senno.
Chiamolla nella sala, e a lei tai voci
Telemaco drizzò: Nutrice, vino,
Su via, m' attigni delicato, e solo
Minor di quel che a un infelice serbi.
Se mai, scampato dal destin di morte,
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(T. 443-478) LIBRO u. 35
Comparisce tra noi. Dodici n'empi
Anfore, e tutte le suggella. Venti
Di macinato gran giuste misure
Versami ancor ne' fedeli otri, e il tutto
Colloca in un: ma sappilo tu sola.
Come la notte a le superne stanze
La madre inviti, e al solitario letto,
Per tai cose io verrò: che l'arenosa
Pilo visitar voglio, e la ferace
Sparta, e ad entrambe domandar del padre.
Dio un grido, scoppiò in lagrime, e dal petto
Eurielèa volar feo queste parole:
Donde a te, caro figlio, in mente cadde
Pensiero tal? Tu, Tunico rampollo
Di Penelope, tu, la nostra gioia.
Per tanto mondo raggirarti? Lungo
Dal suo lido perì l'inclito Ulisse
Fra estranio genti; e perirai tu ancora.
Sciolta la fune non avrai, che i Proci
Ti tenderanno agguati, uccideranti,
E tutte partirannosi tra loro
Le spoglie tue. Deh qui con noi rimani,
Con noi qui siedi, e su i marini campi
Che fecondi non son che di sventure.
Lascia che altri a sua posta errando vada.
Fa' cor, Nutrice, ei le risponde tosto:
Senza un Nume non è questo consiglio.
Ma giura che alla madre, ov' aura altronde
Non le ne giunga prima e ten richiegga,
Nulla dirai, che non appaia in cielo
La dodicesim' aurora; onde col pianto
Al suo bel corpo ella non rechi oltraggio.
L'ottima vecchia il giuramento grande
Giurò de* Numi ; e a lui versò ne* cavi
Otri, versò nell'anfore capaci,
Le candide farine e il rosso vino.
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86 ODissBA (v. 478^514)
Ei nella sala un' altra volta entrato
Tra i Proci s'avvolgea: né in questo mezzo
Stavasi indarno la Tritonia Palla.
Vestite di Telemaco le forme,
Per tutto si mostrava, ed appressava
Tutti, e loro ingiungea che al mare in riva
Si raccogliesser nottetempo, e il ratto
Legno chiedea di Fronio, al figlio illustre
A Noemón, cui non chiedealo indarno.
S'ascose il sole, e in Itaca ornai tutte
S'inombravan le vie.* Minerva il ratto
Legno nel mar tirò, l'armò di quanto
Soffre d'arnesi un' impalcata nave,
E al porto in bocca l'arrestò. Frequenti
Si raccoglieano i remator forzuti
Sul lido, e inanimavali la Bea
Ballo sguardo azzurrin, che altro disegno
Concepì in mente. La magion d'Ulisse
Ritrova, e sparge su i beenti Proci
Tal di sonno un vapor, che lor si turba
L'intelletto e confondesi, e di mano
Casca sul desco la sonante coppa.
Sorse, e mosse ciascuno al proprio albergo.
Nò fu più nulla del sedere a mensa:
Tal pondo stava su le lor palpebre.
Ma Tocchiglauca Bea, ripreso il volto
Bi Mentore e la voce, e richiamato
Fuor del palagio il giovinetto, disse:
Telemaco, ciascun de' tuoi compagni.
Che d'egregi schinier veston le gambe.
Già siede al remo, e, se tu arrivi, guarda.
Ciò detto, la via prese, ed il garzone
Seguitavano l'orme. Al mar calati
Trovar sul lido i capelluti Achivi,
Cui di tal guisa favellò la sacra
Di Telemaco possa: Amici, in casa,
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(v. 51&-548) LIBRO II. 37
Quanto al cammìn bisogna, unito giace:
Trasportarlo è mestieri. Né la madre
Sa, nò, fuor che una, il mio pensier le ancelle.
Tacque e loro entrò innanzi ; e quelli dietro
Teneangli. Indi con le anfore e con gli otri
Come d'Ulisse il caro figlio ingiunse,
Tornaro, e il carco nella salda nave
Deposero. Il garzon sopra vi salse
Preceduto da Pallade, che in poppa
S'assise; accanto ei le sedea: la fune
I remiganti sciolsero, e montaro
La negra nave anch'essi, e i banchi empierò.
Tosto la Dea dalle cerulee luci
Chiamò di verso l'Occidente un* vento
Destro, gagliardo, che battendo venne
Su pel tremulo mar l'ale sonanti.
Mano, mano agli attrezzi, alior gridava
Telemaco; ov'ò l'albero? I compagni
L'udirò, e il grosso e lungo abete in alto
Drizzare, e l'impiantavo entro la cava
Base, e di corda l'annodaro al piede:
Poi tiravano in su le bianche vele
Con bene attorti cuoi. Gonfiò nel mezzo
Le vele il vento; e forte alla carena
L'azzurro mar romoreggiava intorno,
Mentre la nave sino al fin del corso
Su l'elemento liquido volava.
Legati i remi del naviglio ai fianchi
Incoronare di vin maschio l'arno,
£ a ciascun degli Dei sempre viventi
Libaro, ma più a te, figlia di Giove,
Che le pupille di cilestro tingi.
II naviglio correa la notte intera,
E dei suo corso alfin giungea eoa l'alba.
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LIBRO TERZO
ARGOMENTO
Arrivo di Tslemaco a Pilo, mentre ^Nestore i^griflcava so-
lennemente a Nettuno. ->- Il Re lo accoglie cortesemente,
Telemaco se gli da a conoscere, e dimandagli novella de-
padre. — Nestore racconta ciò che nel ritorno da Troia èl
avvenuto a sé e ad altri eroi della Grecia, fermandosi più
a lungo sopra Agamennone. — Ma d'Ulisse nulla sa dirgli:
bensì lo consiglia di andare a Sparta, e richiederne Mene
lao, che giunse di fresco dopo un lungo viaggiò. — Spa
risione di Minerva, che sotto la figura di Mentore avea ac-
compagnato Telemaco. — Nestore , che la riconobbe , le fa
il dì appresso un sacrifizio solenne : e commette a Pisi-
strato, un de' suoi figli, di condurre a Sparta Telemaco so-
vra un cocchio. — Partenza de* due garzoni su Talba del
giorno seguente.
Uscito dalle salse acque Termiglie
Montava il sole per l'eterea volta
Di bronzo tutta, e in cielo ai Dei recava,
Ed agli uomini il di su Talma terra:
Quando alla forte Pilo, alla cittade
Fondata da Nelèo, giunse la nave.
Stavano allor sacrificando i Pili
.Tauri sul lido tutti negri al Dio
Dai crini azzurri, che la terra scuote.
Nove d'uomini squadre, e in ogni squadra
Cinquecento seduti, e per ciascuna
Svenati nove buoi, di cui, gustate
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(v. 13-4é) LIBRO 111. 39
Le interiora, ardean le cosce al Nume.
La nave intanto d'ugual fianchi armata
Se ne venia dirittamente a proda.
Le vele ammainar, pigliare il porto,
Nel lido si gittaro. Ei pur gittossi
Telemaco, e Minerva il precedea.
La Dea dagli occhi di ceruleo tinti,
Che gli accenti al garzon primiera volse:
Telemaco, depor tutta oggi ò d*uopo
La pueril vergogna. Il mar passasti,
Ma per udir dóve s'asconda e a quale
Destin soggiacque il generoso padre.
Su, dunque; dritto al domator t'avvia
Di cavalli Nestorre, onde si vegga
Quel ch'ei celato nella mente porta.
Il ver da ìnu se tu nel chiedi, avrai;
Poiché mentir non può cotanto senno.
Il prudente Telemaco rispose:
Mentore, per qual modo al Rege amico
M'accosterò? Con qual saluto? Esperto
Non sono ancor del favellar de* saggi,
Né consente pudor, che a far parole
Cominci col più vecchio il men d'etade.
Ma di tal guisa ripigliò la Dea
Cui cilestrino lume i rai colora :
'^Telemaco, di ciò che dir dovrai.
Parte da sé ti nascerà nel core.
Parte nel cor la ti porranno i Numi.
Che, a dispetto di questi in luce, io credo,
Non ti mandò la madre, e non ti crehbe.
Cosi parlando, frettolosa innanzi
Palla si mise, ed ei le andava dopo.
Fur tosto in mezzo all'assemblea de' Pili,
Ove Nestor sedea co* figli suoi.
Mentre i compagni, apparecchiando il pasto
Altre avvampavan delie carni, ed altri
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40 ODISSEA (v. 49-84)
Nelli spiedi infilzavanle. Adocchiati
Ebbero appena i forestier, che incontro
Lor si fero in un gruppo, e gli abbracciaro,
E a seder gl'invitaro. Ad appressargli
Pisistrato fu il primo, un de' figliuoli
Del Re. Li prese ambi per mano, e in molli
Pelli onde attappezzata era la sabbia,
Appo la mensa gli adagiò tra il caro
Suo padre ed il germano Trasimede;
Delle vìscere calde ad ambi porse ;
E, rosso vin ijiescendo in tazza d*oro,
E alla gran figlia dell'egioco Giove
Propinando, stranier, dissele, or prega
Dell'acque il Sir, nella cui festa i nostri
Lidi cercando, t'abbattesti appunto,
Ma, i libamenti, come più s'addice.
Compiuti, e i prieghi, del licer soave
Presenta il nappo al tuo compagno, in cui
Pur s'annida, cred'io, timor de' Numi,
Quando ha mestier de' Numi ogni vivente.
Meno ci corse di vita, e d'anni eguale
Parmi con me : quindi a te pria la coppa.
E il soave lìcer le pose in mano.
Godea Minerva che l'uom giusto pria
Offerto il nappo d'oro avesse a lei,
E subito a Nettun così pregava: ♦
Odi, Nettuno, che la terra cingi,
E questi voti appagar degna. Eterna
Gloria a Nestorre ed ai suoi figli in prima,
E poi grata mercede a tutti i Pili
Dell'inclita ecatombe. Al mio compagno
Concedi in oltre e a me, che, ciò fornito
Perchè venimmo su le patrie arene
Con la negra torniam rapida nave.
Tal supplicava, e adempiere intendea
Questi voti ella stessa. Indi al garzone
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(v. 65.120) LIBRO ni. 41
La bella offri gemina coppa e tonda;
Ed una eguai preghiera il caro figlio
D'Ulisse alzò. S*abbrustolaro intanto
Le pingui cosce, degli spiedi acuti'
Si dispiccare, e si spartirò: al fine
L'alto si celebrò prandio solenne.
Giunto al suo fin, cosi principio ai detti
Dava il Gerenio cavalier Nestorre :
Gli ospiti ricercare allora è bello,
Che di cibi e di vini hanno abbastanza
Scaldato il petto, e rallegrato il core.
Forestieri, chi siete ? e da quai lidi
Prendeste a frequentar Tumide strade ?
Trafficate voi forse? v'aggirate.
Come corsali, che la dolce vita,
Per nuocere ad altrui, rischian sul mare?
Telemaco, a cui Palla un nuovo ardire
Spirò nel seno, acciò del padre assente
Nestore interrogasse, e chiaro a un tempo
Di sé spargesse per le genti il grido:
O degli Achei, rispose, illustre vanto,
Di satisfare ai desir tuoi son presto.
Giungiam dalla seduta a pie del Neo
Itaca alpestre, ed è cagion privata
Che a Pilo ci menò. Del padre io movo
Dietro alla fama, che riempie il mondo,
Del magnanimo Ulisse, onde racconta
Pubblica voce che i troiani muri.
Combattendo con teco, al suol distese.
Degli altri tutti che co' Troi pugnare.
Non ìgnoriam dove finirò i giorni, .
Ma di lui GiovQ ancor la morte volle .
Nasconderci; né alcun sin qui poteo
Dir se in terra o sul mar, se per nemico
Brando incontrolla, o alle irate onde in grembo.
Eccomi or dunque alle ginocchia tue.
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4à ODISSÈA (v. 121-156)
Perchè tu la mi narri, o vista l'abbi
Con gli occhi propri, o dalle labbra udita
D'un qualche pellegrin ; però che molto
Disventurato il partorì la madre.
Nò timore, o pietà, del palesarmi
Quanto sai, ti ritenga. Ah! se l'egregio
Mio padre in opra o in detto unqua ti feo
Bene o comodo alcun, là ne' troiani
Campi che tinse il vostro sangue, o Greci,
Tel rimembra ora, e non tacermi nulla.
Ed il Gerenio cavalier Nestorre:
Tu mi ricordi, amico, i guai, che molti
Noi prole invitta degli Achei patimmo,
quando erranti per le torbid'ondo
Ce no andavam sovra le navi in traccia
Di preda, ovunque ci guidasse Achille:
. allor che pugnavam sotto le mura
Della cittade alta di Priamo, dove
Grecia quasi d*eroi spenta rimase.
Là cadde Achille e il marziale Aiace,
Là Patroclo nel senno ai Dei vicino,
Queir Antiloco là forte e gentile.
Mio diletto figliuol, che abil del pari
La mano ebbe ai conflitti, e al corso il piede.
Se tu, queste sciagure ed altre assai
Per ascoltar, sino al quint'anno e al sesto
Qui t'indugiassi, dalla noia oppresso
Leveresti di nuovo in mar le vele.
Ch'io non sarei del mio racconto a riva.
Nove anni, offese macchinando, a Troia
Ci travagliammo intorno ; e, benché ogni arte
Vi s'adoprasse, d'espugnarla Giove
Ci consenti nel decimo a fatica.
Duce col padre tuo non s'ardia quivi
Di accorgimento gareggiar: cotanto
Per inventive Ulisse e per ingegni
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{v. 157-192) Lififeo tiì. 43
Ciascun vincea. Certo gli sei tu figlio,
E me ingombra stopor, mentr'io ti guardo :
Chò ì detti rassomigliansi, e ne' detti
Tanto di lui tenere uom che d'etade
Minor tanto è di lui, vero non parmi.
L'accorto Ulisse ed io, nò in parlamento
Mai nò in concilio, parlavam diversi ;
Ma, d'unse mente con maturi avvisi
Quel che dell'oste in prò tornar dovesse.
Disegnavamo. Rovesciata l'alta
Città di Priamo, e i Gròci in su le ratte
Navi saliti, si divise il campo:
Cosi piacque al Saturnio; e ben si vide
Da quell'istante, che un ritorno infausto
Ci destinava il Correttor del mondo.
Senno non era nò giustizia in tutti:
Quindi il malanno che su molti cadde,
Per lo sdegno fatai dell'Occhiglauca
Di forte genitor nata, che cieca
Tra i due figli d'Atreo discordia mise.
A parlamento in sul cader del Sole
Chiamare incauti, e centra l'uso, i Greci,
Che intorbidati dal vapor del vino
Gli Atridi ad ascoltar trassero in folla.
Menelao prescrivea che l'oste tutta
Le vele aprisse del ritorno ai venti :
Ma ritenerla in vece Agamennone
Bramava, e offrir sacre ecatombe, il fiero
Sdegno a placar dell'oltraggiata Diva.
Stolto! che non sapea ch'erano indarno:
Quando per fumo d'immolati tori
Mente i Nami non cangiano in un punto.
Così, garrendo di parole acerbe,
Non si movean dal lor proposto. Intanto
Con insano clamor sórser gli Achivi
Ben gambierati; e l'un consiglio agli uni,
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44 ODISSBA (v. 199-B28)
L'altro agli altri piacea. Funeste cose
La sotte in mezzo al sonno agìtayamo
Dentro di noi : che del disastro il danno
Giove ci apparecchiava. Il di comparso,
Tirammo i legni nel divino mare,
E su i legni velivoli le molte
Robe imponemmo, e le altocinte schiave.
Se non che mezza Toste appo TAtrìde
Agamennón rimanea ferma: l'altra
Dava ne' remi, e per lo mar pescoso,
Che Nuttuno spianò, correa veloce.
Tenedo preso, sagrifici offrimmo,
Anelando alla patria: ma nemico
Dagli occhi nostri rimoveala Giove,
CRe di nuovo partì tra loro i Greci.
Alcuni che d'intorno erano al ricco
Di scaltrimenti Ulisse, e al Re de' Regi
Gratificar volean, torsero a un tratto
Le quinci e quindi remiganti navi ;
Ma io de' mali che Tavverso Nume
Divisava, m'accorsi, e con le prore.
Che fide mi seguian, fuggii per l'alto.
Fuggi di Tideo il bellicoso figlio,
Tutti animando i suoi. L'acque salate
Solcò pili lento, e in Lesbo al fine il biondo
Menelao ci trovò, che della via
Consigliavam : se all'aspra Chic di sopra,
Psiria lasciando dal sinistro l^to,
in vece sotto Chic, lungo il ventoso
Mimanta, veleggiassimo. D'un segno
Nettun pregammo: ci mostrò un segno, e il mare
Noi fendemmo nel mezzo, e deU'£ubea
Navigammo alla volta, onde con quanta
Fretta si potea più, condurci in salvo.
Sorse allora e soffiò stridulo vetito,
Che volar per le aere onde, e nottami
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(t. 229-264) LIBRO in. 45
Sorger ci feo sovra Geresto, dove
Sbareammo, e al Nume dagli azzurri crini,
Misurato gran mar, molte di tori
Cosce ponemmo in su la viva brace.
Già il dì quarto splendea, quando i compagni
Del prode ne* cavalli Diomede
Le salde navi riposare in Argo ;
Ed -io vèr Pilo sempre il corso tenni
Con quel vento, cui pria mandato in poppa
M'aveano i Numi, e che non mai s'estinse.
Così, mio caro figlio, ignaro io giunsi,
Né so nulla de* Greci o spenti o salvi.
Ciò poi che intesi ne* miei tetti^ assiso,
Celare a te certo non vuoisi. È fama
Che^ felice ritorno ebber gli sporti
Della lancia Mirmidoni, che il degno
Figliuol guidava deiraltero Achille.
Felice l'ebbe Filottete ancora.
L'illustre prole di Peante. In Creta
Rimenò Idomenèo quanti compagni
Con la vita gli uscir fuori dell'arme:
Un sol non ne inghiotti l'onda vorace.
D'Agamennón voi stessi, e come venne,
Benché lontani dimoriate, udiste,
E qual gli tramò Egisto acerba morte.
Ma già il fio ne pagò. Deh quanto è bello
Che il figliuol .dell'estinto in vita resti !
Quel deirAtride vendicossi a pieno
Dell'omicida fraudolento e vile,
Che morto aveagli si famoso padre.
Quinci e tu, amico, però ch'io ti veggio
Di sembiante Aon men grande che bello,
Fortezza impara, onde te pure alcuno
Benedica di quei che un di vivranno.
Nestore, degli Achei gloria immortale,
Telemaco riprese, ei vendicossi,
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46 ODissBA. (v. 265-d0(
£ al cielo i Greci innalzeranlo, e il nome
Nel canto se n'udrà. Perchò in me ancora
Non infuser gli Dei tanto di lena,
Che dell'onte de' Proci e delle trame
Potessi a pieno ristorarmi anch'io?
Ma non a me, non ad Ulisse e al figlio
Tanta felicità dagl'Immortali
Fu destinata ; e tollerar m'ò forza.
Poiché tai mali, ripigliò Nestorre,
Mi riduci alla mente, odo la casa
Molti occuparti a forza, e insidiarti
Vagheggiatori della madre. Dimmi:
Volontario piegasti al giogo il collo?
in odio, colpa d'un oracol forse,
1 cittadini t'hanno? Ad ogni modo,
Chi sa che il padre ne' suoi tetti un giorno
Non si ricatti, o solo, o con gli Achivi
Tutti al suo fianco, di cotanti oltraggi?
Se te cosi Pallade amasse, come
A Troia, duol de' Greci, amava Ulisse
(Sì palese favor d'un Nume, quale
Di Pallade per lui, mai non si vide).
Se ugual di te cura prendesse, ai Proci
Della mente uscirian le belle nozze.
E d'Ulisse il figliuol: Tanto io non penso
Che s'adempia giammai. Troppo dicesti,
Buon vecchio, ed io ne maraviglio forte ;
Che ciò bramar, non conseguir, mi lice,
Non, se agli stessi Dei ciò fosse in grado.
Qual ti sentii volar fuori de' denti,
Telemaco, parola? allor soggiunse
La Dea che lumi cilestrini gira.
Facile a un Dio, sempre che il voglia, uom vivo
Ripatrìar dai più remoti lidi,
lo per me del ritorno anzi terrei
Scorgere il di dopo infiniti guai,
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(v. 961-336) LIBRO m. 47
Cka rieder prima, e nel suo proprio albergo
Cader, come d*£gisto, e delFlnfida
Moglie per frode il miserando Atride.
La morte sola, comun legge amara,
Oli stessi Bei nò da un amato capo
Distornarla potrian, quandunque sopra
Gli venga in sua stagion l'apportatrice
Di lunghi sonni disamabil Parca.
E temo io ben, Telemaco rispose.
Che una morte crudel, non il ritorno.
Prefìssa gli abbia, o Mentore, il destino.
Ma di questo non più; benché agli afflitti
Parlare a un tempo e lagrimar sia gioia.
Io Toglio d'altro dimandar Nestorre,
Che Tede assai più là d*ogni mortale,
E l'età terza, qual si dice, or regna.
Tal che mirare in lui sembrami un Nume.
Figlio di Neleo, il ver mi narra. Come
Chiuse gli occhi Agamennone, il cui regno
Stendeasi tanto? Menelao dov'era ?
Qual morte al sommo Agamennone ordia
L'iniquo Egisto, che di vita uom tolse
Tanto miglior di so? Non era dunque
Nell'Argo Acaica Menelao? Ma forse
Lontano errava tra straniere genti,
E quei la spada, imbaldanzito, strinse.
Ed il Gerenio cavalier Nestorre :
Figlio, quant'io dirò, per certo il tieni.
Tu feristi nel segno. Ah I se l'illustre
Menelao biondo, poiché apparve in Argo,
Nel palagio trovava Egisto in vita.
Non si spargea sul costui morto corpo
Un pugno scarso di cavata terra :
Fuor delle mura sovra il nudo campo
Cani e augelli voravanlo, nò un solo
Delle donne d*Acaia occhio il piangea.
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48 ODISSEA '(v. 3S7-372)
Noi sotto Troia, travagliando in armi,
Passavan le giornate ; ed ei nel fondo
Della ricca di paschi Argo tranquilla
Con detti aspersi di dolce veleno
La moglie dell' Atride iva blandendo.
Rifuggia prima dall'indegno fatto
La vereconda Clitennestra, e retti
Pensier nutria, standole a fianco il vate,
Cui di casta serbargliela l'Atride
Molto ingiungea, quando per Troia sciolse.
Ma, sorto il dì che cedere ad Egisto
La infelice dovea, quegli, menato
A un'isola deserta il vate in seno,
Colà de' feri volator pastura
Lasciollo, e strazio; e ne* suoi tetti addusse.
Non ripugnante, l'infedel Regina.
E molte cosce del cornuto armento
Su l'are il folle ardea, sospendea molti
Di drappi d'oro sfavillanti doni,
Compiuta un'opra che di trarre a fine
Speranza ebbe assai men, che non vaghezza,
Già partiti di Troia, e d'amistade
Congiunti, battevam lo stesso mare
Menelao ed io ; ma divenimmo al sacro
Promontorio d'Atene, al Sunio, appena.
Che il suo nocchier, che del corrente legno
Stava al governo, un'improvvisa uccise
Di Febo Apollo mansueta freccia,
L'onetoride Fronte, uom senza pari
Co* marosi a combattere e co' venti.
L'Atride, benché in lui gran fretta fosse.
Si fermò al Sunio, ed il compagno piange,
E d'esequie onorollo e di sepolcro.
Poi, rientrato in mare, e al capo eccelso
Giunto della Malèa, cammin felice
Non gli donò l'onniveggente Giove.
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(v. 3t*-4Ò8j i/iBRo in. 4§
Venti fltrideflti e smisurati datti,
Che ai monti non cedean, contro gli mosse:
E ne disgiunse i legni, e parte a Creta
Ne spinse là 've albergano i Gìdoni
Alle correnti del Giordano in riva.
Liscia e pendente sovra il fosco mare
Di Gortina al confìn sorge una rupe,
Contro alla cui sinistra, e non da Festo
Molto lontana punta, Austro i gran flutti
Caccia ; li frange un piccoletto sasso.
Là percotèndo si fiaccaro i legni,
Scampate l'aline a gran fatica; e sola
Cinque altre navi dall'azzurra prora
Portò sovra l'Egitto il vento e l'onda.
Mentre con queste Menelao tra genti
D'altra favella s'aggirava, e forza
Vi raccogUea di vettovaglia e d'oro,
Tutti ebbe i suoi de^ir l'iniquo Egisto:
Agamennóne a tradimento spense,
Soggettossi gli Argivi, ed anni sette
Della ricca Micene il fren ritenne.
Ma l'ottavo anno ritornò d'Atene
Per sua sciagura il pari ai Numi Oreste,
Che il perfido assassin del padre illustre
Spogliò di vita, e la funebre cena
Agli Argivi imbandi per l'odiosa
Madre non men, che per l'imbelle drudo.
Lo stesso giorno Menelao "comparve,
Tanta ricchezza riportando seco,
Che del pondo gemean le stanche navi^
Piglio, non l'imitar, non vagar troppo,
Lasciando in preda le sostanze ai Proci, -
Che ciò tra lor che non avran consunto,
Partansi, e il viaggiar ti torni dantio*
Se non ch'io bramo, anzi t'esorto e stringo,
Che il Re di Sparta trovi. Ei testé giunse,
OdUua 4
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50 ODISSEA (v, 409^444
Donde altri , òhe in quel mar furia di crude
Vento cacciasse, perderia la speme
Di rieder piti: mar cosi immenso e orrendo
Che nel giro d'un anno augel non varca.
Hai nave ed hai compagni. E se mai fosse
Più di tuo grado la terrestre via,
Cocchio io darotti e corridori ; e i mìei
Figli, che guideranti alla divina
Sparta, ove il biondo Menelao soggiorna.
Pregalo, e non temer che le parole
Re si prudente di menzogna inveiva.
Disse; e tramontò il Sole, e buio venne.
Qui la gran Diva dal ceruleo sguardo
Si frappose cosi : Buon vecchio, tutto
Dicesti rettamente. Or via, le lingue
Taglinsi, e di licer s'empian le tazze.
Poscia, fatti a Nettuno e agli altri Numi
I libamenti, si procuri ai corpi
Riposo e sonno, come il tempo chiede.
Già il Sol s'ascose, e non s'addice al sacro
Troppo a lungo seder prandio solenne.
Così Palla, né indarno. Acqua gli araldi
Dier subito alle man, di vino l'urne
Coronare i donzelli, ed il recaro.
Con le tazze augurando, a tutti in giro.
I convitati s'alzano, e le lingue
Gittan sui fuoco, e libano. Libato
Ch'ebbero, e a voglia lor tutti bevuto.
Palla e d'Ulisse il deiforme figlio
Ritirarsi voleano al cavo legno.
Ma Nestore fermolli, e con gentile
, Corruccio, Ah ! Giove tolga, e gli altri, disse,
Non morituri Dei, ch'ire io vi lasci.
Qual tapino mortale a cui la casa
Di vestimenti non abbonda e coltri,
Ove gli ospiti suoi, non ch'egli, avvolti
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(v. 445^480) LIBRO ìit. 51
Mollemente s*adclormino. Credete
Che a me vesti. non sieno e coltri beUeT
No, 8u palco di nave il figlio caro
Di eotant'uom non giacerà, me vivo,
E vivo nn sol de' figli miei, che quanti
Verranno alle mie case ospiti accolga.
O vecchio amico, replicò la Diva,
Cui sfavilla negli occhi azzurra luce,
Motto da te non s'ode altro che saggio.
Telemaco, ubbidire io ti consiglio.
Che meglio puoi ? Te dunque, oNestor, siegua^
E s'adagi in tua casa. Io ver la nave
A confortar rivolgomi, e di tutto
Gli altri a informar: però ch'io tutti vinco
Qua* giovani d'età, che non maggiori
Di Telemaco sono, e accompagnarlo
YoUer per amistade. In sul naviglio
Mi stenderò : ma, ricomparsa l'alba,
A.Ì Caucòni magnanimi non lieve
Per ricevere andrò debito antico.
E tu questo garzon, che a te drizzossi.
Nel cocchio manda con un figlio, e al cocchio
De* corridori che in tue stalle nutri,
I più ratti gli accoppia, e più gagliardi.
Qui fine al dir pose la Dea cui ride
Sotto lo ciglia un azzurrino lume,
E si levò com'aquila, e svanio.
Stupì chiunque v'era, ed anco il veglio,
Visto il portento, «'ammirava: e, preso
Telemaco per man, nomollo e disse:
fien conosc'ora che dappoco e imbelle,
Figliuol mio, non sarai, quando compagni
Cosi per tempo ti si fanno i Numi.
Degli abitanti dell'Olimpie case
Chi altri esser porla, che la pugnace
I Figlia di Giove, la tritonia Palla,
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52 ODISSEA (7. 4«Ì*16)
Che l*egrégìo tuo padre in fra gli Achivi
Favori ognor? Propizia, o gran Regina,
Guardami, e a me co* figli e con la casta
Consorte gloria non vulgar concedi.
Giovenca io t'offrirò di larga fronte,
Che vide un anno solo, e ai giogo ancora
Non sottopose la cervice indoma.
Questa per te cadrà con le vestite
Di lucid'oro giovinette corna.
Tal supplicava, e Tudi Palla. Quindi
Generi e figli al suo reale ostello
Nestore precedea. Giunti, posaro
Su gli scanni per ordine e su i troni.
Il Re canuto un prezioso vino.
Che dalla scoverchiata urna la fida
•Custode attinse nell'undecim'anno,
Lor mescea nella coppa, e alla possente
Figlia libava deiregioco Giove,
Supplichevole orando. E gli altri ancora
Libare, e a voglia lor bebbero. Al fine
Trasser, per chiuder gli occhi, ai tetti loro.
Ma nella sua magione il venerato
Nestore vuol che del divino Ulisse
La cara prole in traforato letto
Sotto il sonante portico s'addorma ;
E) accanto a lui Pisistrato, di gente
Capo, e il sol de' fìgliuoi che sin qui viva
Celibe vita. Ei del palagio eccelso
Si corcò nel più interno ; e la reale
Consorte il letto preparògli e il sonno.
Tosto che del mattin la bella figlia
Con le dita rosate in cielo apparve,
Surse il buon vecchio, usci del tetto, e innanzi
S'assise all'alte porte in su i politi,
Bianchi e d'unguento luccicanti marmi,
«Su cui sedea, par nel consiglio ai Numit
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(v. 517-562) LIBRO in. £3
Neléo, che, Tinto dal destin di morte,
Nelle case di Fiuto era già sceso.
Nestore allora, guardian de' Greci,
Lio scettro in man, sedeavi. I f gli, usciti
Di loro stanza maritale anch'essi,
Frequenti al Tecchio si stringeano intorno
Gchefròne, Perseo, Strazio ed Areto,
G il nobil Trasimede a cui s'aggiunse '
Sesto l'eroe Pisistrato. Menare
D'Ulisse il figlio deiforme, e al fianco
Collocarlo del padre, che le labbra
In* queste voci aprì: Pigli diletti,
Senza dimora il voler mio fornite.
Prima tra i numi l'Atenèa Minerva
Non degg'io venerar che nel solenne
Banchetto sacro manifesta io vidi?
Un di voi dunque ai verdi paschi vada
Perchè tirata dal bifolco giunga
Katto la vaccherella. Un altro mova
Dell'ospite alla nave, e, salvo due.
Tutti i compagni mi conduca. E un terzo
Laerce chiami, l'ingegnoso mastro.
Della giovenca ad inaurar le corna.
Gli altri tre qui rimangano, e all'ancelle
Faccian le mense apparecchiar, sedili
Apportar nel palagio, e tronca selva
£ una pura dal fonte acqua d'argento.
Non indarno ei parlò. Venne dal campo
La giovinetta fera, e dalla nave
Dell'ospite i compagni; il fabbro venne
Tutti recando gli strumenti e l'armi,
L'incude, il buon martello e le tanaglie
Ben fabbricate, con che l'or domava;
Nò ai sacrifici suoi mancò la Diva.
Nestore dio il metallo ; e il fabbro, come
Pomato l'ebbe, ne vesti le corna
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54 ODiMu (Y. £68.588
Della giovenca, aeciocchò Palla visto
Quel fulger biondo, ne gioiate in ocre.
Per le corna la vittima Echefriéne
Guidava, e Strazio: dalle stanze Areto
Purissim'onda in un bacile a vaghi
Fiori intagliato d'una man portava.
Orzo dell'altra in bel canestro, e sale;
Il bellicoso Trasimede in pugno
Stringea l'acuta scure, che sul capo
Scenderà della vittima ; ed il vaso
Ohe il sangue raccorrà, Perseo tenea.
Ma de' cavalli il domator, l'antico
Nestore il rito cominciò: le mani
S'asterse, sparse il salat'orzo, e a Palla
Pregava molto, nell'ardente fiamma
Lo primìzie gittando, i peli svelti
Dalla vergine fronte. Alla giovenca
S'accostò il forte Trasimede allora,
E con la scure acuta onde colpilla,
liei collo i nervi le recise, e tutto
Svigorì il corpo : supplicanti grida
Figliuole alzaro, e nuore, e la pudica
Di Nestor nonna, Euridice, che prima
Di Olimèn tra le figlie al mondo nacque.
Poi la buessa, che giacca, di terra
Sollevar nella testa, e in quel che lei
Reggean così, Pisistrato scannella.
Sgorgato il. sangue nereggiante, e scorso, -
E abbandonate dallo spirto l'ossa.
La divisero in fretta: ne tagliare
Le intere cosce, qual comanda il rito.
Di doppio le covrirò adipe, e i crudi
Brani vi adattar sopra. Ardeale il veglio
Su gli scheggiati rami, e le spruzzava
Di rosso vin, mentre abili donzelli
Spiedi teneazi di cinque punte in maoQt
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Arse. le eosoe e i vìsceri gustati^
Mintiti pezzi fér dell'altro corpo
Che rivolgeano ed abbrostiano infissi
Negli acuti 0chidoBÌ. Polieasta,
La minor figlia di Nestorre, intanto
Telemaco lavò, di bionda Funse
Liquida oliva, e gli vesti una fina
Tunica e un ricco manto; ed egli emerae
Fuor del tepido bagno agl'immortali
Simile in volto, e a Nestore avvioea
Pastor di genti, e gli s'assise al fianco.
Abbrostite le carni ed imbandite,
Sedeansi a banchettar : donzelli esperti
Sorgeano, e pronti di vermiglio vino
Ricolma van le ciotole dell'oro.
Ma. poiché spenti i naturali furo
Della fame desiri e della sete,
Parlò in tal guisa il cavalier Nestorre :
Miei figli, per Telemaco, sa, via,
I corridori dal leggiadro crine
Giungete sotto il cocchio. Immantinente
Quelli ubbidirò, e i corridor veloci
Giunser di fretta sotto il cocchio, in cui
Candido pane e vin purpureo e dapi
Quai costumano i Re di Giove alunni.
La veneranda dispensiera pose.
Telemaco salì, salì Pomata
Biga con lui Pisistrato, di gente
Capo, e accanto assettossigli ; e le briglie
Nella man tolte, con la sfbrza al corso
I cavalli eccitò, che alla campagna .
Si gittàr lieti: de* garzoni agli occhi
Di Pilo s'abbassavano le torri.
Squassavano i destrier tutto quel giorno
Concordi il giogo ch'era lor sul collo.
Tramontò il Sole, ed imbrunian le strade: •
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56 ODISSEA (v. 625-641^
E i due giovani a Fera, e alla magione
Di Diòcle arrivar, dei prode figlio
Di Orsiloco d'Alfèo, dove riposi
Ebber tranquilli ed ospitali doni.
Ma, comeHÌel mattin la bella figlia
Comparve in ciel con le rosate dita,
Aggiogare i cavalli, e la fregiata
Biga salirò, e del vestibol fuori
La spinsero, e del portico sonante
Scosse la sferra il Nestoride, e quelli
Lietamente volare. I pingui campi
Di ricca mèsse biondeggianti indietro
Fuggian Tun dopo l'altro, e si veloci
Gli allenati destrier movean le gambe.
Che ritacense e il Pilìese al fine
Del viaggio pervennero, ohe d*ombrà,
Il Sol caduto, si copria la terra.
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LIBRO QUARTO
ARGOMENTO
Telemaco e Pisistrato gioogono a Sparta nell* atto ohe M»>
nelao celebrava le nozze del figlio Megapente e della fl-
gliaola Ermione. — Menelao ed Elena il riconoscono age-
volmente per figlio di Ulisse. •- Encomi di questo, e com-
mozione in Telemaco, e negli altri ancora . sino alle lagri-
me ; e ai^fizio d* Blena per raffrenarle. — Tutti Tanno a
dormire. — Comparsa V aarora , Menelao ode da Telemaco
con isdegao la insolenza de* Proci : ed a lui narra il suo
viaggio in Egitto, e ciO chMvi intese da Ploteo intomo ad
Agamennone, ad Aiace d* Oilèo . ed anche ad Ulisse. -* I
Proci intanto risolvono d* insidiare Telemaco al tuo ritor-
no, e d* ucciderlo. — Angoscia di Penelope che n* è infor*
imita, e cui Pallade poi gon un sogno piacevole rioonlorta.
Giunsero all'ampia, che tra i monti giace,
Nobil Sparta, e le regali case
Del glorioso Menelao trovare.
Questi del figlio e della figlia insieme
Festeggiava quel di le doppie nozze,
E molti amici banchettava. L'una
Spedia d'Achille al bellicoso figlio,
Cui promessa l'avea sott'llio un giorno,
Ed or compiano il maritaggio i Numi :
Quindi cavalli e cocchi alla famosa
Gittade de'Mirmìdoni condurla
Doveano, e a Pirro che su lor regnava.
E alla figlia d'Alettore Spartano
L'altro, li ga^pliardo Megapente, unia,
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58 OMSSBA (v. 15-50)
Che d'una schiava sua tardi gli nacque:
Poiché ad Elèna gl'immortali Dei
Prole non concedean, dopo la sola
D'amor degna Ermióne, a cui dell'aurea
Venere. la beltà splendea nel volto.
Cosi per l'alto spazioso albergo
Rallegravansi assisi a lauta medsa
Di Menelao gli amici ed i nimici;
Mentre vate divin tra lor cantava,
L'argentea cetra percotendo, e due
Danzatori agilissimi nel mezzo
Contempravano al canto i dotti salti.
r^ell'atrio intanto s'arrestaro i figli
Di Nestore e d'Ulisse. Eteonèo,
Un vigil servo del secondo. Atride,
Primo addocchiolli, e con l'annunzio corse
De' popoli al pastore, ed all'orecchio
Gli sussurrò così : Due forestieri
Nell'atrio, o Menelao di Giove alunno,
Copia d'eroi, che del Saturnio prole
Sembrano in vista. Or di' : sciorre i cavalli
Dobbiamo; o i forestieri a un altro forse
Mancar de' Greci che gli accolga e onori?
D' ira infiammossi, e in cotal guisa il biondo
Menelao gli rispose: di Boète
Figliuolo, Eteonèo, tu non sentivi
Già dello scemo negli andati tempi,
E or sembri a me bamboleggiar co' detti.
Non ti sovvien quante ospitali mense
Spogliammo di vivande anzi che posa
Qui trovassimo al fin, se pur vuol Giovo
Privilegiar dopo cotante pene
La nostra ultima età? Sciogli i cavalli,
E al mio convito i forestier conduci.
Ratto fuor della stanza Eteonòo
Lanciossi ; e tutti a so gli altri chiamavi^
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(t. .51-86) I4BÌU) IV. 1)9
Fidi conservi, Distaccaro i forti
Di sotto il giogo corridor sudaati,
E al presepe gli avvinsero, spargendo
Vena soave di bianc'orzo mista,
E alla parete lucida il vergato
Cocchio appoggiaro. Indi per Tanipie stanze
Guidaro i novelli ospiti, che in giro
D'inusitata moravìglia carche
Le pupille movean: però che grande
Grattava luce, qual di sole o luna,
Del glorioso Menelao la reggia.
Pel piacer sazi, che per gli occhi entrava.
Nelle terse calai:* tepide conche ;
E come fur dalle pudiche ancelle
Lavati, di biond'olio unti, e di molli .
Tunisie cinti e di vellosi manti.
Si coUocaro appo TAtride. Quivi
Solerte ancella da beiraureo vaso
Nell'argenteo hacile un'onda pura
Versava © stendea loro un liscio desco.
Su cui la saggia dispensiera i pani
Venne ad ixnpor bianchissimi e dì pronte
Dapi serbata generosa copia;
E d'ogni sorta carni in larghi piatti
Recò Tabile scalco, e tazze d'oro.
11 Re, stringendo ad ambidue la mano.
Pasteggiate, lor disse, ed alla gioia
Schiudete il cor; poscia, chi siete, udremo.
De' vostri padri non s'estinse il nome,
E da soettrati Re voi discendete. .
Piante colali di radice vile.
Sia loco al vero, germogliar non ponno.
Detto così, l'abbrustolato tergo
Dì pingue bue, che ad cuor grande innanzi
Messo gli avean, d'in su la mensa tolse,
£] innanzi il mise agli ospiti, che pronte
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6Ó ODISBHA (▼. 87-122
Steser le mani ali* imbandita fera.
Ma de' cibi il desir pago e de' vini,
Telemaco piegando in yér l'amico
Si, cbe altri udirlo non potesse, il oapOf
Tale a lui favellò: mira, o diletto
Dell'alma mia, figlio di Nestor, come
Di rame, argento, avorio, elettro ed oro
L'echeggiante magion risplende intorno;
Si fatta, io credo, ò dell'olimpio Giove
L'aula di dentro. Oh gl'infiniti oggetti!
Io meraviglio pit, quanto più guardo.
L'intese il re di Sparta, e ad ambo disse:
Figliuoli miei, chi garreggiar mai puote
De' mortali con Giove? il suo palagio,
Ciò ch'ei dentro vi serba, eterno è tutto.
Quanto all'umana stirpe, altri mi vinca
Di beni, o ceda, io so che molti affanni
Durati, e molto navigato mare,
Queste ricchezze l'ottavo anno addussi.
Cipri, vagando, e la Fenicia io vidi,
E ai Sidoni, agli Egizi e agli Etiopi
Giunsi, e agli Erembi, e in Libia, ove le agnello
Figlian tre volte nel girar d'un anno,
E spuntan ratto agli agnellin le corna;
Nò signore o pastor giammai difetto
Di carne paté, o di rappreso latte,
Ridondando di latte ognora i vasi.
MentrMo vagava qua e là, tesori
Raccogliendo, il fratello altri m'uccise
Di furto, all' improvvista, e per inganno
Della consorte maladetta; quindi
Non lieto io vivo a questi beni in grembo.
Voi, quai sieno, ed ovunque, i padri vostri,
Tanto dalla lor bocca udir doveste.
Che non soffersi? Ruinai dal fondo
Casa di rìpchi arredi e d'agi colma;
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(ir. 128-168) LIBRO iV; t\
Onde piacesse ai Dei ohe sol rìdìAfita
Mi fosse in man delle tre parti Tana,
E spirasser le. vive aare que' prodi
Che Inngi dalla verde Argo ferace
Ne* lati campi d'Ilion perirò!
Tatti io li piango, e li sospiro tutti ,
Standomi spesso uè' miei tetti assiso,
E or mi pasco di care, or novamente
Piglio conforto; che non puote a lungo
Viver l'uom'^di tristezza, e al fin molesto
Torna quel pianto che fa in pria si dolce.
Pare io di tutti in un cosi non m' ango.
E m'ango assai, come d*un sol che ingrato
Mi rende, ove a lui penso, il cibo e il sonno :
Poiché greco nessuno in tutta l'oste,
O il bene oprando, o sostenendo il male,
Pareggiò Ulisse. Ma dispose il fato
Ch'ei tormentase d'ogni tempo, e ch'io
Mesti per sua cagion traessi i giorni.
Io, che noi veggio da tanti anni, e ignoro
Se viva, o morto giaccia. 11 piange intanto
Laerte d'età pieno, e la prudente
P-enelope e Telemaco, che il padre
Lasciò lattante ne' suoi dolci alberghi»
Disse ; e di pianto, subitana voglia
Risvegliossi in Telemaco, che a terra
Mandò lagrime giù dalle palpebre,
Del padre udendo, ed il purpureo manto
Con le mani s'alzò dinanzi al volto.
Menelao ben comprese; e se a lui stesso
Lasciar nomar il padre, o interrogarlo
DoTesse pria, né serbar nulla in petto,
Si e no tenzonavangU nel capo.
Mentre cosi fra due. stava l'Àtride,
Elena dall'eccelsa e profumata
Sua stanza venne con le fide ancelle,
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éé òDisssA (v. 159494)
Che Diana parea dall'arco d'oro.
Bel seggio Adrasta ayyicinòlle, Aloippe
Tappeto in man di molle lana, e Filo
Panier recava di forbito argento,
Don già d'Alcandra , della moglie illustre
Del fortunato Polibo, che i giorni
Nella ricca menava egizia Tebe.
A Menelao due conche argentee, due
Tripodi e dieci aurei talenti ei diede.
Ma la consorte ornar d'eletti doni
Elena volle a parte: una leggiadra
Conocchia d'or le porse, ed il paniere
Ri tondo sotto, e di forbito argento , .
Se non quanto le labbra oro guernia.
Questo ricolmo di sudato stame
L'ancella Pilo le recava, e sopra
Vi riposava la conocchia, a cui
Pini si ravvolgean purpurei velli.
Ella raccolta nel suo seggio, e posti
Sul polito sgabello i molli piedi.
Con questi accenti a Menelao si volse:
Sappiam noi, Menelao di Giove alunno,
Chi sieno i due che ai nostri tetti entraro?
Parlar m'è forza, il vero o il falso io dica:
Però ch'io mai non vidi, e grande tiemmi
Nel veder maraviglia, uom né donna
Così altrui somigliar, come d'Ulisse
Somigliar dee questo garzone al figlio,
Ch'era bambino ancor, quando per colpa
Ahi! di me svergognata, o Greci a Troia
Giste, accendendo una sì orrenda guerra.
Tosto l'Atride dalla bionda chioma:
Ciò che a te, donna, a me pur sembra. Qdelle
Son d'Ulisse le mani, i pie son quelli,
E il lanciar degli sguardi, e il capo e il crine.
Io, ritacese rammentando, i molti
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(t. 198-230) LiÈRO tv. tò
Dìcea disagi ch'ei per me sostenDe;
E il giovane piovea lagrime amare
Giù per le guance , e col purpureo manto,
Ohe alzò ad ambe le man, gli occhi celava.
E Pisistrato allor : Nato d'Atrèo,
Di Giove alunno, condottier d'armati,
Eccoti appunto di quel grande il figlio.
Ma verecondo per natura, e giunto
Novellamente, gli parrebbe indegno
Te delle voci tue fermar nel corso,
Te, di cui, qual d'un Dio, ci beano i detti.
Nestore, il vecchio genitor, compagno
Mi fece a luì, che rimirarti in faccia
Bramava forte, onde poter dell'opra
Giovarsi, o almen del tuo consiglio. Tutti
Quei' guai che un fìgliuol soffre, a cui lontano
Dimora il padre, né d'altronde giunge
Sussidio alcun, Telemaco li prova/
Il genitor gli falla, e non gli resta
Chi dal suo fianco la sciagura scacci.
Numi ! rispose il Re dai biondi crini,
Tra le mie stesse mura il figlio adunque
D'uomo io veggio amicissimo che sempre
Per me s'espose ad. ogni rischio? Ulisse
Ricettare io pensava' entro i miei regni.
Io carezzarlo sovra tutfi i Greci,
Se ad ambo ritornar su i cavi legni
L'olimpio dava onniveggente Giove.
Una io cedere a lui delle vicine
Volea cittadi argive, ov'io comando,
E lui chiamar, che da' nativi sassi
D'Itaca in quella mia, ch'io prima avrei
D'uomini vota e di novelli ornata
Mura e palagi, ad abitar venisse
Col figlio, le sostanze e il popol tutto.
Cosi, vivendo sotto un cielo, e spesso
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64 0DIS8VA (Y. 231^266)
L'un l'altro visitando, avremmo i dolci
Frutti raccolti d'amistà si fida:
Né Tan dall'altro si saria disgiunto
Che steso non si fosse il negro velo
Di morte sovra noi. Ma un tanto bene
Giove c'invidiò, cui del ritorno
Piacque fraudar quell'infelice solo»
Sorse in ciascuno a tai parole un vivo
Di lagrime desio. Piangea la figlia
Di Giove, l'Argiva Elena, piangea
D'Ulisse il figlio, ed il secondo Atride :
Nò asciutte avea Plsistrato le guance.
Che il fratello incolpabile, cui morte
Die dell'Aurora la famosa prole,
Tra sé membrava, e che tai detti sciolse:
Atride, il vecchio Nestore mio padre
Te di prudenza singoiar lodava.
Sempre che in mezzo al ragionare alterno
Il tuo nome venia. Fa', se di tanto
Pregarti io possa, oggi a mio senno. Poco
Me dilettan le lagrime tra i nappi.
Ma del mattin la figlia il nuovo giorno
Ricondurrà: né mi fia grave allora
Pianger chiunque al suo destin soggiacque;
Che solo un tale onore agl'infelici
Defunti avanza, che altri il crin si tronchi
E alle lagrime giuste allarghi il freno.
Anco a me tolse la rea Parca un frate,
Che l'ultimo non fu dell'oste greca.
Tu il sai, che il conoscesti, né vederlo
Potei, né a lui parlar ; ma udii che Antiloco
Su tutti si mostrò gli emuli suoi
Veloce al corso, e di sua man gagliardo.
E Menelao dai capei biondi : Amico,
L'uom più assennato e in più matura etade
Che non è questa tua, né pensamenti
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(v. 267-302) LIBERO IV. 65
Diversi avria, né detti ; e ben «i pare
Agli uni e agli altri da chi tu nascesti,
Ratto la prole d'un eroe si scorge,
Cui del natale al giorno, e delle nozze
Destinò Giove un fortunato corso,
Come al Nelìde che invecchiare ottenne
Nel suo flalagio mollemente, e saggi
Figli mirar, non che dell'asta dotti.
Dunque, sbandito dalle ciglia il pianto,
Si ripensi alla cena, e un'altra volta
La pura su le mani onda si sparga.
Sermoni alterni anche al novello sole
Fra Telemaco e me correr potranno.
Disse; ed AsfalXone, un servo attento,
Spargea su le man Tonda, e i convitati
Novamente eibavansì. Ma in altro
Pensiero allora Elena entrò. Nel dolce
Vino, di cui bevean, farmaco infuse
Contrario al pianto e all'ira, e che l'oblio
Seco induceva d'ogni travaglio e cura.
Chiunque misto col vermiglio umore
Nel seno il ricevè, tutto quel giorno
Lagrime non gli scorrono dal volto.
Non se la madre o il genitor perduto.
Non se visto con gli occhi a sé davante
Figlio avesse o f ratei di spada ucciso.
Cotai la figlia- dell'olimpio Giove-
Farmachi insigni possedea, che in dono
Ebbe da Polidamna, dalla moglie
Di Tene, nell'Egitto, ove possenti
Succhi diversi la feconda terra
Produce, quai salubri e quai mortali;
E dove più, che i medicanti altrove ,
Tutti san del guarir l'arte divina.
Siccome gente' da Peón discesa.
Il nepente già infuso, e a* servi imposto
OdUtea * ^
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66 ODISSEA (v. 303-338;
Versar dell'urne nelle tazze il vino,
Ella così parlò : Figlio d'Atrèo,
E voi d'eroi progenie, i beni e i mali
Manda dall'alto alternamente a ognuno
L'onnipossente Giove. Or pasteggiate
Nella magione assisi, e de' sermoni
Piacer prendete pasteggiando, mentre
Cose io racconto, che saranno a tempo.
Non già eh' io tutte le fatiche illustri
Ricordar sol del paziente Ulisse
Possa, non che narrarle: una io ne scelgo,
Che a Troia, onde gran duol venne agli Argivi,
L'uom forte imprese e a fin condusse. Il corpo
Di sconce piaghe afflisse, in rozzi panni
S'avvolse, e penetrò nella nemica
Cittade occulto, e di mendico e schiavo
Le sembianze portando, ei che de' Greci
Sì diverso apparia lungo le navi.
Tal si gittò nella troiana terra.
Né conoscealo alcuno. Io fui la sola
Che lo ravvisai sotto l'estranie forme,
E tentando l'andava; ed ei pur sempre
Da me schermiasi con l'usato ingegno.
Ma, come asperso d'onda ; unto d'oliva
L'ebbi, di veste cinto, ed affidato
Con giuramento, che ai Troiani prima
Noi manifesterei, che alle veloci
Navi non fosse, ed alle tende giunto,
Tutta ei m'aperse degli Achei la mente.
Quindi, passati con acuta spada
Molti petti nemici, all'oste argiva
Col vanto si rendè d'alta scaltrezza.
Stridi mettean le donne iliache ed urli:
Né io gioia tra me, che gli occhi a Sparta
Già rivolgeansi e il core, e da me il fallo
Si piagneva, in cui Venere mi spinse,
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(v. 339-374) LIBRO iv. 67
Quando staccommi dalla mia contrada,
Dalla dolce figliuola, e dal pudico
Talamo e da un consorte, a cui, saggezza
Si donìandi o beltà nulla mancava.
Tutto, TAtride dalla crocea chioma.
Dicesti, o donna, giustamente. Io terra
Molta trascorsi, e penetrai col guardo
Di molti eroi nel sen ; ma pari a quella
Del paziente Ulisse alma. io non vidi.
Quel che oprò basti, e che sostenne in grembo
Del cavallo intagliato, ove sedea,
Strage portando ad Illio il fior da' Greci.
Sospinta, io credo da un avverso Nume
Cui la gloria de' Teucri a core staTa,
Là tu giugnesti, e uguale a un Dio nel volto
Sa l'orme tue Deìfobo venia.
Ben tre fiate al caro agguato intorno
T'aggirasti; e il palpavi, e a nome i primi
Chiamavi degli Achei, contraffacendo
Delle lor donne le diverse voci.
Nel mezzo assisi io, Diomede e Ulisse
Chiamar ci Udimmo: e il buon Titide ed io
Ci alzammo, e di scoppiar fuor del cavallo
O dar risposta dal profondo ventre.
Ambo presti eravam: ma noi permise,
E, benché ardenti, ci contenne Ulisse.
Taceasi ogni altro, fuor che il solo Anticlo
Che risponder voleati; é Ulisse tosto
La bocca gli calcò con le robuste
Mani inchiodate: né cessò, che altrove
Te rimenato non avesse Palla.
Si, di tutta la Grecia, ei fu salute.
E ciò la doglia, o Menelao, m'accresce,
Ripigliava il garzone. A che gli valse
Tanta virtù, se non potea da morte
Difenderlo, non che altro un cor di ferro?
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68 ODISSEA (v. 375-410)
Ma deh! piacciavi ornai che ritroviamo
Dove posarci , acciò su noi del sonno
La dolcezza ineffabile discenda.
Si disse: e Targiva Elena all' ancelle
I letti apparecchiar sotto la loggia,
Belle gittarvi porporine coltri
E tappeti distendervi, e ai tappeti
Manti vellosi sovrapporre ingiunse.
Quelle, tenendo in naan lucide faci
Uscirò e i letti apparecchiaro : innanzi
Movea 1* araldo, e gli ospiti guidava.
Così nell'atrio s'adagiaro entrambi:
Nel più interno corcavasi TAtride :
E la divina tra le donne Elèna
II sinuoso peplo ond'era cinta
Depose, e giacque del consorte a lato.
Ma come del mattin la bella fglia
Rabbellì il ciel con le rosate dita,
Menelao sorse, rivestissi, appese
Per lo pendaglio all'omero la spada,
E i bei calzar sotto i pie molli avvinse:
Poi somigliante nell'aspetto a un Nume,
Lasciò la stanza rapido, e s'assise
Di Telemaco al fianco; e qual, gli disse,
Cagione a Sparta su l'immenso tergo
Del negro mar, Telemaco, t'addusse?
Pubblico affare o tuo ? Schietto favella.
E in risposta il garzon: Nato d'Atrèo,
Per risaper del genitore io venni.
In dileguo ne van tutti i miei beni.
Colpa una gente nequitosa e audace,
Che gli armenti divorami e le gregge,
E ingombra sempre il mio palagio, e anela
Della madre alle nozze. Io quindi abbraccio
Le tue ginocchia, e da te udir m'aspetto
Tisto, o sulle labbra inteso l'abbi
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(v. 411-446) LIBRO IV. 69
• D'un qualche viandante, il tristo fine
Bel padre mio, che sventurato assai
Bella sua genitrice uscì dal grembo.
Né tinaore o pietà cosi t'assalga,
Che del ver parte ti ramanga in core.
Venne mai dal mio padre in opra o in detto,
Bene o comodo a te là ne' troiani
Campi del sangue della Grecia tinti?
Ecco, di rimembrarlo, Atride, il tempo.
Trasse il monarca dai capei di croco
Un profondo sospiro, e, Ohimè, rispose,
Volean d*un eroe dunque uomini imbelli
Giacer nel letto? Qual se incauta cerva
I cerbiatti suoi teneri e lattanti
Deposti in tana di Leon feroce,
Cerca, pascendo, i gioghi erti e Torbose
Valli profonde, e quel feroce intanto
Riede alla suacaverna, e morte ai figli
Porta, e alla madre ancor: non altrimenti
Porterà morte ai concorrenti Ulisse.
Ed oh piacesse a Giove, a Febo e a Palla,
Che qual si levò un dì centra il superbo
Filomelìde nella forte Lesbo,
E tra le lodi degli Achivi a terra
Con mano invitta, lotteggiando, il pose.
Tal costoro affrontasse ! Amare nozze
Fòran le loro, e la lor vita un punto.
Quanto a ciò che mi chiedi, io tutto intendo
Schiettamente narrarti, e senza inganno
Le arcane cose ch'io da Proteo appresi,
Bai marino vecchion che mai non mente.
Me, che alla patria ritornar bramava,
Presso l'Egitto ritenean gli Bei,
Perchè onorati io non gli avea di sacre
Ecatombi legittime ; che sempre
L'oblio de' lor precetti i Numi offese.
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70 , ODISSEA (v. 447-482;
Giace centra TEgitto, e aironde in mezzo
Un* isoletta che g* appella Faro,
Tanto lontana quanto correr puote
Per un intero dì concavo legno
Cui stridulo da poppa il vento spiri.
Porto acconcio vi s'apre, onde il nocchiero.
Poscia che Tacqua non salata attinse,
Facilmente nel mar vara la nave,
.Là venti dì mi ritenean gli Dei;
Né delle navi i condottieri amici
Comparver mai su per l'azzurro piano,
Le immobili acque ad increspar col flato,
E già con le vivande anco gii spirti
Per fermo si.fallian, se una dea, fatta
Di me pietosa, non m'apria lo scampo,
Idotèa, del marin vecchio la figlia,
Cui fieramente in sen l'alma io commossi.
Occorse a me che solitario errava,
Mentre i compagni dalla fame stretti
Giravan 1* isoletta, ed i ricurvi
Ami gettavan qua e là nell'onde.
Forestier, disse, come fu vicina,
Sei tu del senno e del giudicio in bando,
degli affanni tuoi prendi diletto.
Che così, a un ozio volontario in preda,
Neil* isola ti indugi, e via non trovi
D'uscirne mai? Langue frattanto il core
De* tuoi compagni, e si consuma indarno.
qual tu sii delle immortali Dive ,
Credi, io le rispondea, che da me venga
Così lungo indugiar? Vien dai beati
Del vasto cielo abitatori eterni.
Ch'io temo aver non leggiermente offesi.
Deh, poiché nulla si nasconde ai Numi,
Dimmi, qual è di lor che qui m'arresta,
E il mar pescoso mi rinserra intorno.
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(v. 483-518) LIBRO IV. 71
E repente la Dea: Forestier, nulla
Celarti to ti prometto. Il non bugiardo
Soggiorna in queste parti egizio veglio,
L'immortal Proteo, mio creduto padre,
Che i fondi tutti del gran mar conosce,
E ubbidisce a Nettuno. Ei del viaggio
Ti mostrerà le strade, e del ritorno.
Dove, stando in agguato, insignorirti
Di lui possa. E quello ancor, se il brami,
Saprai da lui, che di felice o avverso
Nella casa t'entrò, fìnchè lontano
Per vie ne andavi perigliose e lunghe.
Ma tu gli agguati, io replicai, m'insegna,
Ond* io cosi improvviso a Proteo arrivi ,
Ch'ei non mi sfugga delle mani. Un nume
Difficilmente da un mortai si doma.
Questo avrai pur da me, la Dea riprese.
Come salito a mezzo cielo è il Sole,
S'alza il vecchio divin dal cupo fondo,
E uscito dalla bruna onda, che il vento
Occidentale increspagli sul capo.
S'adagia entro i suoi cavi antri e s* addorme ;
E spesso a lui dormon le foche intorno ,
Deforme razza di Àlosidna bella.
Già pria dell'onda uscite, e il grave odore
Lunge spiranti del profondo mare.
lo te là guiderò, te acconciamente
Collocherò, ratto che il di s'inalbi:
Ma di quanti compagni appo la nave
Ci sono, eleggi i tre che tu piti lodi.
Ecco le usanze del vegliardo, e l'arti:
Pria noverar le foche a cinque a cinque ,
Visitandole tutte ; indi nel mezzo
Corcarsi anch' ei, quasi pastor tra il gregge.
Vistogli appena nelle ciglia il sonno.
Ricordatevi allor sol della forza,
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72 ODISSKA. (v. 519^54)
E lui, che molto si dibatte e tenta
Guizzarvi delle man, fermo tenete.
Ei d'ogni belva, che la terra pasce,
Vestirà le sembianze, e in acqua e in foco
Si cangerà di portentoso ardore;
E voi gli fate delle braccia nodi
Sempre piti indissolubili e tenaci.
Ma quando interrogarti al fin l'udrai.
Tal mostrandosi a te, quale, sdraiossi.
Tu cessa, o prode, dalla forza, e il vecchio
Sciogli, e sappi da lui chi è tra i Numi,
Che ti contende la natia contrada.
Disse, e nelle fiottanti onde s'immerse.
Io, combattuto da pensier diversi.
Colà n'andai, dove giacean del maro
Su la sabbia le navi, a cui da presso
La cena in fretta s'apprestò. Sorvenne
La preziosa notte, e noi sul lido
Ci addormentammo al mormorio dell'acque.
Ma, poiché del mattin la bella figlia
Consperse il ciel d'orientali rose,
Lungo il lido io movea, molto ai Celesti
Pregando, e i tre, nel cui valor per tutte
Le men facili imprese io piti fidava ,
Conducea meco. La Deessa intanto
Dal seno ampio del mare, in ch'era entrata.
Quattro pelli recò del corpo tratte
Novellamente di altrettante foche;
E tramava con esse inganno al padre.
Scavò quattro covili entro l'arena:
Quindi s'assise, e ci attendea. Noi presso
Ci femmo a lei, che subito levossi,
E noi dispose ne' scavati letti,
E i cuoi recenti ne addossò. Moleste
Le insidie ivi tornavano ; che troppo
Noiava delle foche in mar nutrite
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(v. 555-590) LIBRO IV. 73
L'orrendo puzzo. E chi a marina belva
Può giacersi vicin? Se non che al nostro
Stato provvide la cortese Diva,
Che ambrosia, onde spirava alma fragranza,
Venneci a por sotto le afflitte nari ,
Cui del mar più non giunse il grave odore.
Tutto il mattino aspottavam con alma
Forte e costante. Le deformi foche
Dell'onde uscirò in frotta, e a mano a mano
Tutte si distendevano sul lido.
Uscio sul mezzogiorno il gran vegliardo,
E trovò foche corpulente e grasse,
Che attènto annoverò. Contò noi prima,
Né di frode parea nutrir sospetto.
Ciò fatto, ei pur nella sua grotta giacque.
Ci avventammo con grida, e le robuste
Braccia al vecchio divin gittammo intorno.
Che l'arti sue non obliò in quel punto.
Leone apparve e di gran giubba, e in drago
Voltossi, ed in pantera, e in verro enorme,
E corse in onda liquida, e in sublime
Pianta chiomata verdeggiò. Ma noi
Il tenevan fermo più sempre. Allora
L'astuto veglio, che nel petto stanco
Troppo sentiasi omai stringer lo spirto.
Con queste voci interrogommi : Atride,
Qual fu de' Numi, che d'insidiarmi
Ti die il consiglio, e di pigliarmi a forza?
Di che mestieri hai tu? Proteo, io risposi.
Tu il sai: perchè il dimandi, e ancor t'infìngi?
Sai che gran tempo 1* isoletta tiemmi.
Che scampo quinci io non ritrovo, e sento
Distruggermisi il core. Ah dimmi, quando
Nulla celasi ai Dei, chi degli Eterni
M'inceppa, e, mi rinchiude il mare intorno.
Non dovevi salpar, riprese il Dio,
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74 ODISSEA (7. 591-626)
Che onorato pria Giove e gli altri Numi
Di sagrifici non avessi opimi,
Se in breve al natio suol giungere ardevi.
Op la tua Patria, degli amici il volto,
E la magion ben fabbricata il fato
Riveder non ti dà, dove tu prima
Del fiume Egitto, che da Giove scende.
Non risaluti la corrente, e porgi
Ecatombi perfette ai Dli beati.
Che il bramato da te mar t'apriranno.
A tai parole mi s'infranse il core,
Udendo che d'Egitto in su le rive
Ricondurmi io dovea per gli atri flutti ,
Lunga e diffìcil via. Pur dissi : Vecchio ,
Ciò tutto io compierò. Ma or rispondi,
Ti priego, a questo, e schiettamente parla:
Salvi tornaro co' veloci legni
Tutti gli Achivi che lasciammo addietro,
Partendo d'ili'ón, Nestore ed io?
peri alcun d'inopinata morte
Nella sua nave , o ai cari amici in grembo ,
Posate l'armi, per cui Troia cadde?
Atride, ei replicò, perchè tal cosa
Mi cerchi tu ? Quel eh' io nell'alma chiudo
Saper non fa per te, cui senza pianto,
Tosto che a te palese il tutto fla,
Non rimarrà lunga stagione il ciglio.
Molti colpi r inesorabil Parca,
E molti non toccò. Due soli duci
De' vestiti di rame Achei guerrieri
Morirò nel ritorno; e ritenuto
Dal vasto mar nel seno un terzo vive.
Aiace ai legni suoi dai lunghi remi
Perì vicino. Dilivrato in prima
Dall'onde grosse, e su gli enormi assiso
Girei macigni, a cui Nettun lo spinse,
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(v. d2t.662) LIBRO IV. 75
Potea scampar, benché a Minerra in ira,
Se non gli uscia di bocca un orgoglioso
Motto che assai gli nocque. Osò vantarsi
Che in dispetto agli Dei vincer del mare
Le tempeste varria. Nettuno udillo
Boriante in tal guisa, e col tridente,
Che in man di botto si piantò, percosse
La Girea pietra, e in due spezzolla: Tuna
Colà restava ; e l'altra ove sedea
Della percossa travagliato il Duce,
Si rovesciò nel pelago, e il portava
Pel burrascoso mare, in cui, bevuta
Molta salsa onda, egli perdeo la vita.
Il tuo fratello col favor di Giuno
Morte sfuggi nella cavata nave.
Ma, come avvicinossi all'arduo capo
Della M alea, fera tempesta il colse,
E tra profondi gemiti portello .
Sino al confln della campagna, dove
Tieste un giorno, e allora Egisto, il figlio
Di Tieste, abitava. E quinci ancora
Parca sicuro il ritornar ; che i Numi
Voltar subito il vento, e in porto entraro
Gli stanchi legni. Agamennón di gioia
Colmo gittossi nella patria terra,
E toccò appena la sua dolce terra.
Che a baciarla chinossi, e per la guancia
Molte gli discorrean lagrime calde.
Perchè la terra sua con gioia vide.
Ma il discopri da una scoscesa cima
L'esplorator, che il fraudolento Egisto
Con promessa di due talenti d'oro
Piantato aveavi. Ei, che spiando stava
Dall'eccelsa veletta un anno intero,
Non trapassasse ignoto, e, forse a guerra
latalentato, il tuo fratello, corse
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76 ODISSEA . (v. 663.698)
Con Tannunzio al signor, che un'empia frode
Repente ordì. Venti, e i piti forti elesse,
E in agguato li mise, e imbandir feo
Mensa festiva: indi a invitar con pompa
Di cavalli e di cocchi andò l'Atride,
Cose orrende pensando, e il ricondusse,
E, accolto a mensa, lo scannò qual toro
Cui scende su la testa innanzi al pieno
Presepe suo l'inaspettata scure.
Non visse d'Agamennone o d'Egisto
Solo un compagno, ma di tutti corse
Confuso e misto .nel palagio il sangue.
E a me schiantossi il core a queste voci.
Pianto io versava su l'arena steso,
Né piti mirar del sol volea la luce.
Ma come di plorar, di voltolarmi
Sovra il nudo terren sazio gli parvi,
Tal seguitava il m)n mendace vecchio:
Resta, figlio d'Atrèo, dall'infinite
Lagrime per un mal che omai compenso
Non paté alcuno, e t' argomenta in vece,
Più veloce che puoi, riedere in Argo.
Troverai vivo ne' suoi tetti Egisto,
l'avrà poco dianzi Oreste ucciso,
E tu al funebre assisterai banchetto.
Disse: e di gioia un improvviso raggio
Nel mio cor balenava. Io già d'Aiace,
Risposi, e del fratello assai compresi.
Chi è quel terzo che il suo reo destino
Vivo nel sen del mare, o estinto forse.
Ritiene? Io d'udir temo, e bramo a un tempo.
E novamente il non bugiardo veglio:
D'Itaca il Re, che di Laerte nacque.
Costui dirotto dalle ciglia il pianto
Spargere io vidi in solitario scoglio.
Soggiorno di Calipso, inclita Ninfa,
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(v. 699-734) LIBRO iv. 77
Che rimandarlo niega: ond*ei, cui solo
Non avanza un naviglio, e non compagni
Che il trasportin del mar su Tampio dorso,
Star gli convien della sua patria in bando.
Ma tu, tu, Menelao, di Giove alunno,
Chiuder gli occhi non dèi nella nutrice
Di cavalli Argo; che noi vuole il fato.
Te neir Elisio campo, ed ai confini
Manderan della terra i Numi eterni,
La 've risiede Radamanto, e scorre
Senza cura o pensiero all'uom la vita.
Neve non mai, non lungo verno o pioggia
Regna colà; ma di Favonio il dolce
Fiato, che sempre l'Oceano invia,
Que' fortunati abitator rinfresca.
Perchè ad Elona sposo, e a Giove stesso
Genero sei, tal sortirai ventura.
Tacque, e saltò nel mare, e il mar 1* ascose.
Io da vari pensier l'alma turbato
Movea co' prodi amici in vèr le navi.
La cena s'apprestò. Cadde la notte
Dell'uom ristoratrice, e noi del mare
Ci addormentammo sul tranquillo lido.
Ma del mattin la figlia ebbe consperso
Di rose orientai appena il cielo,
Che nel divino mar varrammo i legni
D'uguali sponde armati, o con le vele
Gli alberi alzammo: entrare, e sovra i banchi
I compagni sedettero, ed assisi
Co* remi percotean l'onde spumose.
Del fiume Egitto, che da Giove scende,
Un'altra volta all'abborrita foce
lo fermai le mie navi, e giuste ai Numi
Vittime ofiersi, e ne placai lo sdegno.
Eressi anco al german tomba, che vivo
In quelle parti ne serbasse il nome.
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78 ODISSEA (v. IS^'llO)
DopQ ciò, rimbarcaimi, e con un vento
Che mi feria direttamente in poppa,
Pervenni folgorando ai porti miei.
Or, Telemaco, via, tanto ti piaccia
Rimaner, che l'undecima riluca
Nell'oriente, o la duodecim' alba.
Io ti prometto congedarti allora
Con doni eletti: tre destrieri e un vago
Cocchio, ed in oltre una leggiadra tazza
Da libare ai Celesti, acciò non sorga
Giorno che il tuo pensiero a me non torni.
Il prudente Telemaco rispose:
Gran tempo qui non ritenermi, Atride.
Non che a me non giovasse un anno intero,
La Patria e i miei quasi obliando, teco
Queste case abitar; che alla tua voce
L'alma di gioia ricercarmi io sento.
Ma già muoion di tedio i miei compagni
Nell'alta Pilo; e tu m'arresti troppo.
Qual siasi il don di che mi vuoi far lieto,
Un picciol sia tuo prezioso arnese.
Ad Itaca i destrieri addur non penso,
Penso lasciarli a te, bello de* tuoi
Regni ornamento: perocché signore
Tu sei d'ampie campagne, ove fiorisce
Loto e cipero, ove frumenti e spelde.
Ove il bianc'orzo d'ogni parte alligna.
Ma non larghe carriere, e non aperti
Prati in Itaca vedi: è dì caprette
Buona nutrice, e a me di ver piti grata.
Che se cavalli nobili allevasse.
Nulla del nostro mare isola in verdi
Piani si stende, onde allevar destrieri;
E men deiraltre ancora Itaca mia.
Sorrise il forte ne' conflitti Atride,
£, la mano a Telemaco stringendo,
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(v. 771-806) LIBRO IV. 79
Sei, disse, o f glio, di buon sangue, e a questa
Tua favella il dimostri. E bene, i doni
Ti cambierò: farlo poss*io. Di quanto
Lia mia reggia contien, ciò darti io voglio,
Che più mi sembra prezioso e raro;
Grande urna effigiata, argento tutta,
Dei labbri in fuor, sovra cui Toro splende,
Di Vulcano fattura. Io dall'egregio
Fedirne, re di Sidone, un dì Tebbi,
Quando il palagio suo me, che di Troia
Venia, raccolse; e tu n'andrai con questa.
Così tra lor si ragionava. Intanto
DeirAtride i ministri ài suo palagio
Conducean pingui pecorelle, e vino
Di coraggio dator, mentre le loro
Consorti il capo di bei veli adorne
Candido pan recavano. In tal guisa
Si mettea qui Talto convivio in punto.
Ma in altra parte , e. alla magion davante
Del magnanimo Ulisse, i Proci alteri
Dischi lanciavan per diletto, e dardi
Sul pavimento lavorato e terso,
' Della baldanza lor solito campo.
Solo i due capi, che di forza e ardire
Tutti vinceano, il pari in volto ai Numi
Eurimaco, ed Antinoo, erano assisi.
S* aceostò loro, ed al secondo volse
Di Fronio il figlio, Noemòn, tai detti :>
Antinoo, il dì lice saper, che rieda,
Telemaco da Pilo? Ei dipartissi
Con la mia nave, che or verriami ad uopo,
Per tragittar neir Elide, ove sei
Pasconmi, e sei cavalle, ed altrettanti
Muli non domi, che lor dietro vanno,
E di cui, razza faticante, alcuno .
Rimenar bramo, e accostumarlo al giogo.
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80 ODISSEA. (v. 807-842)
Stupiano i prenci, che ne* suoi poderi
De' montoni al custode o a quel de* verri
Trapassato il credeano, e non al saggio
Figliuol di Neleo neireccelsa Pilo.
Quando si dipartì? rispose il figlio
D'Eupite, Antinoo. E chi seguillo? Scelti
Giovani forse d'Itaca, o gli stessi
Suoi mercenari e schiavi? E osava tanto?
Schiatto favella. Saper voglio ancora,
Se a mal cuor ti lasciasti il legno tórre,
a lui, che tei chiedea, di grado il desti.
Il diedi a lui, che mei chiedea, di grado,
Noemón ripigliò. Chi potea mai
Con si nobil garzone e si infelice
Stare in sul niego? Gioventù seguillo
Della miglior tra il popolo itacese,
E condottier salia la negra nave
Mentore, o un Dio che ne vestia l'aspetto :
E maraviglio io ben ch'ieri su l'alba
Mentore io scorsi. Or come allor la negra
Nave salì, che veleggiava a Pilo?
Disse, e del padre alla magion si rese.
Atterriti rimasero. Cessaro
Gli altri da' giuochi, e s'adagiaro anch'essi,
E a tutti favellò d'Eupite il figlio:
Se gli gonfiava della furia il core
Di caligine cinto, e le pupille
Nella fronte gli ardean come duo fiamme.
Grande per fermo e audace impresa ò questa,
Cui già nessun di noi fede prestava,
Viaggio di Telemaco! Un garzone.
Un fanciullo gittar nave nel mare, ,
Di tanti uomini ad onta, e aprire al vento
Con la piti scelta gioventù le vele?
Né il male qui s'arresterà: ma Giove
A Telemaco pria franga ogni possa,
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V. 843-878) LIBRO iv. 81
Zhe una tal piaga dilatarsi io veggia.
3a via, rapida nave e venti remi
\ me, si ch'io lo apposti, e al suo ritorno
Sei golfo, che divide Itaca e Same,
tolgalo; e il folle con suo danno impari
L'onde a stancar del genitore in traccia.
3osì Antinoo parlò. Lodi e conforti
311 davan tutti: indi sorgeano, e il piede
Nell'alte stanze riponean d'Ulisse.
Ma de' consigli che nutriano in mente,
Penelope non fu gran tempo ignara.
Ne la feo dotta il banditor Medonte,
Che udia di fuori la consalta iniqua,
E agli orecchi di lei pronto recolia.
Ella noi vide oltrepassar la soglia,
Che si gli disse; Araldo, onde tal fretta?
Ed a che i Proci ti mandare? Forse
Perchè d'Ulisse le solerti ancelle
l>ai lavori si levino, e l'usato
Convito apprestin loro? Oh fosse questo
De' conviti l'estremo, e a me travaglio
Più non desser, né altrui! Tristi! che, tutto
Del prudente Telemaco il retaggio
Per disertar, vi radunate in folla.
E non udiste voi da' vostri padri,
Mentr* eravate piccioletti e imberbi,
I modi che tenea con loro Ulisse,
Nessun in opre melestando, o in detti.
Costume pur degli uomini scettrati.
Che odio portano agli uni, e agli altri amore?
Non offese alcun mai: quindi l'indegno
Vostro adopi^ar meglio si pare e il morto
Cho di tanti favor voi gli rendete.
Ed il saggio Medonte: Ai Dei piacesse
Che questo il peggior mal, Reina, fosse!
Altro dai Proci se ne cova in petto
Odiitea ^'9'^^^^ ^^ Gc^ogle
82 ODISSEA (v. 879-914/
Più grave assai, che Giove sperda: il caro
Figlio, che a Pilo sacra e alla divina
Sparta si volse, per ritrar del padre.
Ucciderti di spada al suo ritorno.
Penelope infelice a tali acclenti
Scioglier sentissi le ginocchia e il core.
Per lungo spazio la voce mancolle.
Gli occhi di pianto le s* empier, distinta
Non poteale dai labbri uscir parola.
Rispose al fine: Araldo, e perchè il %lio
Da me staccossi? Qual cagion,- qual forza
Sospingealo a salir le ratte navi.
Che destrieri del mar sono, e l'immensa
Varcano umidità? Brama egli dunque
Che nò resti di sé nel mondo il nomo?
Qual de* duo spinto, il banditor riprese,
L'abbia sul mare, a domandar del padre.
Se la propria sua voglia, o un qualche nume,
Reina, ignoro. E sovra Torme sue
Ritornò, così detto, il fido araldo.
Fiera del petto roditrice doglia
Penelope ingombrò; né, perchè molti
Fossero i seggi, le bastava il core
Di posare in alcun: sedea sul nudo
Limitar della stanza, acuti lai
Mettendo; e quante la serviano ancelle,
SI di canuta età, come di bionda.
Ululavano a lei d'intorno tutte.
Ed ella, forte lagrimando. Amiche,
Uditemi, dicea. Tra quante donne
Nacquero e crebber meco, ambasce tali
Chi giammai tollerò? prima un egregio
Sposo io perdei, d'invitto cor, fregiato
D'ogni virtù tra i Greci, ed il cui nome
Per l'EUada risuona, e tutta l'Argo.
Poi le tempeste m'involaro il dolce
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(v. 915-950) L1Ì3R0 IV. 83
Mio parto in fama non ancor salito,
E del viaggio suo nulla io conobbi.
Sciauratel eravi pur ristante noto,
Ch'ei nella cava entrò rapida nave:
Né di voi fu, cui suggerisse il core
Di scuotermi dal sonno? Ov'io la fuga
Potuto avessi presentirne, certo
Da me, benché a fatica, ei non partia,
me lasciava nel palagio estinta.
Ma de' serventi alcun tosto mi chiami
L'antico Dolio, schiavo mio, che dato
Fummi dal genitor, quand'io qua venni:
Ed or le piante del giardin m'ha in cura.
Vo' che a Laerte corra,* e il tutto narri,
Sedendosi appo lui, se mai Laerte
Di pianto aspersa la seni! sua guancia
Mostrar credesse al popolo, e lagnarsi
Di color che schiantar l'unico ramo
Di lui vorriano, e del divino Ulisse.
E la diletta qui balia Euriclèa,
Sposa cara, rispose, o tu m'uccida,
nelle stanze tue viva mi serbi.
Parlerò aperto. Il tutto io seppi, e al figlio,
Le candide farine e il rosso vino
Consegnai; ma giurar col giuramento
Più sacro io gli dovei, che ove agli orecchi
Non ti giugnesse della sua partenza
Aura d'altronde, e tu men richiedessi,
Io tacerei, finché spuntasse in cielo
La dodicesim' aurora, onde col pianto
Da té non s'oltraggiasse il tuo bel corpo.
Su via, ti bagna, e bianca veste prendi,
E, con le ancelle tue nell'alto ascesa,
Priega Minerva che il figliuol ti guardi:
Né affligger piti con ambasciale il veglio
Già per sé afflitto assai. No , tanto ai Numi
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84 ODISSEA (v. 951-986)
Non è d'Arcesio la progenie in ira,
Che un germe viver non ne debba, a cui
Queste muraglie sorgano, e i remoti
Si ricuopran di mèsse allegri campi.
Con queste voci le sopì nel petto
La doglia, e il pianto le arrestò sul ciglio.
Elia bagnossi, bianca veste prese,
E, con le ancelle sue nell'alto ascesa,
Pose il sacr'orzo nel canestro, e il sjile,
E a Palla supplicò. M'ascolta, disse,
deiregioco Giove inclita figlia.
Se il mio consorte ne* paterni tetti
Pingui d'agna o di bue cosce mai t*arse.
Oggi per me ten risòvvenga: il figlio
Guardami, e sgombra dal palagio i Proci,
Di cui piti ciascun dì monta l'orgoglio.
Scoppiò in un grido dopo tai parole,
E l'atenèa Minerva il priego accolse.
Tumulto fean sotto le oscure volte
Coloro intanto, e alcun dicea: La molto
Vagheggiata ì\eina omai le nozze
Ci appresta, e ignora che al suo figlio morte
S'apparecchia da noi. Tanto dal vero
Quelle superbe menti ivan lontane.
Ed Antinoo: Sciaurati, il dire incauto.
Che potria dentro penetrar, frenate.
Ma che piìi badiam noi? Tacitamente '
Quel che tutti approvar mettiamo in opra. [
Ciò detto, venti scelse uomini egregi.
Ed al mare avvì'ossi. Il negro legno
Varare, alzare l'albero, assettare
Gli abili remi in volgitoi di cuoio,
E le candide vele ai venti aprirò;
Poi, recate arme dagli arditi servi.
Nell'alta onda "fermar la negra nave.
Quivi cenaro; e stavansi aspettando
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V. 987-1022) LIBRO IV. 85
Che più crescesse della notte il buio.
Ma la grama. Penelope neiralto
Giacea digiuna, non gustando cibo,
Bevanda non gustando; e a lei nel petto
Sul destin dubbio di si cara prole
Fra la speme e il timor l'alma ondeggiava.
Qaal de' lattanti leoncin la madre,
Cui fan corona insidiosa intorno
I cacciatori, che a temere impara,
E in diversi pensier l'alma divide:
Tal fra sé rivolvea cose diverse,
Finché la invase un dolce sonno. Stesa
Sul letto, e tutte le giunture sciolta,
La donna inconsolabile dormia.
Allor la Dea dall'azzurrino sguardo
Nuova cosa pensò. Compose un lieve
Fantasma, che sembrava in tutto Iftima,
D'Icario un'altra figlia, a cui legato
S'era con nodi maritali Eumelo,
Che in Fere di Tessaglia avea soggiorno.
Questa Iftima inviò d'Ulisse al letto,
Che alla Reina tranquillasse il core,
E i sospiri da lei sbandisse e il pianto.
Pel varco angusto del fedel serrame
Entro il fantasma, e standole sul capo,
Riposi tu, Penelope, dicea,
Nel tuo cordoglio? Gl'immortali Dei
Lagrimosa non voglionti, né trista.
Riederà il figliuol tuo, perchè de' Numi
L'ira col suo fallir mai non incorse.
E la reina, che dormia de* sogni
Soavissimamente in su le porte:
Sorella, a che venistti? Io mai da prima
Non ti vedea, cosi da lunge alberghi;
E or vuoi ch'io vinca quel martir che in cento
Guise mi stringe l'alma, io, che un consorte
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86 ODISSEA (v. 1023.-1058)
Perdei sì buon, di si gran core, ornato
D*ogni virtù tra i Greci, ed il cui nome
Per TEllada risuona e l'Argo tutta!
S'arroge a questo che il diletto figlio
Partì su ratta nave, un giovinetto
Delle fatiche e dell'usanze ignaro.
Più ancor per lui, che per Ulisse, io piango,
E temo, noi sorprenda o tra le genti
Straniere, o in mare, alcun sinistro: tanti
Nemici ha che l'insidiano, e di vita
Prima il desian levar; ch'egli a me torni.
Ratto riprese il simulacro oscuro;
Scaccia da te questi ribrezzi, e spera.
Compagna il siegue di cotanta possa.
Che ognun per sé la brameria: Minerva,
Cui pietà di te punse, e di cui fida
Per tuo conforto ambasciatrice io venni.
E la saggia Penelope a rincontro:
Poiché una Dea sei dunque, o almeno udisti
La voce d'una Dea, parlarmi ancora
Di quell'altro infelice or non potrai?
Vive? rimira in qualche parte il Sole?
ne' bassi calò regni di Pluto?
Ratto riprese il simulacro oscuro:
S'ei viva, o no, non t'aspettar ch'io narri.
Spender non piace a me gli accenti indarno.
Disse; e pel varco, ond'era entrata, uscendo,
Si mescolò co' venti, e dileguossi.
Ma la Reina si destò in quel punto.
Ed il cor si sentì d'un' improvvisa
Brillar letizia, che lasciollo il sogno.
Che sì chiaro le apparve innanzi l'alba.
I Proci l'onde già fendeano, estrema
Macchinando a Telemaco ruina.
Siede tra la pietrosa Itaca e Same
Un'isola in quel mar, che Astori è detta,
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(▼• 1059-1062) LIBRO IV. 87
Par dirupata, né già troppo grande»
Ma con sicuri porti, in cui le navi
D'ambo i lati entrar ponno. Ivi in agguato
Telemaco attendean gl'iniqui Achei.
LIBRO QUINTO
ARGOMENTO
Nuovo concilio degli Dei. — - Pallade si lagna che Ulisse ri-
tenuto sia neirisola di Calipso. e che si tenti d*ammaszaro
Telemaco. — Giove manda Mercurio a Calipso, che mal
volentieri congeda Ulisse. '— Partenza di questo sovra una
spezie di zatta da lui costrtitta. — Nettuno gli desta con-
tro una orribil tempesta, per cui. spezzata la barca, ei get-
tasi a nuoto: e con Taiuto d^una fascia, che Ino. Dea del
mare, gli diede, approda, dopo infiniti patimenti , alV isola
de* Feaci.
Già l'Aurora, levandosi a Titone
D'allato, abbandonava il croceo letto,
E ai Dei portava ed ai mortali il giorno;
E già tutti a concilio i Dei beati
Sedean con Giove altitonante in mezzo,
Cui di possanza cede ogni altro Nume.
Memore Palla dell'egregio Ulisse,
Che mal suo grado appo la Ninfa scorge,
I molti ritesseane acerbi casi.
O Giove, disse, e voi tutti d'Olimpo
Concittadini, che in eterno siete,
Spoglisi di giustizia e di pietade,
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88 ODISSEA (v. 13-48)
E iniquitate e crudeltà si vesta
D'ora innanzi ogni Re, quando Tinìmago
D'Ulisse piti non vive in un sol core
Di quella gente eh* ei reggea da padre.
Ei neir isola intanto, ove Calipso
In cave grotte ripugnante il tiene.
Giorni oziosi e travagliosi mena;
E del tornare aHa sua Patria è nulla,
Poiché navi non ha, non ha compagni
Che il carreggin del mar su Tampio tergo.
Che più? Il fìgliuol, che all'arenosa Pilo
Mosse ed a Sparta, onde saver di lui,
Tor di vita si brama al suo ritorno.
Figlia, qual ti sentii fuggir parola
Del recinto de* denti ? a lei rispose
L'adunator di nubi olimpio Giove.
Tu stessa in te non divisavi, come
Rieda Ulisse alla Patria, e di que* tristi
Vendetta faccia.^ In Itaca il figliuolo
Per opra tua, chi tei contende? salvo
Rientri, e Tonde navigate indarno •
Rinavighi de* Proci il reo naviglio.
Disse, e a Mercurio, sua diletta prole,
Così si rivolgea; Mercurio, antico
De* miei comandi apportator fedele.
Vanne, e alla Ninfa delle crespe chiome
Il fermo annunzia mio voler, che Ulisse )
Le native contrade ornai rivegga.
Ma noi guidi uom, né Dio. Parta su travi
Con moltiplici nodi in un congiunte,
E il ventesimo dì della feconda
Scheria le rive, sospirando, attinga;
E i Feaci l'accolgano, che quasi
Degl'Immortali al par vivon felici.
Essi qual nume onoreranlo, e al dolce
Nativo loco il manderan per nave.
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(v, 49-84) LIBRO V. 89
Rame. in copia daranglì, ed oro e vestì,
Quanto al fn seco dalla vinta Troia
Condotto non avria, se con la preda.
Che gli toccò, ne ritornava illeso:
Che la Patria così, gli amici e Talto
Riveder suo palagio, è a lui destino.
Obbedì il prode messaggiero. Al piede
S'avvinse i talar belli, aurei immortali,
Che sul mare il portavano, e su i campi
Della terra infiniti a par col vento.
Poi l'aurea verga nelle man recossi,
Onde i mortali dolcemente assonna.
Quanti gli piace, e li dissonna ancora,
G con quella tra man l'aure fendea.
Come presi ebbe di Pieria i gioghi.
Si calò d'alto, e si gittò sul mare:
Indi l'acque radea velocemente.
Simile al laro che pe' vasti golfi
S'aggira in traccia de' minuti pesci,
E spesso nel gran sale i vanni bagna.
Non altrimenti sen venia radendo
Molte onde e molte l'Argicida Ermete.
Ma tosto che fu all'isola remota,
Salendo allor dagli azzurrini flutti.
Lungo il lido ei sen già, finché vicina
S'offerse a lui la spaziosa grotta.
Soggiorno della Ninfa il crin ricciuta,
Cui trovò i| Nume alla sua grotta in seno.
Grande vi splendea foco, e la fragranza
Del cedro ardente e delibar dente tio
Per tutta si spargea l'isola intorno.
Ella, cantando con leggiadra voce.
Fra i tesi fili dell'ordita tela
Lucida spola d'or lanciando andava.
Selva ognor verde l'incavato speco
Cingeva: i pioppi vi cresceano e gli alni,
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90 ODISSEA (v. 85.120)
E gli spiranti odor bruni cipressi;
E tra i lor rami fabbricato il nido
S'aveano augelli dalle lunghe penne,
Il gufo, lo sparviere e la loquace
Delle rive del mar cornacchia amica.
Giovane vite di purpurei grappi
S'ornava, e tutto rivestia lo speco.
Volvean quattro bei fonti acque d'argento.
Tra so vicini prima, e poi divisi
L'un dairaltro e fuggenti; e di viole
Ricca si dispiegava in ogni dove
De* molli prati Timmortal verzura.
Questa scena era tal, che sino ~ a un Nume
Non potea farsi ad essa, e non sentirsi
Di maraviglia colmo e di dolcezza.
Mercurio, immoto, s'ammirava; e, molto
Lodatola in suo core, all'antro cavo,
Non indugiando più, dentro si mise.
Calipso, inclita Dea, non ebbe in lui
Gli occhi affissati, che il conobbe; quando,
Per distante che l'un dall'altro alberghi,
Celarsi l'uno all'altro i Dei non ponno.
Ma nella grotta il generoso Ulisse
Non era: mesto sul deserto lido.
Cui spesso si rendea, sedeasi; ed ivi
Con dolori, con gemiti, con pianti
Struggeasi l'alma, e l'infecondo mare
Sempre agguardava, lagrime stillando.
La Diva il Nume interrogò, cui posto
Su mirabile avoa seggio lucente:
Mercurio, Nume venerato e caro,
Che della verga d'or la man guernisci,
Qual mai cagione a me, che per l 'addietro
Non visitavi, oggi t'addusse? Parla.
Cosa ch'io valga oprar, né si sconvegna,
Disdirti io non saprei, se il pur volessi.
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(V. 121rl56) LIBRO V. 91
Sa via, ricevi Tòspital convito:
Poscia favellerai. Detto, la mensa,
Che .ambrosia ricopria, gli pose avanti,
Ed il purpureo nettare versogli.
Questo il celeste messaggiero e quella
Prendea; né prima nelle forze usate
Tornò,* che apria le labbra in tali accenti :
Tu. Dea me Dio dunque richiedi? Il vero.
Poiché udirlo tu vuoi, schietto io ti narro.
Questo viaggio di Saturno il figlio
Mal mio grado mi die. Chi vorria mai
Varcar tante onde salse, infinite onde.
Dove città non sorge, e sacrifici
Non v'ha chi ci offra, ed ecatombe illustri?
Ma il precetto di Giove a un altro Nume
Né violar, né obliar lice. Teco,
Disse l'Egidarmato, i giorni mena
L'uom più gramo tra quanti alla cittade
Di Priamo innanzi combattean nove anni.
Finché il decimo al fin. Troia combusta.
Spiegare in mar le ritornanti vele.
Ma nel cammino ingiuriar Minerva,
Che destò le bufere, e immensi flutti
Coutra lor sollevò. Tutti perirò
Di quest* uomo i compagni ; ed ei dal vento
Venne, e dal fiotto ai lidi tuoi portato.
Or tu costui congederai di botto;
Che non morir dalla sua terra lunge.
Ma la Patria bensi, gli amici e Tatto
Riveder suo palagio, è a lui destino.
Inorridì Calipso, e, con alate
Parole rispondendo: Ah, Numi ingiusti.
Sclamò, che invidia non più intesa é questa,
Che se una Dea con maritale amplesso
Si congiunge a un mortai, voi noi soffrite?
Quando la tinta di rosato Aurora
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92 ODISSEA (v. 157-192)
Orione rapì, voi, Dei, cui vita
Facile scorre, acre livor mordea,
Finché in Ortigia il rintracciò la casta
Dai seggio auro Diana, e d'improvvisa
Morte il colpi con invisilnl dardo.
E allor che venne inanellata il crine
Cerere a Giasì'on tutta amorosa,
E nel maggese, che il pesante aratro
Tre volte aperto avea, se gli concesse,
Giove, cui Topra non fu ignota, uccise
Giasìon con la folgore affocata.
Così voi, Dei, con invid* occhio al fianco
Mi vedete un eroe da me serbato,
Che solo stava in su i meschini avanzi
Della nave, che il telo igneo di Giove
Nel mare oscuro gli percosse e sciolse.
Io racco^liealo amica, io .lo nutria
Gelosamente, io prometteagli eterni
Giorni, e dal gel della vecchiezza immuni.
Ma quando troppo è ver che alcun di Giove
Precetto violare a un altro Nume
Non lice, od obliar, parta egli e solchi.
Se il comandò TEgidarmato, i campi
Non seminati. Io noi rimando certo;
Che navi a me non sono, e non compagni
Che del mare il carreggino sul tergo.
Ben sovverrògli di consiglio, e il modo
Gli additerò, che alla sua dolce terra
Su i perigliosi flutti ei giunga illeso.
Ogni modo il rimanda, Targicida
Soggiunse, e pensa che infiammarsi d'ira
Potrebbe contra te l'Olimpio un giorno.
E sul fin di tai detti a lei si tolse. -
L'Augusta Ninfa, del Saturnio udita
La severa imbasciata, il prode Ulisse
Per cercar s'avviò. Trovollo assiso
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(v. 193-228) LIBRO V. 93
Del mare in su la sponda, ove le guance
Di lagrime rigava, e consumava
Col pensier del ritorno i suoi dolci anni;
Che della Ninfa non.pungealo amore:
E se le notti nella cava grotta
Con lei vogliosa non voglioso passa,
Che altro l'eroe può? Ma quanto è il giorno,
Su i lidi assiso e su i romiti scogli,
Con dolori, con gemiti, con pianti
Struggasi l'alma, e l'infecondo mare,
Lagrime spesse lagrimando, agguarda.
Calipso, illustre Dea, standogli appresso.
Sciagurato, gli disse, in questi pianti
Più non mi dar, né consumare i dolci
Tuoi begli anni così: la dipartita.
Non che vietrati, agevolarti io penso.
Su via, le travi nella selva tronche^
Larga e con alti palchi a te congegna
Zattera, che sul mar fosco ti porti.
Io di candido pan, che l'importuna
Fame rintuzzi, io di purissim'ondà,
E di rosso licer, gioia dell'alma.
La carcherò: ti vestirò non vili
Panni, e ti manderò da tergo un vento.
Che alle contrade tue ti spinga illeso,
Sol che d'Olimpo agli abitanti piaccia,
Con cui di senno in prova io già non vegno.
Raccapricciossi a questo il non mai vinto
Dalle sventure Ulisse, e, Dea, rispose
Con alate parole, altro di fermo,
Non il congedo mio, tu volgi in mente,
Che vuoi ch'io varchi su tal barca i grossi
Del diffìcile mar flutti tremendi,
Che le navi più ratte, e d'ugnai fianchi
Munite, e liete di quel vento amico
Che da Giove partì, varcano appena.
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94 ODISSEA (v. 229-264)
No, su barca sì fatta, e a tuo dispetto,
Non salirò, dove tu pria non degni
Giurare a me con giuramento grande.
Che nessuno il tuo cor danno m'ordiscoi
Sorrise l'Atlantide, e, della mano
Divina careggiandolo, la lingua
Sciolse in tai voci: Un cattivello sei.
Né ciò che per te fa, scordi giammai.
Quali parole mi parlasti? Or sappia
Dunque la terra e il Ciel superno, e Tatra,
Che sotterra si volve, acqua di Stige,
Di cui nò più solenne han né pìii sacro
Gl'Iddii beati giuramento; sappia,
Che nessuno il mio cor danno t'ordisce.
Quello anzi io penso, e ti propongo, ch'io
Torrei per me, se in cotant'uopo io fossi.
Giustizia regge la mia mente, e un'alma
Pietosa, non di ferro, in me s'annida.
Ciò detto, abbandonava il lido in fretta,
E Ulisse la seguìa. Giunti alla grotta.
Colà, dond'era i'Argicida sorto.
S'adagiò il Laerziade; e la Dea molti
Davante gli mettea cibi e licori.
Quali ricever può petto mortale.
Poi gli. s'assise a fronte ; e a lei le ancelle
L'ambrosia e il roseo nettare imbandirò.
Come ambo paghi della mensa furo,
Con tali accenti cominciava l'alta
Di Calipso beltade: di Laerte
Figlio divin, molto ingegnoso Ulisse,
Cosi tu parti adunque, e alla nativa
Terra e alle case de' tuoi padri vai?
Va', poiché sì t'aggrada, e va' felice.
Ma se tu scorger del pensier potessi
Per quanti affanni ti comanda il fato
Prima passar, che al patrio suolo arrivi,
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(v. 265-300) LIBRO V. 95
Questa casa con me sempre vorresti
Custodir, ne son certa, e immortai vita
Da Calipso accettar; benché si viva
Brama t'accenda della tua consorte,
A cui giorno non è che non sospiri.
Pur non cedere a lei né di statura
Mi vanto, né di volto: umana donna
Mal può con una Dea, né le s'addice,
I>i persona giostrare, e di sembianza.
Venerabile Iddia, riprese il ricco
D'ingegni Ulisse, non voler di questo
Meco sdegnarti: appien conosco io stesso
Che la saggia Penelope tu vinci
Di persona non men, che di sembianza.
Oiudice il guardo^ che ti stia di contra.
Ella nacque mortale, e in te né morte
Può, né vecchiezza. Ma il pensiero è questo.
Questo il desio che mi tormenta sempre,
Veder quel giorno al fin, che alle dilette
Piagge del mio natal mi riconduca.
Che se alcun me percoterà de' Numi
Per le fosche onde, io soffrirò chiudendo
Forte contra i disastri anima in petto.
Molti sovr'esso il mar, molti fra l'armi
Già ne sostenni; e sosterronne ancora.
Disse ; e il sol cadde, ed annottò. Nel seno
Si ritiraro della cava grotta
Più interno e oscuro, e in dolce sonno avvolti
Tutte le cure lor mandare in bando.
Ma come del mattin la figlia, l'alma
Dalle dita di rose Aurora apparve,
Tunica e manto alle sue membra Ulisse,
E Calipso alle sue larga ravvolse
Bella gonna, sottil, bianca di neve;
Si strinse al fianco un'aurea fascia, e un velo
Sovra l'or crespo della chioma impose.
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% ODISSEA (v: 301-336)
Né d'Ulisse a ordinar la dipartita
Tardava. Scure di temprato rame,
Grande, manesca e d'ambo i lati aguzza.
Con leggiadro d'oliva e bene attato
Manubrio, presentògli e una polita
Vi aggiunse ascia lucente: indi all'estremo
Dell'isola il guidò, dove alte piante
Crescean; pioppi, alni, e sino al cielo abeti,
Ciascun risecco di gran tempo e arsiccio.
Che gli sdruccioli agevole sull'onda.
Le altere piante gli additò col dito,
E alia sua grotta il pie torse la Diva.
Egli a troncar cominciò il bosco: l'opra
Nelle man dell'eroe correa veloce.
Venti distese al suolo arbori interi:
Gli adeguò, li polì, l'un destramente
Con l'altro pareggiò. Calipso intanto,
Recava seco gli appuntati succhi.
Ed ei forò le travi e insieme unille,
E con incastri assicurolle e chiovi.
Larghezza il tutto avea, quanta ne danno
Di lata nave trafficante al fondo
Periti fabbri. Su le spesse travi,
Combacianti tra sé, lunghe stendea
Noderose assi, e il tavolato alzava.
L'albero con l'antenna ersevi ancora,
E costrusse il timon, che in ambo i lati
Armar gli piacque d'intrecciati salci
Contra il marino assalto, e molta selva
Gittò nel fondo per zavorra o stiva.
Le tue tele, o Calipso, in man gli andare,
E buona gli uscì pur di man la vela.
Cui le funi legò, legò le sarte.
La poggia e i'orza: al fin, possenti leve
Supposte, spinse il suo naviglio in mare,
Che il di quarto spi end ea. Jja Dea nel quinto
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(v. 337-372) LIBRO v. 97
Congedollo dall'isola: odorate
Vesti gli cinse dopo un caldo bagno;
Due otri, Tun di rosseggiante vino.
Dì limpid'acqua Taltro, e un zaino, in cui
Molte chiudeansi dilettose dapi.
Collocò nella barca; e fu suo dono
Un lenissimo ancor vento innocente,
Che mandò innanzi ad increspargli il mare.
Lieto l'eroe dell'innocente vento,
La vela dispiegò. Quindi al timone
Sedendo, il corso dirigea con arte;
Né gli cadea su le palpebre il sonno,
Mentre attento le Pleiadi mirava,
E il tardo a tramontar Boote, e l'Orsa
Che detta è pure il Carro, e là si gira,
Guardando sempre in Orione, e sola
Nel liquido Oceàn sdegna lavarsi:
L'Orsa, che Ulisse, navigando, a manca
Lasciar dovea, come la Diva ingiunse.
Dieci pellegrinava e sette giorni
Su i campi d'Anfìtrite. Il dì novello.
Gli sorse incontro co* suoi monti ombrosi
L'isola de'Feaci, a cui la strada
Conducealo piti corta, e che apparia
Quasi uno scudo alle fosche onde sopra.
Sin dai monti di Solima lo scórse
Veleggiar per le salse onde tranquille
Il possente Nettun, che ritornava
Dall'Etiopia, e nel profondo core
Più crucciato che mai, squassando il capo.
Poh! disse dentro a sé, nuovo decreto,
Mentr'io fui tra gli Etiopi, intorno a Uiisse
Fér dunque i Numi? Ei già la terra vede
De'Feaci, che il, fato a lui per meta
Delle sue lunghe disventure assegna.
Pur molto, io credo, a tollerar gli resta.
Odissea 7
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08 , ODISSEA (v. 373-408)
Tacque; e, dato piglio al gran tridente,
Le nubi radunò, sconvolse l'acque,
Tutte incitò di tutti i venti Tire,
E la terra di nuvoli coverse,
Coverse il mar; notte di ciel giù scese.
S'avventare sul mar quasi in un groppo
Ed Euro e Noto, e il celere Ponente,
E Aquilon, che pruine aspre su Tali
Reca, ed immensi flutti innalza e volve.
Discior sentissi le ginocchia e il core
Di Laerte il figliuol, che tal si dolse
Nel secreto deiralma: Ahi me infelice!
Che di me sarà omai? Temo, non torni
Verace troppo della Ninfa il detto,
Che al patrio nido io giungerei per mezzo
Delle fatiche solo e deirangbscie.
Di quai nuvole il cielo ampio inghirlanda
Giove, ed il mar conturba? E come tutti
Fremono i venti? A certa morte io corro.
Oh tre fiate fortunati e quattro.
Cui perir fu concesso innanzi a Troia,
Per gli Atridi pugnando! E perchè allora
Non caddi anch'io, che al morto Achille intorno
Tante i troiani in me lance scagliaro?
Sepolto i Greci co* funebri onori
M'avriano, e alzato ne' lor canti al cielo,
Or per via così infausta ir deggio a Dite.
Mentre cosi doleasi, un'onda grande
Venne d'alto con furia, e urtò la barca,
E rigirolla; e lui, che andar lasciossi
Dalle mani il timon, fuori ne spinse.
Turbine orrendo d'aggroppati venti
L'albero a mezzo gli fiaccò: lontane
Vela ed antenna caddero. Ei gran tempo
Stette di sotto, mal potendo il capo
Levar dall'onde impetuose e grosse;
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(v. 409-444) LIBRO V. 99
Che le vesti gravavanlo, che in dono
Da Calipso ebbe. Spuntò tardi, e molta
Dalla bocca gli uscia, gli piovea molta
Dalla testa e dal crine onda salata.
Non però della zatta il prese oblio:
Ma, da sé i flutti respingendo, ratto
L'apprese, e già di sopra, il fin di morte
Schivando, vi sedea. Rapiala il fiotto
Qua e là per lo golfo. A quella guisa
Che sovra i campi il Tramontan d'autunno
Fascio trabalza d'annodate spine,
I venti trabalzavano sul mai»6.
Or Noto da portare a Borea Toffre,
Ed or, perchè davanti a sé la cacci,
Euro la cede d'Occidente al vento.
La bella il vide dal tallon di perla
Figlia di Cadmo, Ino chiamata slÌ tempo
Che vivea tra i mortali: or nel mar gode
Divini onori, e Leucotèa si noma.
Compunta il cor per lui d'alta pietade.
S'alzò dell'onda fuor, qual mergo, a volo,
E, da le travi bene avvinte assisa.
Cosi gli favellò: Perché meschino,
S'accese mai con te d'ira si acerba
Lo Scotitor della terrena mole,
Che ti semina i mali? Ah! non fia certo
Ch'ei, per quanto il desìi, spenga i tuoi giorni.
Fa', poiché vista m* hai d'uomo non folle.
Ciò ch'io t'insegno. I panni tuoi svestiti,
Lascia il naviglio da portarsi ai venti,
E a nuoto cerca il Feacese lido^
Che per meta de' guai t'assegna il fato.
Ma questa prendi, e la t'avvolgi al petto,
Fascia immortai, né temer morte o danno.
Tocco della Feacia il lido appena.
Spogliala, e in mar dal continente lungi
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100 ODISSEA (v. 445-480
La gitta, torci nel gittarla il volto.
Ciò detto, e a lui Timmortal fascia data.
Rientrò, pur qual mergo, in seno al fosco
Mare ondeggiante, che su lei si chiuse.
Pensoso resta e in forse il paziente
Laerziade divino, e con sé stesso,
Raddoppiando i sospir, tal si consiglia:
Ohimè! che nuovo non mi tessa inganno
De' sempiterni alcun, che dal mio legno
Partir m'ingiunge, lo così tosto penso
Non ubbidirgli; che la terra, dove
Di scampo ei m'affidò, troppo* è lontana.
Ma ecco quel che ottimo parmi: quanto
Congiunte rimarran tra lor le travi,
Non abbandonerolle, e co' disastri
Fermo io combatterò. Sciorralle il flutto?
Porrommi a nuoto; né veder so meglio.
Tai cose in sé volgea, quando Nettuno,
Sollevò ujQ'onda immensa, orrenda, grave
Di monte in guisa, e la sospinse. Come
Disperse qua e là vanno le secche
Paglie, di cui sorgea gran mucchio in prima,
Se mai le investe un furioso turbo,
Le tavole pel mar disperse andaro.
Sovra un sol trave a cavalcioni Ulisse
Montava: i panni che la Dea Calipso i
Dati gli avea, svesti, s'avvolse al petto
L' immortai benda, e si gittò ne' gorghi
Boccon, le braccia per notare aprendo.
Né già s'ascose dal ceruleo Iddio,
Che, la testa crollando, A questo modo
Erra, dicea tra sé, di flutto in flutto
Dopo tante sciagure, e a genti arriva
Da Giove amate: benché speme io porti
Che né tra quelle brillerai di gioia.
Cosi Nettuno; e della verde sferza
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(V. 481-516) LIBRO V. 101
Toccò i caralli, alle leggiadre chiome.
Che il condussero ad Ega, ove gli splende
Nobile altezza di real palagio.
Pallade intanto, la prudente figlia
Di Giove, altro pensò. Fermò gli alati
Venti, e silenzio impose loro, e tutti
Gli avvinse di sopor, fuorché il veloce
Borea, che, da lei spinto, i vasti flutti
Dinanzi a Ulisse infranse, ond'ei le rive
Del vago di remar popol Feace
Pigliar potesse, ed ingannar la Parca.
Due giorDÌ in cotal foggia, e tante notti
Per l'ampio golfo errava, e spesso il core
Morte gli presagia. Ma quando l'Alba
Cinta la fronte di purpuree rose
Il dì terzo recò, tacquesi il vento,
E un tranquillo seren regnava intorno.
Ulisse allor, cui levò in alto un grosso
Flutto, la terra non lontana scòrse,
Forte aguzzando le bramose ciglia.
Quale appar dolce a un fìgliuol pio la vista
Del genitor che su dolente letto
Scarno, smunto, distrutto, e da un maligno
Demone giacque lunghi di percosso,
E poi del micidial morbo cortesi
Il disciolser gli Dei: tale ad Ulisse
La terra e il verde della selva apparve.
Quinci ei, notando, ambi movea di tutta
Sua forza i piedi a quella volta. Come
Presso ne fu, quanto d'uom corre un grido.
Fiero il colpì romor: poiché i ruttati
Sin dal fondo del mar flutti tremendi.
Che agli aspri si rompean lidi Tonchiosi
Strepitavan, mugghiavano, e di bianca
Spuma coprian tutta la sponda, mentre
Porto capace di navigli, o seno
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102 ODissfiA (v. 517-552)
Non vi s'apria, ma littorali punte
Risaltavano in fuori, e scogli. e sassi.
Le forze a tanto ed il coraggio Ulisse
Fallir si sente, e dice a sé, gemendo:
Qual prò che Giove il disperato suolo
Mostri, e io m'abbia la via per Tonde aperta,
Se dell'uscirne fuor non veggio il come?
Sporgon su l'onde acuti sassi, a cui
L'impetuoso flutto intorno freme,
E una rupe va su liscia e lucente:
Né così basso è il mar, che nell'arena
Fermare il pie securameute io valga.
Quindi, s'io trar men voglio, un gran maroso
Sovra di sé può termi, e in dura pietra
Cacciarmi; o s'io lungo le rupi cerco
Notando un porto, o una declive schiena.
Temo, non procellosa onda m'avvolga,
E sospirando gravemente in grembo
Mi risospinga del pescoso mare.
Forse un de' mostri ancor, che molti nutre
Ne' gorghi suoi la nobile Anfìtrite,
M'assalirà: che l'odio io ben conobbi,
Che m'ha quel Dio per cui la terra trema.
Stando egli in tai pensieri, una sconcia onda
Traportollo con sé vèr l'ineguale
Spiaggia, che lacerata in un sol punto
La pelle avriagli, e sgretolate l'ossa.
Senza un consiglio, che nel cor gli pose
L'occhicerulea Diva. Afferrò ad ambe
Mani la rupe, in ch'ei già dava, e ad essa
Gemendo s'attenea. Deluso intanto
Gli passò sulla testa il violento
Flutto: se non che poi tornando indietro.
Con nuova furia il ripercosse, e lunge
Lo sbalzò della spiaggia al mare in grembo.
Polpo così dalla pietrosa tana
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(v. 553-588) LIBRO v. 103
Strappato Tien; salvo che a lui non pochi
Restan lapilli nelle branche infìtti;
E Ulisse in vece la squarciata pelle
Delle nervose man lasciò alla rupe.
L'onde allora il coprirò, e l'infelice
Contra il fato perla: ma infuse a lui
Nuovo pensier T Occhiazzurina. Sorto
Dall'onde, il lido costeggiava, ai flutti.
Che vel portavan, contrastando, e attento
Mirando sempre, se da qualche parte
Scendesse una pendice, o un seno entrasse:
Né dall'opra cessò, che d'un bel fiume
Giunto si vide all'argentina foce.
Ottimo qui gli sembrò il loco al fine,
Siccome quel che né di sassi aspro era.
Né discoperto ai venti. Avvisò ratto
Il puro umor. che devolveasi al mare,
E tal dentro di sé preghiera feo:
chiunque tu sii Re di quest'acque.
Odimi: a te. cui sospirai cotanto.
Gli sdegni di Nettuno e le niinacce
Fuggendo, io m'appresento. È sacra cosa
Per l'Immortali ancor l'uom, che d'altronde
Venga errando, com'io, che dopo molti
Durati affanni ecco alla tua corrente
Giungo, e ai ginocchi tuoi. Pietà d'Ulisse,
Che tuo supplice vedi, o Re, ti prenda.
Disse ; ed il Nume acchetò ih corso; e l'onda
Ritenne, sparse una perfetta calma,
E alla foce il salvò del suo bel flume.
L'eroe, tocca la terra, ambo i ginocchi
Piegò, piegò le nerborute braccia:
Tanto il gran sale l'affìiggea. Gonfiava
Tutto quanto il suo corpo, e per la bocca
Molto mar gli sgorgava, e per le nari,
Ed ei senza respiro e senza voce
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104 ODISSEA {t. 589-tf24)
Giaceasi, e spento di vigore affatto;
Che troppa nel suo corpo entrò stanchezza;
Ma come il fiato ed il pensier riebbe.
Tosto dal petto la divina benda
Sciolse, e gittolla ove amareggia il fiume.
La corrente rapi vaia; né tarda
A riprenderla fu con man la Dea.
Ei, ddironda ritrattosi, chinossì
Su i molli giunchi, e baciò Talma Terra.
Poi nel secreto della sua grand'alma
Cosi parlava, e sospirava insieme:
Eterni Dei, che mi rimane ancora
Di periglioso. a tollerar? Dov'io
Questa gravosa notte al fiume in riva
Vegghiassi, Taer freddo e il molle guazzo
Potrian me di persona e d'alma infermo
Struggere al tutto; che su i primi albori
Nemica brezza spirerà dal fiume.
Salirò al colle in vece, ed all'ombrosa
Selva, e m'addormirò tra i folti arbusti.
Sol che non vieti la fiacchezza o il ghiado,
Che il sonno in me passi furtivo? Preda "
Diventar delle fere e pasto io temo.
Dopo molto dubbiar questo gli parve
Men reo partito. Si rivolse al bosco.
Che non luuge dall'acque a un poggio in cima
Pea di He mostra, e s'internò tra due
Si vicini arboscei, che dalla stessa
Radice uscir pareano, ambi d'ulivo.
Ma domestico Tun, l'altro selvaggio.
La forza non croUavali de' venti.
Né l'igneo Sole co' suoi raggi addentro
Li saettava, né le dense piogge
Penetravan tra lor: sì uniti insieme
Crebbero, e tanto s'intrecciare i rami.
Ulisse sottentrovvi, e ammonticossi,
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(v. 625-642) LIBRO V. 105
Di propria man comodo letto, quando
Tal ricchezza era qui di foglie sparse,
Che ripararvi uomini tre, non che uno.
Potuto avriano ai più crudeli verni.
Gioì alla vista delle molte foglie
L'uom divino, e corcossi entro alle foglie,
E a sé di foglie sovrappose un monte.
Come se alcun che solitaria suole
Gondar la vita in sul confìn d'un campo.
Tizzo nasconde fumeggiante ancora
Sotto la hruna cenere, e del foco,
Perchè cercar da sé lungi noi debha.
Serba in tal modo il prezioso seme:
Così celossi tra le foglie Ulisse.
Pallade allor, che di si rea fatica
Bramava torgli l'importuno senso,
Un sonno gli versò dolce negli occhi.
Le dilette palpebre a lui velando.
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LIBRO SESTO
ARGOMENTO
Pallade va nelFisola de' Feaci, ed appare in sogno a Nauaica
figlia del re Alcinoo; e l'esorta condursi al fiume a lavar
le vesti, avvicinandosi il giorno delle sue nozze. — Nausica,
ottenuto dal padre il cocchio esce della cittii. — Lavate le
vesti, mettesi a giocare alla palla colle sue ancelle. — Lo
strepito risveglia Ulisse, che ancor dormia, e che presen-
tanosi alla Principessa, pregala di sowenimento, -* Ella il
soccorre di cibo e vestito, e guidalo alla città.
Mentre sepolto in un profondo sonno
Colà posava il travagliato Ulisse,
Minerva al popol de*Feaci, e ali alta
Lor città s'avviò. Questi da prima
Ne* vasti d'Iperèa fecondi piani
Far dimora solean, presso 1 Ciclopi,
Gente di cuor superbo, e a' suoi vicini
Tanto molesta più, quanto piti forte.
Quindi Nausitoo, somigliante a un Dio,
Di tal sede levoUi, e in una terra.
Che dagli uomini industri il mar divide.
Gli allogò, nella Scheria; e qui condusse
Alla cittade una muraglia intorno,
Le case fabbricò, divise i campi,
B agl'Immortali i sacri templi eresse.
Colpito dalla Parca, ai foschi regni
Era già sceso, e Alcinoo, che i beati
Numi assennato avean, reggea lo scettro.
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(v. 19-54) LIBRO VI. 107
L*occhicilestra Dea, che sempre fissa
Nel ritorno d'Ulisse avea la mente,
Tenne verso la reggia, e alla secreta
Dedalea stanza si rivolse, dove
Giovinetta dormia, che le Immortali
D'indole somigliava e di fattezze^
Naosica, del re figlia; ed alla porta.
Che rinchiusa era, e risplendea nel buio,
Giacean due, Tuna quinci e Taltra quindi,
Pudiche ancelle, cui le Grazie istesse
Di non vulgar beltà la faccia ornare.
La Dea che gli occhi in azzurrino tinge.
Quasi fiato leggier di picciol vento,
S'avvicinò della fanciulla al letto,
E sul capo le stette, e, preso il volto
Della figlia del prode in mar Dimante
Molto a lei cara, e ugual d'etade a lei,
Cotali le drizzò voci nel sonno:
Deh, Nausica, perchè te così lenta
La genitrice partorì? Neglette
Lasci giacerti le leggiadre vesti,
Benché delle tue nozze il dì s'appressi,
Quando le membra tue cinger dovrai
Delle vesti leggiadre, e a quelli offrirne,
Che scorgeranti dello sposo ai tetti.
Cosi fama s'acquista, e ne gioisce
Col genitor la veneranda madre.
Dunque i bei panni, come il cielo imbianchi.
Vadasi a por nell'onda: io nell'impresa,
Onde trarla più ratto a fin tu possi.
Compagna ti sarò. Vergine, io credo.
Non rimarrai gran pezza; e già di questo.
Tra cui nascesti e tu, popol feace
I migliori ti ambiscono. Su via.
Spuntato appena in Oriente il Sole,
Trova l'inclito padre, e de' gagliardi
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108 ODISSEA (v. 55-90)
Muli il richiedi, e del polito carro,
Che i pepli, gli scheggiali e i preziosi
Manti conduca: poiché sì distanno
Dalia città i lavacri, che del cocchio
Valerti, e non del piede, a te s'addice.
Finiti ch*ehbe tali accenti, e messo
Consiglio tal della fanciulla in petto.
La Dea, che guarda con azzurre luci,
AirOlimpo tornò, tornò alla ferma
De' sempiterni Dei sede tranquilla.
Che né i venti commovono, né bagna
La pioggia mai, né mai la neve ingombra ;
Ma un seren puro vi si spande sopra
Da nube alcuna non offeso, e un vivo
Candido lume la circonda, in cui
Si giocondan mai sempre i Dii beati. ,
L'Aurora intanto d'in su l'aureo trono
Comparve in Oriente, e alla sopita '
Vergine dal bel peplo i lumi aperse. i
La giovinetta s'ammirò del sogno, '
E al padre per narrarlo, ed alla madre 1
Corse, e trovoUi nel palagio entrambi. . I
La madre assisa al focolare, e cinta j
Dalle sue fanti, e, con la destra al fuso, I
Lane di fina porpora torcea. j
Ma nel caro suo padre, in quel che al grande j
Concilio andava, ove attendevanlo i capi
De'Feacesi, s'abbattè Nausica,
E, stringendosi a lui, Babbo mio dolce,
Non vuoi tu farmi apparecchiar, gli disse,
L'eccelso carro dalle lievi ruote,
Acciocché le neglette io rechi al fiume
Vesti oscurate, e nitide le torni?
Troppo a te si convien, che tra i soprani
Nelle consulte ragionando siedi,
Seder con monde vestimenta in dosso.
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(V. 91-126) LIBRO VI. 109
GÌDque in casa ti vedi amati :^li,
Due già nel maritaggio, e tre cui ride
Celibe fior di giovinezza in. volto.
Questi al ballo ir vorrian con panni sempre
Giunti dalle lavande allora allora.
E tai cose a me son pur tutte in cura.
Tacquesi a tanto; che toccar le nozze
Suo giovanili non s'ardia col padre.
Ma ei comprese il tutto, e sì rispose:
Né di questo io potrei, nò d'altro, o figlia,
Non soddisfarti. Va': l'altro impalcato
Carro veloce appresteranti i servi.
Disse; e gli ordini diede, e pronti i servi
La mular biga dalle lievi ruote
Trasser fuori, e allestirò, e i forti muli -
Vi miser sotto, e gli accoppiare. Intanto
Venia Nausica con le belle vesti,
Che su la biga lucida depose.
Cibi graditi e di sapor diversi
La madre collocava in gran paniere,
E nel capace sen d'otre caprigno
Vino infondea soave: indi alla figlia.
Ch'era sul cocchio, perchè dopo il bagno
Sé con le ancelle, che seguianla, ungesse.
Porse in ampolla d'or liquida oliva.
Nausica in man le rilucenti briglie
Prese, prese la sferza, e die di questa
Sovra il tergo ai quadrupedi robusti.
Che si moveano strepitando, e i passi
Sensa posa allungavano, portando
Le vesti, e la fanciulla, e non lei sola.
Quando ai fianchi di lei sedean le ancelle.
Tosto che fur dell'argentino fiume
Alla pura corrente, ed ai lavacri
Di viva ridondanti acqua perenne,
Da cui macchia non è che non si terga,
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110 ODISSEA (V. 127-162)1
Sciolsero i muli, e al Torticoso fiume, '
Il verde a morsecchiar cibo soave
Del mèle al pari, li mandaro in riva. !
Poscia dal cocchio su le braccia i drappi
Recavansi, e gittavangli neironda,
Che nereggiava tutta; e in larghe fosse
Gianli con presto pie pestando a prova.
Purgati e netti d'ogni lor bruttura,
L'uno appo l'altro gli stendean sul lido,
Là dove le pietruzze il mar poliva.
Ciò fatto, si bagnò ciascuna, e s'unse,
E poi del fiume pasteggiar sul margo:
Mentre d'alto co' raggi aureolucenti
Gli stesi drappi rasciugava il Sole.
Ma, spento della mensa ogni desio,
Una palla godean trattar per gioco,
Deposti prima dalla testa i veli;
Ed il canto intonava alle compagne
Nausica bella dalle bianche braccia.
Come Diana per gli eccelsi monti
del Taigeto muove, o d'Erimanto,
Con la faretra agli omeri, prendendo
De' ratti cervi e de' cinghiai diletto :
Scherzan, prole di Giove, a lei d'intorno
Le boscherecce Ninfe, onde a Latona
Serpe nel cor tacita gioia; ed ella
Va del capo sovrana, e della fronte
Visibilmente a tutte l'altre, e vaga
Tra loro è più qual da lei meno è vinta:
Così spiccava tra le ancelle questa
Da giogo maritai vergine intatta.
Nella stagion che al suo paterno tetto,
1 muli aggiunti, e ripiegati i manti,
Ritornar disponea, nacque un novello
Consiglio in mente all'occhiglauca Diva,
Perchò Ulisse dissonnisi, e gli appaia
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(v. 163-198) UBRO VI. Ili
La giovinetta dalle nere ciglia,
Che de' Feaci alla cittade il guidi.
Nausica in man tolse la palla, e ad nna
Delle compagne la scagliò: la palla
Desviossi dal segno a cui volava.
E Bel profondo vortice cade.
Tutte misero allora un alto grido,
Per cui si ruppe incontanente il sonno
Nel capo a Ulisse, che a seder drizzossi,
Tal cose in sé volgendo; Ahi fra qual gente
Mi ritrovo io? Cruda, villana, ingiusta,
O amica degli estrani, e ai Dii sommessa?
Quel, che Torecchio mi percosse, un grido
Femminil parmi di fanciulle Ninfe,
Che de' monti su i gioghi erti, e de' fiumi
Nelle sorgenti, e per l'erbose valli
Albergano. son forse umane voci.
Che testé mi ferirò? Io senza indugio
Dagli stessi occhi miei sapronne il vero.
Ciò detto, uscia l'eroe fuor degli arbusti,
E con la man gagliarda in quel che uscia,
Scemò la selva d'un foglioso ramo.
Che velame gli valse ai fianchi intorno.
Quale dal natio monte, ove la pioggia
Sostenne e i venti impetuosi, cala
Leon, che nelle sue forze confida:
Foco son gli occhi suoi ; greggia ed armento,
O le cerve salvatiche, al digiuno
Ventre ubbidendo, parimente assalta.
Né, perchè senta ogni pastore in guardia,
Tutto teme investir l'ovile ancora:
Tal, benché nudo, sen veniva Ulisse,
Necessità stringendolo, alla volta
Delle fanciulle dal ricciuto crine,
Cui, lordo di salsuggine, come' era.
Sì fiera cosa rassembrò, che tutte
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112 ODISSEA (V. 199-234)
Fuggirò qua e là per TalteVive.
Sola d'Alcinoo la diletta figlia,
Cui Pallade nell'alma infase ardire,
E francò d'ogni tremito le membra,
Piantossegli di centra, e immota stette.
In due pensieri ei di videa la mente:
le ginocchia strignere a Nausica,
Di supplicante in atto, o di lontano
Pregarla molto con blande parole,
Che la città mostrargli, e d'una vesta
Rifornirlo, volesse, A ciò s'attenne;
Che dello strigner de* ginocchi sdegno
Temea che in lei si risvegliasse. Accenti
Dunque le inviò blandi e accorti a un tempo.
Regina, odi i miei voti. Ah degg'io Dea
Chiamarti, o umana donna? Se tu alcuna
Sei delle Dive che in Olimpo han seggio.
Alla beltade, agli atti, al maestoso
Nobile aspetto, io l' immortai Diana,
Del gran Giove la figlia, in te ravviso.
E se tra quelli, che la terra nutre.
Le luci apristi al dì, tre volte il padre
Beato, e tre la madre veneranda,
E beati tre volte i tuoi germani,
Cui di conforto almo s'allarga e brilla
Di schietta gioia il cor, sempre che in danza
Veggiono entrar sì grazioso germe.
Ma felice su tutti oltra ogni detto
Chi potrà un dì nelle sue case addurti
D'illustri carca nuziali doni.
Nulla di tal s'offerse unqua nel volto
di femmina, o d'uomo, alle mie ciglia:
Stupor, mirando, e riverenza tiemmi.
Tal quello era bensì, che un giorno in Delo,
Presso l'ara d'Apollo, ergerai io vidi
Nuovo rampollo di mirabil palma:
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(v. 235-270) LIBRO VI. 113
Che a Delo ancora io mi condussi, e molta
Mi seguia gente armata in quel viaggio
Che in danno riuscir doveami al fine.
E com'io, fissi nella palma gli occhi,
Colmo restai di maraviglia, quando
Di terra mai non surse arbor sì bello,
Così te, donna, stupefatto ammiro,
E le ginocchia tue, benché m'opprima
Dolore immenso, io pur toccar non oso.
Me uscito deirOgigia isola dieci
Portava giorni, e dieci il vento e il fiotto.
Scampai dalFonda ier soltanto, e un Nume
Su queste piagge, a trovar forse nuovi
Disastri, mi gittò; poscia che stanchi
Di travagliarmi non cred'io gli Eterni.
Pietà di me, Regina, a cui la prima,
Dopo tante sventure, innanzi io vegno,
Io, che degli abitanti, o la campagna
Tengali, o la città, nessun conobbi.
La cittade m'addita, e un panno dammi,
Che mi ricopra; dammi un sol, se panni,
Qua recasti con te, di panni invoglio.
E a te gli Dei, quanto il tuo cor desia.
Si compiaccian largir: consorte e figli,
E un sol volere in due; però ch'io vita
Non so più invidiabile, che dove
La propria casa con un' alma sola
Veggonsi governar marito e donna.
Duol grande i tristi n'hanno, e gioia i buoni:
Ma quei ch'esultan più, sono i due sposi.
forestier, tu non mi sembri punto
Dissennato e dappoco, allor rispose
La verginetta dalle bianche braccia.
L'Olimpio Giove, che sovente al tristo
Non men che al buon felicità dispensa.
Mandò a te la sciagura, e tu da forte
Odissea DigitzedbyGoOglI
114 ODISSEA (v. 271-306)
La so&terrai. Ma, poiché ai nostri lidi
Ti convenne approdar, di veste, o d'altro.
Che ai supplici si debba, ed ai meschini,
Non patirai disagio. Io la cittade
Mostrarti non ricuso, e il nome dirti
Degli abitanti. È de'Feaci albergo
Questa fortunata isola; ed io nacqui
Dal magnanimo Alcinoo, in cui la somma
Del poter si restringe e dell'impero.
Tal favellò Nausica; e alle compagne,
Olà, disse, fermatevi. In qual parte
Fuggite voi, perchè v'apparse un uomo?
Mirar credeste d'un nemico il volto?
Non fu, non è, e non fi a chi a noi s'attenti
Guerra portar: tanto agli Dei siam cari.
Oltre che in sen dell'ondeggiante mare
Solitari viviam, viviam divisi
Da tutto l'altro della stirpe umana.
Un misero è costui, che a queste piagge
Capitò errando, a cui pensare or vuoisi.
Gli stranieri, vedete, ed i mendichi
Vengon da Giove tutti, e non v'ha dono
Picciolo sì, che lor non torni caro.
Su via, di cibo e di bevanda il nuovo
Ospite soccorrete; e pria d'un bagno
Colà nel fiume, ove non puote il vento.
Le compagne ristéro, ed a vicenda
Si rincoraro; e, come avea d'Alcinoo j
La figlia ingiunto, sotto un bel frascato i
Menaro Ulisse, e accanto a lui le vesti
Poser, tunica e manto, e la rinchiusa
Nell'ampolla dell'or liquida oliva: '
Quindi ad entrar col pie nella corrente '
Lo inanimirò. Ma l'eroe: Fanciulle,
Appartarvi da me non vi sia grave, 1
Finché io questa salsuggine marina '
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(r. 307-342) libro vi. 115
Mi terga io stesso, e del salubre m'unga
Dell'oliva licor, conforto ignoto
Da lungo teinpo alle mie membra. Io certo
Non laverommi nel cospetto vostro;
Che tra voi starmi non ardisco ignudo.
Trasser le ancelle indietro, ed a Nausica
Ciò riportaro. Ei dalle membra il sozzo
Nettunio sai, che gì* incrostò le larghe
Spalle ed il tergo, si togliea col fiume,
E la bruttura del feroce mare
Dal capb s'astergea. Ma come tutto
Si fu lavato ed unto, e di que' panni
Vestito, ch'ebbe da Nausica in dono,
Lui Minerva, la prole alma di Giove,
Maggior d'aspetto, e più ricolmo in faccia
Rese, e più fresco, e de' capei lucenti,
Che di giacinto a fior parean sembianti,
Su gli omeri cader gli feo le anella.
E qual se dotto mastro, a cui dell'arte
Nulla celaro Pallade e Vulcano,
Sparge all'argento il liquid'oro intorno
Sì, che all'ultimo suo giunge con l'opra:
Tale ad Ulisse TAtenèa Minerva
Gli omeri e il capo di decoro asperse,
Ad Ulisse, che poscia, ito in disparte.
Su la riva sedea del mar canuto.
Di grazia irradiato e di beltade.
La donzella stordiva, ed all'ancelle
Dal crin ricciuto disse: Un mio pensiero
Nascondervi io non posso. Avversi, il giorno
Che le nostre afferrò sponde beate.
Non erano a costui tutti del cielo
Gli abitatori: egli d'uom vile e abbietto
Vista m'avea da prima, ed or simile
Sembrami a un Dio che su l'Olimpo siede.
Oh colui fosse tal, che i Numi a sposo
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116 ODISSEA (v. 343.378)
Mi destinaro! Ed oh piacesse a lui
Fermar qui la sua stanza! OrsìJ, di cibo
Sovvenitelo, amiche, e di bevanda.
Quelle ascoltaro con orecchio teso,
E il comando seguir: cibo e bevanda
All'ospite imbandirò^ e il paziente
Divino Ulisse con bramose fauci
L*uno e Taltra prendea, qual chi gran tempo
Bramò ì ristori della mensa indarno.
Qui Tocchinera vergine novello
Partito immaginò. Sul vago carro
Le ripiegate vestimenta posa,
Aggiunse i muli di forte unghia, e salse.
Poi cosi Ulisse confortava: Sorgi,
Stranier, se alla cittade ir ti talenta,
E il mio padre veder, nel cui palagio
S' accoglieran della Feacia i capi.
Ma, quando folle non mi sembri punto,
Cotal modo terrai. Finché moviamo
De* buoi tra le fatiche e de' coloni,
Tu con le ancelle dopo il carro vieni
Non lentamente: io ti sarò per guida.
Come da presso la cittade avremo,
Divideremci. É la città da un alto
Muro cerchiata, e due bei porti vanta
D'angusta foce, un quinci, e Taltro quindi
Su le cui rive tutti in lunga fila
Posan dal mare i naviganti legni.
Tra un porto e l'altro si distende il fòro
Di pietre quadre, e da vicina cava
Condotte, lastricato; e al fòro in mezzo
L'antico tempio di Nettun si leva.
Colà gli arnesi delle negre navi.
Gomene e vele, a racconciar s'intende,
E i remi a ripolir: che de'Feaci
Non lusingano il core archi e farètre,
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(v. 379-414) LIBRO VI. 117
Ma veleggianti o remiganti navi,
Su cui passano allegri il mar spumante.
Di cotestoro a mio potere io sfuggo
Le voci amare, non alcun da tergo
Mi morda, e tal, che s'abbattesse a noi,
Della feccia più vii. Chi è, non dica.
Quel forestiero che Nausica siegue.
Bello d'aspetto e grande? Ove trovollo?
Certo è lo sposo. Forse alcun di quelli.
Che da noi parte il mar, ramingo giunse.
Ed ella il ricevè, che uscia di nave:
da lunghi chiamato ardenti voti
Scese di cielo, jq le comparve un Nume
Che seco riterrà tutti i suoi giorni.
Più bello ancor, se andò ella stessa in traccia
D'uom d'altronde venuto, e a lui donossi.
Dappoi che i molti, che l'ambiano, illustri
Feaci tanto avanti ebbe in dispetto.
Cosi diriano; e crudelmente offesa
Ne saria la mia fama, lo stessa sdegno
Concepirei centra chiunque osasse.
De' genitori non contenti in faccia.
Pria meschiarsi con gli uomini, che sorto
Fosse delle sue nozze il dì festivo.
Dunque a' miei detti bada; e leggiermente
Ritorno e scorta impetrerai dal padre.
Folto di pioppi ed a Minerva sacro
Ci s'offrirà per via bosco fronzuto.
Cui viva fonte bagna, e molli prati
Cingono: ivi non più dalla cittade
Lontan, che un gridar d'uomo, il bel podere
Giace del padre, e l'orto suo verdeggia.
Ivi, tanto che a quella ed al paterno
Tetto io giunga, sostieni; e allor che giunta
Mi crederai, tu pur t'inurba, e cerca
Il palagio del Re. Del Re il palagio
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118 ODISSEA (v. 415-450)
Gli occhi tosto a sé chiama, e un faacialli&o
Vi ti potria condur; che de'Feaci
Non sorge ostello che il paterno adegui.
Entrato nel cortil, rapidamente
Sino alla madre mia per le superbe
Camere varca. Ella davanti al foco,
Che del suo lume le colora il volto,
Siede, e, poggiata a una colonna, torce,
Degli sguardi stupor, purpuree lane.
Siedonle a tergo le fantesche, e presso
S'alza del padre il trono, in ch'ei, qual Dio,
S'adagia, e della vite il nettar bee.
Declina il trono, e stendi alle ginocchia
Della madre le braccia; onde tra poco
Del tuo ritorno alle natie contrade.
Per remote che sien, ti spunti il giorno.
Studiati entrarle tanto o quanto in core;
E di non riveder le patrie sponde.
Gli alberghi aviti, e degli amici il volto.
Bandisci dalla mente ogni sospetto. i
Detto così, della lucente sferza I
Die su le groppe ai vigorosi muli, |
Che pronti si lasciaro il fìume addietro. ^
Venian correndo, ed alternando a gara, i
Bello a vedersi, le nervose gambe; '
E la donzella, perchè Ulisse a piede
Lei con le ancelle seguitar potesse,
Attenta carreggiava, e fea con arte
Scoppiare in alto della sferza il suono.
Cadea nell'acque occidentali il Sole,
Che al sacro di Minerva illustre bosco
Furo; ed Ulisse ivi s' assise. Quindi
A Minerva pregava in tali accenti:
Odimi, invitta dell'Egioco figlia.
Ed oggi almen fa' pieni i voti miei
Tu, che pieni i miei voti unqua non
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(v. 451-458) LIBRO VI. 119
Finché su l'onde mi sbalzò Nettuno.
Tu dammi, che gradito, e non indegno
Di pietade, ai Peaci io m' appresenti.
Disse, e Palla Tudì: ma non ancora
Visibilmente gli assistea, per tema
Del zio possente, al cui tremendo cruccio
Era, pria che i natii lidi toccasse,
Bersaglio eterno il pari ai Numi Ulisse.
LIBRO SETTIMO
ARGOMENTO
Naasica giunge alla citt^ ed alla reggia, e Ulisse poco dopo,
a cui Minerva sotto umana forma presentasi , e cui di più
cose informa, che saper gli conviene. — Stupore di lui alla
vista del palagio d'Alcinoo , e descrizione così di questo,
come del famoso giardino. — Entrato nel palagio, supplica
la regina Arete, dalla quale, come pur dai Re e dagli altri
capi, è con benignità ricevuto. — Interrogato dalla Regina,
che riconobbe le vesti ch'egli avea indosso, narra in qual
modo capitò, lasciata Calìpso, all'isola de* Feaci.
Mentre così pregava il paziente
Divino Ulisse, dal vigor de' muli
Portata era Nausica alla cittade.
Giunta d'Alcinoo alla magion sublime,
S'arrestò nel vestibolo; e i germani.
Belli al par degli Eterni, intorno a lei
D'ogni parte venian: sciolsero i muli,
E le vesti recaro entro la reggia.
Ma la fanciulla il piede alla secreta
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120 ODISSEA (v. 10-45)
Movea sua stanza, e raccendeale il foco
Eurimedusa, una sua vecchia fante,
Nata in Epiro, e su le negre navi
Condotta, e al prode Alcinoo oiferta in dono,
Perchè ai Feaci ei comandava, e lui,
Qual se un Dio favellasse, udian le genti.
Costei Nausica dal braccio di neve
RaUevò nel palagio; ed ora il foco
Raccendeale, e mettea la cena in punto.
Ulisse intanto sorse, e il cammin prese
Della città. Ma l'Atenèa Minerva,
Che da lui non torcea rocchio giammai.
Di molta il cinse impenetrabil nebbia,
Onde nessun Feace o di parole,
Scontrandolo, il mordesse, o il domandasse
Del nome e della patria. Ei già già entrava
Nell'amena città, quando la Diva
Gli occhi cerulea se gli fece incontro,
Non dissimile a vergine che piena
Sul giovinetto capo urna sostenti.
Stettegli a fronte in tal sembianza, e Ulisse
Così la interrogava: figlia, al tetto
D'Alcinoo, che tra questi uomini impera,
Vuoi tu condurmi 9 Io forestier di lunge,
E dopo molti guai venni, né alcuno
Della città conobbi o del contorno.
Ospite padre, rispondea la Diva
Dai glauchi lumi, il tetto desiato
Mostrar ti posso di leggier; che quello .
Del mio buon genitor per poco il tocca.
Ma in silenzio tu seguimi, e lo sguardo
Non drizzare al alcun, non che la voce.
Render costoro agli stranieri onore
Non sanno punto, né accoglienze amiche
Trova, o carezze qui, chi altronde giunga.
Essi fidando nelle ratte navi,
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(t. 46-81) LIBRO VII. 121
Per favor di Nettuno il vasto mare
In un istante varcano; veloci
Come Tale o il pensier sono i lor legni.
Dette tai cose, frettolosa Palla
Gli entrava innanzi, e Torme ei ne calcava;
Né i Feaci scorgeanlo andar tra loro,
Cosi volendo la possente Diva,
Pallade, che al suo ben sempre intendea,
E di sacra ravvolse oscura nube.
Ulisse i porti e i ben costrutti legni
Maravigliava, e le superbe piazze,
Ove i prenci s'assembrano, e le lunghe.
Spettacolo ammirando, eccelse mura
Di steccati munite e di ripari.
Ma non prima d'Alcinoo alle regali
Case appressare, che Minerva* disse:
Eccoti, ospite padre, in faccia il tetto
Che mi richiedi: là vedrai gli alunni
Di Giove, i prenci, a lauta mensa assisi.
Cacciati dentro, e non temer: l'uom franco
D'ogni difficoltate, a cui s'incontri,
Meglio si trae, benché di lunge arrivi.
Pria la regìua, che si noma Arete,
E comun con Alcinoo il sangue vanta,
Ti s'oflfrirà alla vista. 11 Dio che scuote
Del suo tridente la terrena mole,
Un bambin ricevè dalla più bella
Donna di quell'età, da Peribèa,
Figlia minor di Eurimedonte, a cui
De' Giganti obbedia l'oltracotata
Progenie rea, che per le lunghe guerre
Tutta col suo Re stesso al fin s' estinse.
Nettun di lei s'accese, e n'ebbe un figlio,
Nausitoo generoso, il qual fu padre
Di Ressenore e Alcinoo; e sul Fsace
Popol regnava. Il primo, a cui fallia
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122 ODISSEA (v. 82-117)
Prole del miglior sesso, avea di poco
Nella sua reggia la consorte addotta,
Che Apollo dall'argenteo arco il trafisse;
Nò rimase di lui che una figliuola^
Arete, e questa in moglie Alcinoo tolse,
E venerolla fieramente: donna
Non vive in nodi maritali stretta.
Che si alto al suo sposo in mente sieda.
E in gran pregio non men Thanno, ed amore
Portanle i figli, e i cittadini ancora.
Che a lei, quandunque va per la cittade,
Gli occhi alzan, come a Diva, e con accenti
Festivi la ricevono; che senno
Né a lei pur manca vèr chi piti tien caro,
E le liti non rado ella compone.
Se un loco prender nel suo cor tu sai.
La terra, dove i lumi apristi al giorno.
La magion de* tuoi padri, e degli amici
I noti volti riveder confida.
Detto, la Dea eh' è nelle luci azzurra
Su pel mare infruttifero lanciossi,
Lasciò la bella Scheda, e Maratona
Trovò, ed Atene dalle larghe vie,
E nel suo tempio entrò, che d'Erettèo
Fu ròcca inespugnabile. Ma Ulisse
All'ostello reale il pie movea,
E molte cose rivolgea per l'alma.
Pria ch'ei toccasse della soglia il bronzo:
Che d'Alcinoo magnanimo l'augusto
Palagio chiara, qual di Sole o Luna,
Mandava luce. Dalla prima soglia
Sino al fondo correan due di massiccio
Rame pareti risplendenti, e un fregio
Di ceruleo metal girava intorno.
Porte d'or tutte la inconcussa casa
Chiudean : s'erg>an dal limitar di bronzo
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(v. 118-153) LIBRO VII. 123
Saldi stipiti argentei, ed un argenteo
Sosteneano architrave, e anello d'oro
Le porte ornava; d'ambo i lati a cui
Stavan d'argento e d'or vigili cani.
Fattura di Vulcan, che in lor ripose
Viscere dotte, e da vecchiezza immuni
TemperoUi, e da morte, onde guardato
Fosso d'Alcinoo il glorioso albergo,
B quanto si stendean le due pareti.
Eranvì sedie quinci e quindi affisse
Con fini pepli sovrapposti, lunga
Delle donne di Scheria opra solerte.
Qui de' Feaci s'assideano i primi ,
La mano ai cibi ed ai licer porgendo,
Che lor metteansi ciascun giorno avante:
K la notte garzoni in oro sculti
Su piedistalli a grande arte construtti
Spargean lume con faci in su le mense.
Cinquanta il Re servono ancelle: l'une
Sotto pietra ritonda il biondo grano
Frangono; e l'altre o tesson panni, o fusi
Con la rapida man rotano assise ,
Movendosi ad ognor, quali agitate
Dal vento foglie di sublime pioppo.
Splendono i drappi a maraviglia intesti,
Come se un olio d'or su vi scorresse.
Poiché quanto i Feaci a regger navi
Gente non han che li pareggi, tanto
Valgon tele in oprar le Feacesi,
Cui mano industre più che alle altre donne
Diede Minerva, e più sottile ingegno.
Ma di fianco alla reggia un orto grande,-
Quanto ponno in dì quattro arar due tori,
Stendesi, e viva siepe il cinge tutto.
Alte vi crescon verdeggianti piante,
11 pero e il melagrano, e di vermigli
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124 ODISSEA (v. 154-189>
Pomi carico il melo, e col soave
Fico nettareo la canuta oliva.
Né il frutto qui, regni la state, o il verno.
Pére, e non esce fuor: quando si dolce
D'ogni stagione un zefìretto spira,
Che mentre, spunta Tun, Taltro matura,
Sovra la pera giovane e su l'uva.
L'uva e la pera invecchia, e i pomi a i fichi
Presso ai fichi ed ai pomi. Abbarbicata
Vi lussureggia una feconda vigna,
De* cui grappoli il Sol parte dissecca
Nel più aereo ed aprico, e parte altrove
La man dispicca dai fogliosi trxilci,
calca il pie ne' larghi tini: acerbe
Qua buttan Tuve i redolenti fiori,
E di porpora là tingonsi e d'oro.
Ma del giardino in sul confin tu vedi
D'ogni erba e d'ogni fior sempre vestirsi
Ben eulte aiuole, e scaturir due fonti
Che non taccion giammai: l'una per tutto
Si dirama il giardino, e l'altra corre,
Passando del cortil sotto alla soglia,
Sin davanti al palagio; e a questa vanno
Gli abitanti ad attignere. Sì bella
Sede ad Alcinoo destinare i Numi.
Di maraviglia tacito, e, sospeso
Ulisse colà stava; e visto ch'ebbe
Tutto, e rivisto con secreta lode.
Nell'eccelsa magion ratto si mise.
Trovò i Feaci condottieri e prenci,
Che libavan co' nappi all'Argicida
Mercurio, a cui libar solean da sózzo,
Come del letto gli assalia la bramà>
E innanzi trapassò dentro alla folta
Nube che Palla gli avea sparsa intorno,
Finché ad Arete e al suo marito giunse,
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V. 190-225) LifeRO VII. 128
Circondò con le braccia alla reina
Le ginocchia; ed in quel da lui staccossi
La nube sacra, e in vento si disciolse.
Tutti repente ammutolirò, e forte
Stupian, guardando Tuom che alla reina
Supplicava in tal forma: del divino
Ressenore figliuola, illustre Arete,
A.lle ginocchia tue dopo influiti
Disgistri io vegno, vegno al tuo consorte,
E a questi Grandi ancor, cui di felici
Menar gli Dei concedeano, e ne' figli
Le ricchezze domestiche e gli onori
Che s'acquistaro, tramandare. Or voi
Scorta m'apparecchiate, acciocché in breve
Alla patria io mi renda ed agli amici,
Da cui vivo lontan tra i guai gran tempo.
Disse, e andò al focolare, e innanzi al foco
Sovra l'immonda cenere sedette:
Né alcun fra tanti apria le labbra. Al fine
Parlò Teroe vecchio Etenèo, che in pronto
Molte avea cose trapassate, e tutti
Di facondia vincea^ non men che d'anni.
Alcinoo, disse con amico petto,
Poco ti torna onor, che su l'immonda
Cenere il forestier sieda: e se nullo
Muovesi, egli é perchè un tuo cenno aspetta.
Su via, levai di terra, e in«sedia il poni
Borchiettata d'argento; e ai banditori
Mescer comanda, onde al gran Giove ancora
Che del fulmine gode, e s'accompagna
Co' venerandi supplici, libiamo.
La dispensiera poi di quel che inserbo
Tiene, presenti al forestier per cena.
Alcinoo, udito ciò, lo scaltro Ulisse
Prese per man, dal focolare alzoUo,
E l'adagiò sovra un lucente seggio,
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126 ODISSEA (v. 226-261)
Fatto sorgerne prima il più diletto
De' suoi figliuoli che sedeàngli accanto,
L'amico di virtù Laodamante.
Tosto Tancella da bel Taso d'oro
Purissim* acqua nel bacìi d'argento
Gli versava, e stendea desco polito,
Su cui l'onesta dispensiera bianchi
Pani venne ad imporre, e di serbate
Dapi gran copia. Ma la sacra possa
Di Alcinoo al banditori Pontonoo, il rosso
Licore infondi nelle tazze, e in gipo
Recalo a tutti, onde al Gran Giove ancora,
Che del fulmino gode, e s'accompagna
Co' venerandi supplici, libiamo.
Disse; e Pontonoo il buon licore infuse,
E il recò, propinando, a tutti in giro.
Ma il Re, come libato ebbero, e a piena
Voglia bevuto, in tai parole uscio:
condottieri de' Feaci, o capi ,
Ciò che il cor dirvi mi consiglia, udite.
Già banchettati foste: i vostri alberghi
Cercate adunque, e riposate. Al primo
Raggio di Sole in numero più spessi
Ci adunerem, perchè da noi s'onori
L'ospite nel palagio, e più superbe
Vittime immoleransi : indi con quale
Scorta al suol patrio, per lontan che giaccia,
Possa, non pur senza fatica o noia,
Ma lieto e rapidissimo condursi.
Diviseremo. Esser dee nostra cura
Che danno non l'incolga in sin ch'ei tocco
Non abbia il suol natio. Colà poi giunto,
Quel soffrirà, che le severe Parche
Nel dì del suo natale a lui filare.
E se un Dio fosse dall'Olimpo sceso?
Altro s'avvolgeria disegno in mente
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(Y. 262^297) LIBRO VII. 127
De* Numi allora. Spesso a noi mostrarsi
Nell'ecatombe più solenni, e nosco
Starsi degnaro ad una mensa. Dove
Un qualche viandante in lor s'avvenga,
Non l'occultano a noi, che per vetusta
Origine lor siam molto vicini,
Non altrimenti che i Ciclopi antichi,
E de' Giganti la selvaggia stirpe.
Alcinoo, gli rispose il saggio . Ulisse,
Muta questo pensiero. Io dell'immenso
Cielo ai felici abitatori eterni
Né d'indole somiglio, né d'aspetto.
Somiglio ai figli de' mortali, e a quanti
Voi conoscete in più angoscioso stato.
Né ad alcuno di lor cedo ne* mali;
Tanti e sì gravi men creare i Numi.
Or cenar mi lasciate, ancor che afflitto;
Però che nulla io so di più molesto
Che il digiun ventre, di cui l'uom mal puote
Dimenticarsi per gravezze o doglie.
Nel fondo io son de* guai; pur questo interno
Signor,, che mai di domandar non resta.
Vuol ch'io più non rammenti i danni miei
E ai cibi stenda ed ai licer la mano.
Ma voi, comparso in Oriente il giorno,
Rimandarmi vi piaccia. Io non ricuso,
Visti i miei servi, l'alte case e i campi.
Gli occhi al lume del Sol chiuder per sempre.
Disse ; e tutti assentiano, e fean gran ressa,
Che lo stranier, che ragionò sì bene ,
Buona scorta impetrasse. Al fin, libato
Ch'ebbero, e a pien bevuto, il proprio albergo
Ciascun cercava, per entrar nel sonno.
Sol nella reggia rimaneasi Ulisse,
E presso gli sedeano Alcinoo e Arete,
Mentre le ancelle del convito i vasi
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128 ODISSEA (v. 298-333)
Dalla mensa toglieano. Arete prima
Gli favellò, come colei che il manto
Riconobbe, e la tunica, leggiadre
Vesti, che di sua man tessute avea
Con le sue fanti, e che or vedeagli in dosso.
Stranier, gli disse con alate voci.
Di questo io te cercar voglio la prima:
Chi sei tu? Donde sei? Da chi tai panni?
Non ci fai creder tu che ai nostri lidi
Misero, errante e naufrago approdasti?
E il saggio Ulisse replicolle: Forte,
Regina, i mali raccontar che molti
M* inviaro gli Dei. Quel che più brami
Sapei?e, io toccherò. Lontana giace
Un'isola nel mar che Ogigia è detta.
Quivi d'Atlante la fallace figlia
Dai ben torti capei, Calipso, alberga,
Terribil Dea, con cui nessun de' Numi
. Conversa, o de* mortali. Un genio iniquo
Con lei me solo a dimorar constrinse,
Dappoi che Giove a me per l'onde oscure
La ratta nave folgorando sciolse.
Tutti morti ne furo i miei compagni:
Ma io, con ambe mani alla carena
Della nave abbracciatomi, per nove -
Giorni fui traportato, e nella fosca
Decima notte all' isoletta spinto
Della Dea, che m' accolse e unicamente
Mi trattava e nodriva, e promettea
Da morte assicurarmi e da vecchiezza:
Né però il cor mi piegò mai nel petto.
Sette anni interi io mi vedea con lei,
E di perenni lagrime i divini
Panni bagnava, che mi porse in dono.
Ma tosto che l'ottavo anno si volse.
La Diva, o fosse imperiai messaggio
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(v. 334-369) LIBRO vii. 129
Del figliuol di Saturno, o di lei stessa
Mutamento improvviso, alle mie case
Ritornar confortavami. Su travi
Da multiplicì nodi in un congiunto
Con molti doni accommiatommi : pane
Candido e dolce vin diemmi, e odorate
Vesti vestimmi, e, ad incresparmi il mare.
Un placido mandò vento innocente.
Io dieci viaggiava e sette giorni
Su le liquide strade. Al nuovo albore
Mi sorse incontro co* suoi monti ombrosi
L'isola vostra, e a me infelice il core
Ridea, benché altri guai m'apparecchiasse
Nettun, che incitò i venti, il mar commosse,
Mi precise la via; né più speranza
Già m'avanzava, che il naviglio frale
Me gemente portasse all'onde sopra.
Ruppelo al fine il turbo. A nuoto allora
Misurai questo mar, finché alla vostra
Contrada il vento mi sospinse e il flutto.
Quivi alla terra, nell'uscir delì'acqu^e,
Franto un'onda m'avria, che mo i* acute
Punte cacciava, e in disamabil riva:
Se non ch'io, ritirandomi dal lido,
Tanto notava, che a un bel fiume sceso
Da Giove io giunsi, ove opportuno il loco
Parvemi, e liscio, né in balia de' venti.
Scampai, le forze raccogliendo. Intanto
Spiegò i suoi veli la divina Notte,
Ed io, lasciato da una parte il fiume,
Sovra un letto di foglie e tra gli arbusti
Giacqui, e m'infuse lungo sonno un Dio.
Dormii l'intera notte insino all'alba,
Dormii sino al meriggio; e già calava
Verso Occidente il sole, allor che il dolce
Sonno m'abbandonò. Vidi le ancelle
Oautea ^ ^^ ^^ ^ Google .
130 ODISSEA (v. 370-405)
Della tua figlia trastullar su Terba,
E lei tra quelle, che una Dea mi parve,
E a cui preghiere io porsi; ed ella senno
Mostrava tal, qual non s'attende mai
L*uom da una età si fresca, in cui s'abbatta.
Perchè la fresca età sempre folleggia.
Ella recente pan, vino possente ,
Ella comodo bagno a me nel fiume.
Ed ella vesti. Me infelice il fato
Render potrà, ma non potrà bugiardo.
Ed Alcinoo repente: Ospite, in questo
La mia figlia sfalli, che non condusse
Te con le ancelle alla magion, quantunque
Tu a lei primiera supplicato avessi.
Eccelso eroe, non mi biasmar, rispose
Lo scaltro Ulisse, per cagion sì lieve
La incoi pabil fiinciulla. Ella m'ingiunse i
Di seguitarla con le ancelle: ed io I
Men guardai per timor che il tuo vedermi
T'infiammasse di sdegno. Umana, il sai, I
Razza noi siamo al sospettare inchina. i
Ed Alcinoo di nuovo: Ospite, un'alma I
Già non s'annida in me, che fuoco prenda '
Sì prontamente. Alla ragione io cedo,
E quel che onesto è più, sempre io trasceJgo.
Ed oh piacesse a Giove, a Palla e a Febo,
Che, qual ti scorgo, e d'un parer con meco
Sposa volessi a te far la mia figlia.
Genero mio chiamarti, e la tua stanza
Fermar tra noi! Case otterresti e beni
Da me, dove il restar non ti sgradisse:
Che ritenerti a forza, e l'ospitale
Giove oltraggiar, nullo qui fia che ardisca.
Però così su l'alba il tuo viaggio
Noi disporrem, che abbandonarti al sonno
Nella nave potrai, mentre i Feaci
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(v. 406-441) LIBRO- VII. 131
L'azzurra calma romperaii co* remi:
Né cesseraii, che nella patria messo
T'abbiano, e ovunque ti verrà desio,
Foss'anco oltre TEubèa, cui più lontana'
D'ogQÌ alt^a region che alzi dal mare,
Dicon que* nostri che la vider, quando
A Tizio, figlio della terra, il biondo
Radamanto condussero. All' Eubèa
S'indrizzàr, l'afferrar, ne ritornaro
Tutto in un giorno; e non fu grave impresa.
Conoscerai quanto sien bene inteste
Le nostre navi, e i giovani gagliardi
Nel voltar sottosopra il mar co' remi.
Gioì a tai detti il paziente Ulisse,
E le braccia levando, Giove padre.
Sclamò, tutte adempir le sue promesse
Possami Alcinoo! Ei gloria eterna avranne,
Ed io porrò nelle mie case il piede.
Queste correan tra lor parole alterne.
Ma la reina candida le braccia,
Arete intanto alle fantesche impose
Il letto collocar sotto la loggia.
Belle gittarvi porporine coltri,
E tappeti distendervi, e ai tappeti
Manti vellosi sovrapporre. Uscirò
Quelle, tenendo in man lucide faci.
Il denso letto sprimacciaro in fretta,
E rientrate. Sorgi, ospite, or puoi,
Dissero a Ulisse, chiuder gli occhi al sonno:
Nò punto al forestier l'invito spiacque.
Cosi ei sotto il portico sonante
Là s'addorniia ne' traforati letti.
Alcinoo si corcò del tetto eccelso
Ne' penetrali ; e a lui da presso Arete,
La consorte real, che a sé ed a lui
Preparò di sua mano il letto e i sonni.
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LIBRO OTTAVO
ARGOMENTO
Congresso de* Feaci, in cui si delibera se UHsse debba essere
alla patria sua ricondotto. •— Alcinoo d& un solenne con-
vito , nel quale Demodoco canta d*una contesa che Ulisse
medesimo e Achille ebbero un giorno tra loro. — li primo
non può ritenere le lagrime. — Si passa ai giuochi, ov*egli
dò, prova di sé al disco, ed ove Demodoco canta la rete di
Vulcano. — * Doni che si fanno ad Ulisse. — Questi ad un
secondo convito sente ricordare dallo stesso cantore il gran
cavallo di legno e la caduta di Troia ; e si lascia di nuovo
cadere il pianto dagli occhi. — Alcinoo allora il sollecita a
manifestarsi, a dire il suo nome, e a raccontare le sue av-
venture.
Ma tosto che rosata ambo le palme
Comparve in ciel T aggiornatrice Aurora,
Surse di letto la sacrata possa
Del magnanimo Alcinoo, e il divin surse
Rovesciator delle cittadi Ulisse.
La possanza d'Alcinoo al parlamento,
Che i Feaci tenean presso le navi.
Prima d'ogni altro mosse, A mano a mano
Veniano i Feacesi, e su polite
Pietre sedeansi. L'occhiglauca Diva,
Cui d'Ulisse il ritorno in mente stava.
Tolte del regio banditor le forme.
Qua e là s'avvolgea per la cittade,
E appressava ciascuno, e. Su, dicea,
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(V. 15-50) LIBRO Vili. 133
Su, prenci e condottieri, al fòro, al fòro,
Se udir vi cai dello stranier che giunse
Ad Alcinoo testé per molto mare,
E assai pili, che deiruom, del Nume ha in viso.
Disse, e tutti eccitò. Della raccolta
Gente furo in brev* ora i seggi pieni.
Ciascun guardava con le ciglia in arco
Di Laerte il fìgliuol: che a lui Minerva
Sovra il capo dijffuse e su le spalle
Divina grazia, ed in grandezza e in fiore
Crebbelo, e in gagliardia, perch* ei ne* petti
Destar potesse riverenza e affetto,
E de' nobili giuochi, ove chiamato
Fosse a dar di sé prova, uscir con vanto.
Concorsi tutti, e in una massa uniti.
Tra loro arringò Alcinoo in questa guisai
condottieri de* Feaci, e prenci ,
Ciò che il cor dirvi mi comanda, udite.
Questo a me ignoto forestier, che venne
Ramingo, e ignoro ancor, se donde il Sole
Nasce, o donde tramonta, ai tetti miei,
Scorta dimanda pel viaggio, e prega
Gli sia ratto concessa. Or noi Tusanza
Non seguirem con lui? Uomo, il sapete.
Ai tetti miei non capitò, che mesto
Languir dovesse sovra queste piagge
Per difetto di scorta i giorni e i mesi.
Traggasi adunque nel profondo mare
Legno dall'onde non battuto ancora,
E s'eleggan cinquanta e due garzoni,
Tra il popol tutto, gli ottimi. Costoro,
Varato il legno, e avvinti ai banchi i remi,
Subite e laute ad apprestar m'andranno
Mense, che a tutti oggi imbandite io voglio.
Ma quei che di bastone ornan la mano.
L'ospite nuovo ad onorar con meco
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134 ODISSEA (v. 51-86;
Vengano ad una; e il banditor mi chiami
L'immortale Demòdoco, a cui Giove
Spira sempre de* canti il più soave.
Dovunque l'estro che rinfiamma, il porti.
Detto, si mise in via. Tutti i scettrati
Seguianlo ad una; e all' iraraortal cantore
L'araldo indirizzavasì, I cinquanta
Garzoni, e due, come il Re imposto avea.
Furo del mar non seminato al lido ,
La nave negra nel profondo mare
Trassero, alzare l'albero e la vela.
I lunghi remi assicurar con forti
Lacci di pelle, a maraviglia il tutto;
E, le candide vele al vento aperte,
Arrestare nell'alta onda la nave:
Poscia d'Alcinoo ritrovar l'albergo.
Già i portici s'empiean, s'empieano i chiostri.
Non che ógni stanza, della varia gente.
Che s'accogliea, bionde e canute teste,
■ Una turba infinita. Il re quel giorno .
Diede al sacro coltel dodici agnelle,
Otto corpi di verri ai bianchi denti,
E due di tori dalle torte corna.
Gli scoiar, gli acconciar, ne apparecchiaro
Convito invidiabile. L'araldo
Ritorno feo, per man guidando il vate.
Cui la musa portava immenso amore.
Benché il ben gli temprasse e il maje insieme:
Degli occhi il vedovò, ma del piti dolce
Canto arricchillo. Il banditor nel mezzo
Sedia d'argento borchiettata a lui
Pose, e l'affisse ad una gran colonna:
Poi la cetra vocale a un aureo chiodo
Gli appese sovra il capo, ed insegnògli.
Come a staccar con mano indi l'avesse.
Ciò fatto, un desco gli distese avanti
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(v. 87-122) LIBRO vili. 135
Con panier sopra, e una capace tazza
Oad' ei, qual volta nel pungea desio,
Del vermiglio licer scaldasse il petto.
Come la fame rintuzzata, e spenta
Fu la sete in ciascun, l'egregio vate,
Che già tutta sentiasi in cor la Musa,
De' forti il pregio a risonar si volse, ,
Sciogliendo un canto, di cui sino al cielo
Salse in que* dì la fama. Era l'antica
Tenzon d'Ulisse e del peliade Achille,
Quando di acerbi detti ad un solenne
Convito sacro si ferirò entrambi.
Il re de* prodi Agamennón gioia
Tacitamente in sé, visti a contesa
Venire i primi degli Achei : che questo
Dalla caduta d'Ilio era il segnale.
Tanto da Febo nella sacra Pito,
Varcato appena della soglia il marmo,
Predirsi allora udì, che di que' mali.
Che sovra i Teucri, per voler di Giove,
Rovesciarsi doveano, e su gli Acbivi,
Si cominciava a dispiegar la tela.
A tai memorie il Laerziade, preso
L'ampio ad ambe le man purpureo manto,
Sei trasse in testa, e il nobil volto ascose.
Vergognando che lagrime i Feaci
Vedesserlo stillar sotto le ciglia.
Tacque il cantor divino: ed ei, rasciutte
Le guance in fretta, dalla testa il manto
Si tolse, e, dato a una ritonda coppa
Di piglio, libò ai Numi. I Feacesi,
Cui gioia erano i carmi, a ripigliarli
Il poeta eccitavano, che apria
Novamente le labbra; e novamente
Coprirsi il volto e lagrimare Ulisse,
Così, gocciando lagrime, da tutti
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136 ODISSEA (v. 123-158;
Celossi. Alcinoo sol di lui s'avvide,
E l'adocchiò, sedendogli da presso ,
Oltre che forte sospirare udillo;
E, più non aspettando; Udite, disse,
Bella Feacia condottieri e prenci.
Già del comun convito, e dell'amica
De^ conviti soleniii arguta cetra.
Godemmo. Usciamo, e ne' diversi giuochi
Proviamci, perchè l'ospite, com'aggia
Rimesso il pie nelle paterne case,
Narri agli amici, che l'udranno attenti,
Quanto al cesto e alla lotta, e al salto e al corso.
Cede a noi, vaglia il vero, ogni altra gente.
Disse, ed entrò in cammino; e i prenci insieme
Seguianlo. Ma l'araldo, alla caviglia
Riappiccata la sonante cetra,
Prese il cantor per mano, e fuor del tetto
Menollo: indi guidavalo per quella
Strada in cui posto erasi Alcinoo e 1 capi.
Movean questi veloce al fòro il piede,
E gente innumerabile ad un corpo
Lor tenea dietro. Ed ecco sorger molta.
Per cimentarsi, gioventù forzuta.
Sorse Acroneo ed Ocialo, Eleatrèo sorse,
E Nauteo e Primneo e Anchialo: levossi
Eretmeo ancor, Pontèo, Proto, Toóne,
Non che Anabesinèo, non che Amfiàlo,
Di Polineo Tectonide la prole;
E non eh* Burlalo all'omicida Marte
Somigliante, e Naubòlide, che tutti.
Ma dopo il senza neo Laodamante,
Vincea di corpo e di beltà. Né assisi
I tre restar figli d'Alcinoo: desso
Laodamante, Alio, che al rege nacque
Secondo, e Clitonèo pari ad un Nume.
.Del corso fu la prima gara.> Un, lungo
(v. 159-194) LièRo Vitt. 137
Spazio stendeasi alla carriera; e tutti
Dalle mosse volavano in un groppo,
Densi globi di polvere levando.
Avanzò gli altri Clitonèo, che, giunto
Della carriera al fin, lasciolli indietro
Quell'intervallo, che i gagliardi muli
I tardi lascian corpulenti buoi.
Se lo stesso noval fendono a un'ora.
Saccedè al corso l'ostinata lotta.
Ed Eurialo prevalse. Il maggior salto
Ainfiàlo spiccollo, e il disco lungo
Non iscagliò nessun, com* Elàtrèo.
Laodamante, il real figlio egregio,
Nel pugile severo ebbe la' palma.
Fine al diletto de* certami posto,
Parlò tra lor Laodamante: Amici*
Su via, Testraneo domandiafn di queste
Prove, se alcuna in gioventù ne apprese.
Di buon taglio e' mi sembra; e, dove ai fianchi
Dove alle gambe, e delle mani ai dossi
Guardisi, e al fermo eolio, una robusta
Natura io veggio, e non mi par che ancora
Degli anni verdi Tabbandoni il nerbo.
Ma il fransero i disagi all'onde in grembo:
Che non è, quanto il mar, siccome io credo.
Per ìsconfìgger Tuom, benché assai forte.
Laodamante, il tuo parlar fu bello,
Eurialo rispondea. Però l'abborda
Tu stesso, e il tenta: e a fuori uscir l'invita.
Ck)me d'Alcinoo l'incolpabil figlio
Questo ebbe udito, si fé innanzi, e, stando
Nel mezzo. Orsù gli disse, ospite padre.
Tu ancor ne* giochi le tue forze assaggia.
Se alcun mai ne apparasti a' giorni tuoi :
E degno è ben che non ten mostri ignaro,
Quando io non so per Tuom gloria maggiore
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138 ODISSEA (v. 195-230)
Che del pie con prodezza e della mano.
Mentre in vita riman, poter valersi.
T'arrischia dunque, e la tristezza sgombra
Dairalma. Poco il desiato istante
Del tuo viaggio tarderà: varata
Fu già la nave, e i rèmigi son pronti.
Ma cosi gli rispose il saggio Ulisse:
Laodamante, a che cotesto invito,
Deridendomi quasi? Io più, che giochi,
Disastri volgo per l'afflitta mente,
Io, che tanto patii, sostenni tanto,
E or qui, mendico di ritorno e scorta,
Siedomi, al Re pregando, e al Popol tutto.
Il bravo Eurialo a viso aperto allora:
Uom non mi sembri tu, che si conosca
Di quelle pugne che la stirpe umana
Per suo diletto esercitar costuma.
Tu m'hai vista di tal, che presso nave
Di molti banchi s'aifaccendi, capo
Di marinari al trafficare intesi.
Che in mente serba il carico, ed al vitto
Pensa, e ai guadagni con rapina fatti:
Ma nulla certo dell'atleta tieni.
Mirollo bieco, e replicògli Ulisse:
Male assai favellasti, e ad uom protervo
Somigli in tutto. Così è ver che i Numi
Le più care non dan doti ad un solo.
Sembiante, ingegno e ragionar che piace.
L'un bellezza non ha, ma della mente
Gl'intèrni sensi in cotal guisa esprime,
Che par delle parole ornarsi il volto.
Gode chiunque il mira. Ei, favellando
Con soave modestia, e franco a un tempo.
Spicca in ogni consesso; e allor che passa
Per là città, gli occhi a sé attrae, qual Nume.
L'altro nel viso e nelle membra un mostra
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(v. 231-266) LIBRO vili. ^ 139
Degl* immortali Dei: pur non si vede
Grazia che ai detti suoi s'avvolga intorno.
Così te fregia la beltà, né meglio
Formar saprian gli stessi Eterni un volto:
Se non che poco della mente vali.
Mi trafiggesti Tanìma nel petto,
Villane voci articolando: io nuovo
Non son de' giochi, qual tu cianci, e credo
Anzi, ch'io degli atleti andai tra i primi,
Finché potei de* verdi anni e di queste
Braccia fidarmi. Or me, che aspre fatiche
Durai, tra Tarmi penetrando e Tonde,
Gl'infortuni domare. E non pertanto
Cimenterommi : che mordace troppo
Fu il tuo sermon, né più tenermi io valgo.
Disse; e co' panni stessi, in ch'era involto,
Lanciossi, ed afferrò massiccio disco.
Che quelli, onde giocar solean tra loro,
Molto di mole soverchiava, e pondo.
Roteilo in aria, e con la man robusta
Lo spinse: sonò il sasso, ed i Feaci,
Que' naviganti celebri, que* forti
Remigatori, s'abbatterò in terra
Per la foga del sapio, il qu^l,' partito
Da sì valida destra, i segni tutti
Rapidamente sorvolò. Minerva,
Vestite umane forme, il segno pose,
E all'ospite conversa. Un cieco, disse.
Trovar, palpando, tei potria: che primo.
Né già di poco, e solitario sorge.
Per questa prova dunque alcun timore
Non t'anga: lunge dal passarti, alcuno
Tra i Feaci non fìa che ti raggiunga.
Rall egrossi a tai voci, e si compiacque
Il Laerziade, che nel circo uom fosse
Che tanto il favori a. Quindi ai Feaci
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140 ODISSEA (v, 267-302)
Più mollemente le parole volse:
Quello arrivate, o damigelli, e un altro
Pari, o più grande, fulminarne in breve*
Voi mi vedrete, io penso. Ed anco in altri
Certami, o cesto, o lotta, o corso ancora.
Chi far periglio di sé stesso agogna.
Venga in campo con me : poiché di vero
Mi provocaste oltre misura. Uom vivo
Tra i Feacesi io non ricuso, salvo
Laodamante, che ricetto dammi.
Chi entrar vorrebbe con l'amico in giostra?
Stolto e da nulla e senza dubbio, e tutte
Storpia le imprese sue, chiunque in mezzo
D'un popolo stranier con chi l'alberga
Si presenta a contendere. Degli altri
Nessun temo, o dispregio, e son con tutti
Nel dì più chiaro a misurarmi pronto,
Come colui che non mi credo imbelle.
Quale il cimento sia. L'arco lucente
Trattare appresi: imbroccherei primaio,
Saettando un guerrier dell'oste avversa,
Benché turba d'amici a me d'intorno
Centra quell'oste disfrenasse i dardi.
Sol-Filottete mivincea dell'arco,
Mentre a gara il tendean sotto Ilio i Greci:
Ma quanti su la terra or v* ha mortali ,
Cui la forza del pane il cor sostenta,
Io di gran lunga superar mi vanto:
Che non vo' pormi io già co' prischi eroi.
Con Eurito d' Ecalia, e con Alcide,
Che agli Dei stessi di scoccar nell'arte
Si pareggiare. Che ne avvenne? Giorni
Sorser pochi ad Eurito, e le sue case
Noi videro invecchiar, poscia che Apollo
Forte si corruccio che disfidato
L'avesse all'arco, e di sua man l'uccise.
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(v. 303-338) LIBRO vili. 141
Dell'asta poi, quanto nessun di freccia
Saprebbe, io traggo. Sol nel corso io temo
Non mi vantaggi alcun: che, tra che molto
M'afflisse il mare, e che non fu il mio lagno
Sempre vettovagliato, a me, qual prima,
Non ubbidisce l'infedel ginocchio.
Ammutolì ciascuno, e Alcinoo solo
Rispose: Forestier, la tua favella
Sgradir non ci potea. Sdegnato a dritto
De' motti audaci, onde colui ti morse.
La virtù mostrar vuoi che t'accompagna,
Virtù, che or da chi tanto o quanto scorga,
Più biasimata non fia. Ma tu m'ascolta.
Acciocché un di, quando nel tuo palagio
Sederai con la sposa e i f gli a mensa,
E quel che di gentile in noi s'annida,
Rimembrerai, possi a un illustre amico
Favellando narrar, quali rodammo
Studi dagli avi per voler di Giove.
Non Siam né al cesto, né alla lotta egregi;
Ma rapidi moviam, correndo, i passi,
E a maraviglia navighiamo. In oltre
Giocondo sempre il banchettar ci torna.
Musica e danza, ed il cangiar di veste,
I tepidi lavacri e i letti molli.
Su dunque voi, che tra i Feaci il sommo
Pregio dell'arte della danza avete,
Fate che lo straniero a' suoi più cari.
Risalutate le paterne mura,
Piacciasi raccontar, quanto anche al tallo
Non che al nautico studio ed alla corsa,
Noi da tutte le genti abbiam vantaggio.
E tu, Pontonoo, per l'arguta cetra.
Che nel palagio alla colonna pende.
Vanne, e al divin Demodoco la reca.
Sorse, e parti l'araldo; e al tempo stesso
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142 ODISSEA (v. 339-374)
Sorsero i nove a presedere ai giuochi
Giudici eletti dai comuni voti,
Ed il campo agguagliaro, e dilataro,
Riaft)sse alquanto le persone, il circo.
Tornò l'araldo con la cetra, e in mano
La pose di Demodoco, che al circo
S'adagiò in mezzo. Danzatori allora
D'alta eccellenza, e in sul fiorir degli anni,
Peano al vate corona, ed il hel circo
Co* presti piedi- percoteano. Ulisse
De* frettolosi pie gli sfolgorìi
Molto lodava; e non si riavea
Dallo stupor che gl'ingombrava il petto.
Ma il Poeta divin, citareggiando.
Del bellicoso Marte, e della cinta
Di vago serto il crin Vener Ciprigna,
Prese a cantar gli amori, ed il furtivo
Lor conversar nella superba casa
Del Re del fuoco, di cui Marte il casto
Letto macchiò nefandamente, molti
Doni oflferti alla Dea. con cui la vinse.
Repente il Sole, che la colpa vide,
A Vulcan nunzìolla; e questi, udito
L'annunzio doloroso, alla sua negra -
Fucina corse, un* immortai vendetta
Macchinando nell'anima. Sul ceppo
Piantò una magna incude; e col martello
Nodi, per ambo imprìgionarli, ordia
A frangersi impossibili, o a disciorsi.
Fabbricate le insidie, ei, centra Marte
D'ira bollendo, alla secreta stanza.
Ove steso giaceagli il caro letto.
S'avviò in fretta, e alla lettiera bella.
Sparse per tutto i fini lacci intorno,
E molti sospendeane all'alte travi,
Quai fila sottilissime d'aragna,
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(v. 375-410) LIBRO vili. 143
Con tanta orditi e si ingegnosa fraude,
Che né d*un Dio li potea l'occhio torre.
Poscia che tutto degl' industri inganni
Circondato ebbe il letto, ir fìnse in Lenno,
Terra ben fabbricata, e più che ogni altra
Cittade, a lui diletta. In questo mezzo
Marte, che d*oro i corridori imbriglia,
Alle vedette non istava indarno.
Vide partir l'egregio fabbro, e, sempre
Nel cor portando la di vago serto
Cinta il capo Ciprigna, alla miagione
Del gran mastro de' fuochi in fretta mosse.
Ritornata di poco era la Diva
Dal Saturnide onnipossente padre
Nel coniugale albergo; e Marte, entrando.
La trovò che posava, e lei per mano
Prese, e a nomo chiamò: Venere, disse.
Ambo ci aspetta il solitario letto.
Di casa uscì Vulcano: altrove a Lenno
Vassene, e ai Sinti di selvaggia voce.
Piacque l'invito a Venere, e su quello
Salì con Marte, e si corcò: ma i lacci
Lor s'avvolgean per cotal guisa intorno.
Che stendere una man, levare un piede.
Tutto era indarno; e s'accorgeano al fine,
Non aprirsi di scampo alcuna via.
S'avvicinava intanto il fabbro illustre,
Che volta die dal suo viaggio a Leimo:
Perocché il Sole spiator la trista
Storia gli raccr^ntò. Tutto dolente
Giunse al suo ricco tetto, ed arrestossi
Neir atrio: immensa ira l'invase, e tale
Dal petto un grido gli scoppiò, che tutti
Dell* Olimpo l'udir gli abitatori.
O Giove padre, e voi, disse, beati
Numi, che d* immortai vita godete,
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144 ODISSEA (v. 411-446)
Cose venite a rimirar da riao,
Ma pure insopportabili: Ciprigna,
Di Giove figlia, me, perchè impedito
De' piedi son, cuopre d'infamia ognora.
Ed il suo cor nell'omicida Marte
Pone, come in colui che bello e sano
Nacque di gambe, dove io mal mi reggo.
Chi sen vuole incolpar? Non forse i soli,
Che tal non mi dovean mettere in luce.
Parenti miei? Testimon siate, o Numi,
Del lor giacersi uniti, e dell'ingrato
Spettacol che oggi sostener m'è forza.
Ma infredderan nelle lor voglie, io credo.
Benché si accesi, e a cotai sónni in preda
Più non vorranno abbandonarsi. Certo
Non si svilupperan d'este catena.
Se tutti prima non mi torna il padre
Quei, eh* io posi in sua man, doni dotali
Per la fanciulla svergognata: quando
Bella, sia loco al ver, figlia ei possiede,
Ma del proprio suo cor non donna punto.
Disse; e i Dei s'adunare alla fondata
Sul rame casa di Vulcano. Venne
Nettuno, il Dio per cui la terra trema,
Mercurio venne de* mortali amico.
Venne Apollo dal grande arco d'argento.
Le Dee non già; che nelle stanze loro
Riteneale vergogna. Ma^ i datori
D'ogni bramato ben Dei sempiterni
Nell'atrio s'adunar: sorse tra loro
Un rìso inestinguibile, mirando
Di Vulcan gli artifìci; e alcun, volgendo
Gli occhi al vicino, in tai parole uscia:
Fortunati non sono i nequitosi
Fatti, e il tardo talor Taglie arriva.
Ecco Vulcan, benché sì tardo, Marte,
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(v. 447-482) LIBRO viir. 145
Che di velocità tutti d'Olimpo
Vince gli abitator, cogliere: il colse,
Zoppo essendo, con Tarte; onde la multa
Dell'adulterio gli può tórre a dritto.
Allor così a Mercurio il gaio Apollo:
Figlio di Giove, messaggero accorto.
Di grate cose dispensier cortese,
Yorrestù avvinto in si tenaci no^i
Dormire all'aurea Venere da presso?
Oh questo fosse, gli rispose il Nume
Licenzioso, e ad opre turpi: avvezzo.
Fosse, o Sir dall'argenteo arco, e in legami
Tre volte tanti io mi trovassi avvinto,
E intendessero i Numi in me lo sguardo
Tutti, e tutte le Dee! Non mi dorria
Dormire all'aurea Venere da presso.
Tacque ; e in gran riso i Sempiterni diero.
Ma non ridea Nettuno, anzi Vulcano,
L'inclito mastro, senza fin pregava.
Liberasse Gradico, e con alate
Parole gli dicea: Scioglilo. Io t'entro
Mallevador, che agi' Immortali in faccia
Tutto ei compenserà, com'è ragione.
Questo, rispose il Dio dai pie distorti
Al Tridentier dalle cerulee chiome.
Non ricercar da me. Triste son quelle
Malleverie che dannosi pe' tristi.
Come legarti agl'Immortali in faccia
Potrai, se Marte, de' suoi lacci sciolto.
Del debito, fuggendo, anco s'affranca?
Io ti satisfarò, rispose il Nume
Che la terra circonda, e fa tremarla.
E il divin d'ambo i pie zoppo ingegnoso:
Bello non fora il ricusar, né lice.
Disse, e d'un sol suo tocco i lacci infranse.
Come liberi fur, saltaro in piede,
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146 obissÈsA (v. 483-518)
lil Marte in Tracia corse: ma la Diva
Del riso amica, riparando a Cipri,
In Pafo si fermò, dove a lei sacro
Frondeggia un bosco, ed un aitar vapora.
Qui le Grazie lavaro, e del fragrante
Olio, che la beltà cresce de* Numi,
Unsero a lei le delicate membra:
Poi così la vestir, che meraviglia
Non men che la Dea stessa, era il suo manto.
Tal cantava Demodoco; ed Ulisse
E que* remiga tor forti, que* chiari
Navigatori, di piacere, udendo,
Le vene ricercar sentiansi, e l'ossa.
Ma di Laodamante e d'Alio soli.
Che gareggiar con loro altri non osa,
Ad Alcinoo mirar la danza piacque.
Nelle man tosto la leggiadra palla
Si recaro, che ad essi avea Tindustrè
Polibo fatta, e colorata in rosso.
L*un la palla gittava in vèr Je fosche
Nubi, curvato indietro; e l'altro, un salto
Spiccando, riceveala, ed al compagno
La rispingea senza fatica o sforzo.
Pria che di nuovo il suol col pie toccasse.
Gittata in alto la vermiglia palla,
La nutrice di molti amica terra
Co* dotti piedi cominciare a battere,'
A far volte e rivolte alterne e rapide,
Mentre lor s'applaudia dagli altri giovani
Nel circo, e acute al ciel grida s'alzavano.
Così ad Alcinoo T Itacese allora:
de' mortali il più famoso e grande,
Mi promettesti danzatori egregi,
E ingannato non m'hai. Chi può mirarli
.Senza inarcar dello stupor le ciglia?
.Gioì d'Alcinoo la sacrata possa,
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(v. 519-554) LièRo vnt. 147
E ai Feaci rivolto, Udite, disse.
Voi che per sangue e merto i primi siete.
Saggio assai parmi il forestiero, e degno
Che di ricchi rorniam doni ospitali.
Dodici reggon questa gente illustri
Capi, e tra loro io tredicesmo siedo.
Tunica e manto, ed un talento d'oro
Presentiamgli ciascuno, e tosto, e a un tempo,
Ond'ei, così donato, alla mia cena
Con più gioia nel cor vegna e s'assida.
Eurialo, che il ferì d'acerbi motti,
Co* doni, e in un con le parole, il plachi.
Assenso die ciascuno, e un banditore
Mandò pe'doni; e così Eurialo: Alcinoo,
Il più famóso de* mortali e grande.
L'ospite io placherò, come tu imponi.
Oli oflfrirò questa di temprato rame
Fedele spada, che d'argento ha l'elsa,
La vagina d'avorio; e fu l'avorio
Tagliato dall' artefice di fresco.
Non l'avrà, io penso, il forestiere a sdegno.
Ciò detto, a Ulisse in man la spada pose
Con tali accenti: Ospite padre, salve.
Se dura fu profferta e incauta voce.
Prendala e seco il turbine la porti.
E a te della tua donna e degli amici,
Donde lungi, e tra i guai, gran tempo vivi,
Giove conceda i desiati aspetti.
Salve, gli replicò subito Ulisse,
Amico, e tu. Gli abitator d'Olimpo
Dianti felici di; né mai nel petto
Per volger d'anni uopo o desir ti nasca
^•i questa spada ch'io da te ricevo,
(enchò placato già sol da' tuoi detti,
'acque ; e il buon brando agli omeri sospese.
Già dechinava il Sole, e inna^zi^^
148 obissEA (v. 5è5-590)
Stavano i doni. Gli onorati araldi
Nella reggia portaro i doni eletti,
Che dai figli del Re tolti, e airaugusta
Madre davante collocati furo.
Alcinoo entrò alla reggia, e seco i prenci,
Che altamente sederò; e del Re il sacro
Valore in forma tal parlò ad Arete:
Donna, su via, la piti sald' arca e bella
Fuor traggi, ed una tunica vi stendi,
E un manto, di cui nulla offenda il lustro.
Scaldisi in oltre allo stranier nel cavo
Rame sul foco una purissim*onda,
Perch'ei, le membra asterse, e visti in bello
Ordin riposti do'Feaci i doni.
Meglio il cibo gli sappia, e più gradito
Scendagli al core per Torecchio il canto.
Io questa gli darò di pregio eccelso
Mia coppa d'oro, acciò non sorga giorno,
Ch*ei d'Alcinoo non pensi, al Saturnide
Libando nel suo tetto, e agli altri Numi,
Disse; ed Arete alle sue fanti ingiunse
Porre il treppiede in su le braccia ardenti.
Quelle il treppiede in su le ardenti brace
Posero, e versar Tonda, e le raccolte
Legno accendeanvi sotto: il cavo rame
Cingean le fiamme, e si scaldava il fonte.
Arete fuor della secreta stanza
Trasse dell'arche la piti salda e bella,
E tutti con la tunica e col manto
Vi allogò i doni in vestimenta e in oro.
Indi assennava. l'ospite: il coverchio
Metti tu stesso, e bene avvolgi il nodo.
Non forse alcun ti nuoccia, ove te il dolce
Sonno cogliesse nella negra nave.
L'accorto eroe, che non udilla indarno,
Mise il coverchio, e l'intricato nodo
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(y. 591-626) libro viii. 149
Prestamente formò, di cui mostrato
Gli ebbe il secreto la dedalea Circe.
E qui ad entrar la dispensiera onesta
L'invitava nel bagno. Ulisse vide
I lavacri fumar tanto più lieto,
Che tai conforti s'accostar di rado
Al suo corpo dal dì che della Ninfa
Le grotte più noi ritenean, dov'era
D'ogni cosa adagiato al par d'un Nume.
Lavato ed unto per le scorte ancelle,
E di manto leggiadro e di leggiadra
Tunica cinto, alla gioconda mensa
Da' tepidi lavacri Ulisse giva.
Nausica, cui splendea tutta nel volto
La beltà degli Dei, della superba
Sala fermossi alle lucenti porte.
Sguardava Ulisse, e l'ammirava, e queste
Mandavagli dal sen parole alate:
Felice, ospite, vivi, e ti ricorda.
Come sarai nella natia tua terra,
Di quella, onde pria venne a te salute.
Nausica, del prò Alcinoo inclita figlia,
Ulisse, rispondeale, oh! così Giove,
L'altitonante di Giunon marito,
Voglia che il di del mio ritorno spunti ,
Com' io nel dolce ancor nido nativo
Sempre, qua! Dea, t'onorerò: che fosti
La mia salvezza tu, fanciulla illustre.
Già le carni partiansi, e nelle coppe
Gli umidi vini si mesceano. Ed ecco
II banditor venir, guidar per mano
L'onorato da tutti amabil vate,
E adagiarlo, facendogli d'un' alta
Colonna appoggio, ai convitati in mezzo.
Ulisse allor dall'abbrostita e ghiotta
Schiena di pingue dentibi^iico verro
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150 ODISSEA (v. 627-662)
Tagliò un florido brano, ed all'araldo,
Te', disse, questo, e al vate il porta, ond' lo
Rendagli, benché afflitto, un qualche onore.
Chi è che in pregio e in riverenza i vati
Non tenga? i vati, che ama tanto, e a cui
Sì dolci melodie la Musa impara.
Portò Taraldo il dono, e il vate il prese,
E per l'alma gli andò tacita gioia.
Alle vivande intanto e alle bevande
Porgean la mano; e furo spenti appena
Della fame i desiri e della sete.
Che il saggio Ulisse tali accenti sciolse:
Demodoco, io te sopra ogni vivente
Sollevo, te, che la canora figlia
Del sommo Giove, o Apollo stesso inspira.
Tu i casi degli Achivi, e ciò che oprare.
Ciò che soffrirò, con estrema cura.
Quasi visto l'avessi, o da que' prodi
Guerrieri udito, su la cetra poni.
Via, dunque, siegui, e l'edifìzio canta
Del gran cavallo, che d'intesto travi.
Con Pallade al suo fianco, Epèo construsse,
E Ulisse penetrar feo nella ròcca
Dardania pregno (stratagemma insigne !)
Degli eroi per cui Troia andò in faville.
Ciò fedelmente mi racconta, e tutti
Sclamar m'udranno, ed attestar che il petto
Di tutta la sua fiamma il Dio t'accende.
Demodoco, che pieno era del nume.
D'alto a narrar prendea, come gli Achivi,
Gittate il foco nelle tende, i legni
Parte salirò, e aprir le vele ai venti.
Parte sedean col valoroso Ulisse
Ne' fianchi del cavallo entro la ròcca.
I Troi, standogli sotto in cerchio assisi
Wolte cose dicean, ma incerte tutte,
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(v. 663-698) LIBRO viii. 151
E in tre sentenze dmdeansi' o il cavo
Legno intagliato lacerar con Tarmi,
O addurlo in cima d'una rupe, e quindi
Precipitarlo, o il simulacro enorme
AgH adirati Numi offrire in voto.
Questo prevalse alfin: poiché destino
Era che allor perisse Ilio superbo,
Che ricettata nel suo grembo avesse
L'immensa mole intesta, ove de' Greci,
Morte ai Troi per recar, sedeano i capi.
Narrava pur, come de* Greci i figli,
Fuor di quella versatisi, e lasciate
Le cave insidie, la cittade a terra
Gittaro; e come, mentre i lor compagni
Guastavan qua e là palagi e templi,
Ulisse di Deifobo alla casa
Col divin Menelao corse, qual Marte,
E un duro v'ebbe a sostener conflitto,
Donde usci vincitore, auspice Palla.
A tali voci, a tai ricordi Ulisse
Struggeasi dentro, e per le smorte guance
Piovea lagrime giù dalle palpebre.
Qual donna piange il molto amato sposo
Che alla sua terra innanzi, e ai cittadini
Cadde e ai pargoli suoi, da cui lontano
Volea tener l'ultimo giorno; ed ella.
Che moribondo il vede e palpitante,
Sovra lui s'abbandona, ed urla e stride.
Mentre ha di dietro chi dell'asta il tergo
Le va battendo, e gli omeri, e le intima
Schiavitù dura, e gran fatica e strazio.
Sì che già del dolor la miserella
Smunto ne porta e disfiorato il volto:
Così Ulisse di sotto alle palpebre
Consumatrici lagrime piovea.
Pur del suo pianto non s'accorse alcuno,
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152 ODissKA (v. 699-734)
Salvo re Alcinoo, che sedeagU appresso,
E gemere il sentia; però ai Feaci,
Udite, disse, o condottieri e prenci:
Deponga il Tate la sonante cetra;
Che a tutti il canto suo grato non giunge.
Bai primo istante ch'ei toccoUa, in pianto
Cominciò a romper l'ospite, a cui siede
Certo un'antica in sen cura mordace.
La mano adunque dalle corde astenga;
E lieto allo stranier del par che a noi,
Che il ricettammo, questo giorno cada.
Consiglio altro non v'ha. Per chi tal festa?
Per chi la scorta preparata, e i doni.
D'amistà pegni, e le accoglienze oneste?
Un supplice straniero ad uom, che punto
Scorga diritto, è di fratello in vece.
Ma tu di quel eh' io domandarti intendo ,
Nulla celarmi astutamente: meglio
Torneranno a te stesso. Il nome dimmi.
Con che il padre solca, solea la madre,
E i cittadin chiamarti, ed i vicini:
Che senza nome uom non ci vive in terra.
Sia buono o reo, ma, come aperse gli occhi,
Da* genitori suoi l'acquista in fronte.
Dimmi il tuo suol, le genti e la cittade.
Sì che la nave d'intelletto piena
Prenda la mira, e vi ti porti. I legni
Della Feacia di nocchier mestieri
Non han, né di timon : mente hanno, e tutti
Sanno i disegni di chi stavvi sopra,
Conoscon le cittadi e i pingui campi,
E senza tema di ruina o storpio ,
Rapidissimi varcano, e di folta ,
Nebbia coverti, le marine spume.
Bensì al padre Nausitoo io dire intesi ,
Cfce ri^ttun centra noi forte s'adira,
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(v. 735-759) LIBRO viii. 153
Perchè illeso alla Patria ogni mortale
Riconduciamo; e che un de* nostri legni
Ben fabbricati, al suo ritorno, il Dio
Struggerà nelle fosche onde; e la nostra
Cittade coprirà d'alta montagna.
Ma effetto abbiano, o no, queste minacce,
Tu mi racconta, né fraudarmi il vero,
I mari scorsi e i visitati lidi.
Parlami delle genti, e delle terre
Che di popol ridondano, e di quante
Veder t'avvenne nazioni agresti.
Crudeli, ingiuste, o agli stranieri amiche,
A cui timor de* Numi alberga in petto.
Né mi tacer, perchè secreto piangi
Quando il fato di Grecia e d' Ilio ascolti.
Se venne dagli Ì)ei strage cotanta,
Lor piacque ancor che degli eroi le morti
Fossero il canto dell'età future.
Ti perì forse un del tuo sangue a Troia.
Genero prode, o suocero, i più dolci
Nomi al cor nostro dopo i figli e i padri?
O forse un fido, che nell* alma entrarti
Sapea, compagno egregio? È qual fratello
L'uom che sempre usa teco, e a cui fornirò
D'alta prudenza l'intelletto i Numi.
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LIBRO NONO
ARGOMENTO
Ulisse iaconincia il racconto delle av7eiiture sue dopo la sua
partenza di Troia. — Battaglia co* Ciconi . che arean soc-
corso i Troiani. -> Arrivo al paese de* Loto&gi. o sia man-
giatori del loto. — Descrizione d*una singolare isoletta, e
della spelonca del ciclope Polifemo. — Questi gli divora sei
de* compagni; ed egli, dopo averlo accecato, si salva con
gli altri, mediante uno stratagemma nuovo che seppe in-
ventare.
Alcinoo Rege, che ai mortali tutti
Di grandezza e di gloria innanzi vai,
Bello è l'udir, gli replicava Ulisse,
Cantor, come Demodoco, di cui
Pari a quella d'un Dio suona la voce:
Né spettacolo piti grato havvi, che quando
Tutta una gente si dissolve in gioia,
Quando alla mensa, che il cantor rallegra,
Molti siedono in ordine, e le lanci
Colme di cibo son, di vino l'urne,
Donde coppier nell'auree tazze il versi,
E ai convitati assisi il porga in giro.
Ma tu la storia de' miei guai domandi,
Perch* io rinnovi ed inacerbi il duolo.
Qual pria dirò, qual poi, qual nell'estremo
Racconto serberò delle sventure,
Che gravi e molte m' inviare i Numi?
Prima il mio nome, acciò, se vita un giorno
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(v. 19-54) LIBRO IX. 155
Mi si concede riposata e ferma,
Deirospitalità ci unisca il nodo.
Benché quinci lontan sorga il mio tetto.
Ulisse, il figlio di Laerte, io sono,
Per tutti accorgimenti al mondo in pregio,
E già noto per fama in sino agli astri.
Abito la serena Itaca, dove
Lo scotifronde Nerito si leva
Superbo in vista, ed a cui giaccion molte
Noa lontane tra loro isole intorno,
Dulichio, Same, e la di selve bruna
Zacinto. All'orto e al mezzogiorno queste,
Itaca al polo si rivolge, e meno
Dal continente fugge: aspra di scogli.
Ma di gagliarda gioventù nutrice.
Deh qual giammai Tuom piti della natia
Sua contrada veJer cosa può dolce?
Calipso, inclita Diva, in cave grotte
Mi ritenea, mi ritonea con arte
Nelle sue case la dedalea Circe,
Desiando d'avermi entrambe a sposo.
Ma né Calipso a me, né Circe il core
Piegava mai; che di dolcezza tutto
La patria avanza, e nulla giova un ricco
Splendido albergo a chi da* suoi disgiunto
Vive in estrania terra. Or tu mi chiedi
Quel che da Troia prescriveami Giove
Lacrimabil ritorno; ed io tei narro.
Ad Ismaro, de* Ciconi alia sede.
Me, che lasciava Troia, il vento spinse.
Saccheggiai la città, strage menai,
Degli abitanti; e sì, le molte robe
Dividemmo, e le donne, che^ alla preda
Ciascuno ebbe ugual parte. Io gli esortava
Partir subito e in fretta; e i forsennati,
Dispregiando il mio dir, pecore pingui,
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Ì56 ODISSEA (v. 55-90}
Pingui a scannar tortocòrnuti tori«
E larghi nappi ad asciugar sul lido.
S'allontanaro in questo mezzo, e voce
Diero i Cleoni ai Cleoni vicini.
Che piti addentro abitavano. Costoro,
Che in numero vincean gli altri, ed in forza,
E battagliare a pie, come dal carro,
Sapean del pari, mattutini, e tanti,
Quante son fronde a primavera e fiori.
Vennero; e allor di cielo a noi meschini
Riversò addosso un grave sinistro Griove.
Stabile accanto alle veloci navi
Pugna si commettea: d'ambo le parti
Volavan le pungenti aste omicide.
Finché il mattin durava, e il sacro sole
Acquistava del ciel, benché. più scarsi,
Sostenevam della battaglia il nembo.
Ma come il sol, calandosi all'Occaso,
L'ora menò, che dal pesante giogo
Si disciolgono i buoi, Tachiva forza
Fu dall'aste de' Cleoni respinta.
Sei de' compagni agli schinieri egregi
Perdo ogni nave: io mi salvai col resto.
Lieti nel cor della schivata morte,
E de' compagni nella pugna uccisi
Dolenti in un, ci allargavam dal lido;
Ma le ondivaghe navi il lor cammino
Non proseguian, che tre fiate in prima
Non si fosse da noi chiamato a nome
Ciascun di quei chegiacean freddi addietro.
L'adunator de' nembi olimpio Giove
Contro ci svegliò intanto una feroce
Tempesta boreal, che d'atre nubi
La terra a un tempo ricoverse e il mare,
E la notte di cielo a piombo scese.
Le vele ai legni, che moveansi obiic^ui,
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f
(V. 91-126) LTtìRO i^. ISt
Squarciò in tre e quattro parti il forte turbo.
Noi pel timore ammainammo, e ratto
I navigli affrettammo in Ter la spiaggia.
Ove due giorni interi, e tante notti,
Posavam lassi, e addolorati e muti.
Ma come l'alba dai capelli d*oro
II di terzo recò, gli alberi alzati,
E dispiegate le candide vele.
Entro i navigli sedevam, la cura
Ài timonier lasciandone, ed al vento.
Tempo era quello da toccar le amate
Sponde natie: se non che Borea, e un' aspra
Corrente me, che la Malea girava.
Respinse indietro, e da Citerà svolse.
Per nove infausti dì sul mar pescoso
I venti rei mi traportaro. Al fine
Nel decimo sbarcammo in su le rive
De' Lotofagi, un popolo a cui cibo
É d*una pianta il florido germoglio.
Entrammo nella terra, acqua attignemmo ,
E pasteggiammo appo le navi. Estinti
Della fame i desiri e della sete.
Io due scelgo de* nostri, a cui per terzo
Giungo un araldo, e a investigar li mando,
Quai mortali il paese alberghi e nutra.
Partirò, e s'affrontare a quella gente.
Che, lungo dal voler la vita loro,
II dolce loto a savorar lor porse.
Chiunque l'esca dilettosa e nuova
Gustato avea, con le novelle indietro
Non bramava tornar: colà bramava
Starsi, e, mangiando del soave loto.
La contrada natia sbandir dal petto.
^ ver ch'io lagrimosi al mar per forza
Li ricondussi, entro i cavati legni
Li cacciai, gli annodai di sotto ai banchi:
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15S omssftA (v. 127462)
E agli altri risalir con gran prestezza
Le negre navi comandai, non forse
Ponesse alcun nel dolce loto il dente,
E la Patria cadesse^li dai core.
Quei le navi saliano, e sovra i banchi
Sedean Tun dopo Taìtro, e gian battendo
Co* pareggiati remi il mar canuto.
Ci portammo oltre, e de* Ciclopi altieri,
Che vivon senza leggi, a vista fummo.
Questi lasciando ai Numi ogni pensiero,
Né ramo o seme por, né soglion gleba
Col vomere spezzar; ma il tutto viene
Non seminato, non piantato o arato.
L'orzo, il frumento e la gioconda vite,
Che si carca di grosse uve, e cui Giove
Con pioggia tempestiva educa e cresce.
Leggi non han, non radunanze, in cui
Si consulti tra lor: de* monti eccelsi
Dimoran per le cime, o in antri cavi;
Su la moglie ciascun regna e su i figli ,
Né l'uno all'altro tanto o quanto guarda.
Ai Ciclopi di centra, e né vicino
Troppo, né lunge, un* isoletta siede
Di foreste ombreggiata, ed abitata
Da un* infinita nazion di capre
Silvestri, onde la pace alcun non turba;
Che il cacciator, che per burroni e boschi
Si consuma la vita, ivi non entra.
Non aratore o mandrian v'alberga.
Manca d'umani totalmente, e solo
Le belanti caprette, inculta, pasce.
Però che navi dalle rosse guance
Tu cerchi indarno tra i Ciclopi, indarno
Cerchi fabbro di nave a saldi banchi ,
Su cui passare i golfi, e le straniere
Città trovar, qual delle* genti è usanza,
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(v. 163-198) LIBRO tx. 150
Che spesso van Tuna dell'altra ai lidi,
E all'isola deserta addur coloni.
Malvagia non è certo, e in sua stagione
Tutto darebbe. Molli e irrigui prati
Spiegansi in riva del canuto mare.
Si vestirian di grappi ognor le viti,
E così un pingue suolo il vomer curvo
Riceverla, che altissima troncarvi
Potriasi ai tempo la bramata mèsse.
Che del porto dirò? Non v*ha di fune
Né d'ancora mestieri; e chi già entrovvi.
Tanto vi può indugiar, che de\nocchieri
Le voglie si raccendono, e secondi
Spirino i venti. Ma del porto in cima
S'apre una grotta, sotto cui zampilla
L'argentina onda d'un fonte, e a cui
Fan verdissimi pioppi ombra e corona.
Là smontavamo, e per l'oscura notte,
Noi, spenta ogni veduta, un Dio scorgea:
Che una densa caligine alle navi
Stava d'intorno, né splendea di cielo
La luna, che d'un nembo era coverta.
Quindi nessun l'isola vide, e i vasti
Flutti al lido volventisi, che prima
Approdati non fossimo. Approdati,
Tutte le vele raccogliemmo, uscimmo
Sul lido, e l'alba dalle rosee dita,
Nel sonno disciogliendoci, aspettammo.
Sorta la figlia del mattino appena,
L' isoletta, che in noi gran maraviglia
Destò, passeggiavamo. Allor le Ninfe,
Prole cortese dell'egioco Giove,
Per fornir di convito i miei compagni.
Quelle capre levare. E, noi repente,
Presi i curvi archi e le asticciuole acute,
E tre schiere di noi fatte, in tal guisa
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l6Ò ODISSEA (v. Ì99-234;
Il monte fulminammo, e il bosco tutto,
Ch* io non so, se dai Numi in sì brev' ora
Fu concessa giammai caccia si ricca.
Dodici navi mi seguiano, e nove
Capre ottenne ciascuna; io dieci n'ebbi,
Tutto quel giorno sedevamo a mensa
Tra carni immense e prezioso vino:
Poicbè restava sulle navi ancora
Del licore, onde molte anfore e molte
Riempiuto avevam, quando la sacra
Dispogliammo de'Cicdhi cittade.
E de' Ciclopi nel vicin paese
Levate intanto tenevam le ciglia,
E salir vedevamo il fumo, e miste
Col belo dell'agnello e delle capre
Raccoglievam le voci. Il sole ascoso.
Ed apparse le tenebre, le menfibra
Sul marin lido a riposar gettammo.
Ma come del mattin la figlia sorse.
Tutti chiamati a parlamento, Amici,
^ Dissi, vi piaccia rimaner, mentr' io
Della gente a spiar vo col mio legno.
Se ingiusta, soperchievole, selvaggia,
di core ospitai siasi, ed a cui
Timor de* Numi si racchiuda in petto.
Detto, io montai la nave, e ai remiganti
Montarla ingiunsi, e liberar la fune.
E quei ratto ubbidirò; e già su i banchi
Sedean l'un dopo l'altro, e gian battendo
Co' pareggiati remi il mar canuto.
Giunti alla terra, che sorgeaci a fronte.
Spelonca eccelsa nell'estremo fianco
Di lauri opaca, e al mar vicina, io vidi.
Entro giaceavi innumerabil greggia.
Pecore e capre; e di recise pietre
Composto, e di gran pini e querce ombrose,
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(v. 235-270) LIBRO IX. 161
Alto recinto vi correa d'intorno.
Uom gigantesco abita qai, che lungo
Pasturava le pecore solingo.
In disparte costui vivea da tutti,
E cose inique nella mente cruda
Covava: orrendo mostro, né sembiante
Punto alla stirpe che di pan si nutre,
Ma più presto al cucuzzolo selvoso
D*una montagna smisurata, dove
Non gli s'alzi da presso altro cacume.
Lascio i compagni della nave a guardia,
E con dodici sol, che i più robusti
Mi pareano, e più arditi, in via mi pongo,
Meco in otre caprin recando un negro
Licer nettareo, che ci dio Marone
D'Evantèo figlio, e sacerdote a Febo,
Cai d'Ismaro le torri eran in cura.
Soggiornava del Dio nel verde bosco,
E noi di santa riverenza tocchi
Con la moglie il salvammo, e con la prole.
Quindi ei mi porse incliti doni: sette
Talenti d'or ben lavorato, un'urna
D'argento tutta, e dodici d'un vino
Soave, incorruttibile, celeste.
Anfore colme; un vin ch'egli, la casta
Moglie e la fida dispensiera solo.
Non donzelli sapeanlo, e non ancelle.
Quandunque ne bevean, chi empia la tazza,
Venti metri infondean d'acqua di fonte,
E tal dall'urna scoverchiata odore
Spirava, e sì divin, che somma noia
Stato saria non confortarne il petto.
Io dell'alma bevanda un otre adunque
Tenea, tenea vivande a un zaino in grembo:
Che ben diceami il cor, quale di strana
Forza dotato le gran membra, e insieme
Odissea Digtzed by Goègle
162 ODISSEA (v. 271-306;
Debil conoscitor di leggi e dritti,
Salvatic*uom mi si farebbe incontra.
Alla spelonca divenuti in breve,
Lui non trovammo, che per l'erte cime
Le pecore lanigere aderbava.
Entrati, gli occhi stupefatti in giro
Noi portavam: le aggraticciate corbe
Cedeano al peso de* formaggi, e piene
D'agnelli e di capretti eran le stalle;
E i piti grandi, i mezzani, i nati appena,
Tutti come l'etade, avean del pari
Lor propria stanza; e i pastorali vasi.
Secchie, conche, catini, ov*ei le poppe
Premer solca delle feconde madri,
Entro il siero notavano. Qui forte,
I compagni prega vanmi che, tolto
Pria di quel cacio, si tornasse addietro, ,
Capretti s'adducessero ed agnelli ' '
Alla nave di fretta, e in mar s'entrasse.
Ma io non volli, benché il meglio fosse:
Quando io bramava pur vederlo in faccia,
E trar doni da lui, che riuscirci
Ospite sì inamabile dovea. l
Racceso il foco, un sacrifizio ai Numi i
Femmo e assaggiammo del rappreso latte: I
Indi l'attendevam nell'antro assisi.
Venne, pascendo la sua greggia, e in collo
Pondo non lieve di rìsecca selva,
Che la cena cocessegli, portando.
Davanti all' antro gittò il carco, e tale
Levossene un romor, che sbigottiti
Nel più interno di quel ci ritraemmo.
Ei dentro mise le feconde madri,
E gì' irchi a cielo aperto, ed i montoni
Nella corte lasciò. Poscia una vasta
Sollevò in alto ponderosa pietra,
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(v. 307342) LIBRO IX. 163
Che ventiduo da quattro ruote e forti
Carri di loco non avriano smossa,
E r ingresso accecò della spelonca.
Fatto, le agnello assiso, e le belanti
Capre mugnea, tutto serbando il rito,
E a questa i parti mettea sotto , e a quella.
Mezzo il candido latte insieme strinse,
E su i canestri d'intrecciato vinco
Collocollo ammontato: e Taltro mezzo.
Che dovea della cena esser bevanda,
Il riceverò i pastorecci vasi.
Di queste sciolto cotidiane cure,
Mentre il foco accendea, ci scòrse e disse:
Forestieri, chi siete? E da quai lidi
Prendeste a frequentar Tumide strade?
Siete voi trafficanti? errando andate,
Come corsali, che la vita in forse.
Per danno altrui recar, metton su i flutti?
Della voce al rimbombo, ed all'orrenda
Faccia del mostro, ci s'infranse il core.
Pure io così gli rispondea: Siam Greci,
Che di Troia partiti e trabalzati
Su pel ceruleo mar da molti venti.
Cercando il suol natio, per altre vie,
E con viaggi non pensati, a queste,
Cosi piacque agli Dei, sponde afferrammo.
Seguimmo, e cen vantiam, per nostro capo
Queir Atride Agamennone che il mondo
Empieo della sua fama, ei che distrusse
Città si grande, e tante genti ancìse.
Ed or, prostesi alle ginocchia tue,
Averci ti preghiam d'ospiti in grado,
E d'un tuo dono rimandarci lieti.
Ah! temi, o potentissimo, gli Dei:
Che tuoi supplici slam, pensa, e che Giove
Il supplicante vendica, e l'estrano,
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164 ODISSEA (v. 343-378)
Giove ospitai, che raccompagna, e il rende
Venerabile altrui. Ciò detto, io tacqui.
Ed ei con atroce alma: ti fallisce,
Straniero, il senno, o tu di lunge vieni.
Che vuoi che i Numi io riverisca e tema.
L' Egidarmato di Saturno fglio
Non temono i Ciclopi, o gli altri Iddii:
Che di loro slam noi molto piti forti.
Né perchè Giove inimicarmi io debba,
A te concederò perdono, e a questi
Compagni tuoi, se a me il mio cor noi detta.
Ma dimmi: ove approdasti? All'orlo estremo
Di questa terra, o a più propinquo lido?
Così egli tastommi; ed io, che molto
D'esperienza ricettai nel petto,
Ravvistomi del tratto, incontanente
Arte in tal modo gli rendei per arte:
Nettuno là, 've termina e s'avanza
La vostra terra con gran punta in mare,
Spinse la nave mia centra uno scoglio,
E le spezzate tavole per l'onda
Sen portò il vento. Dair estremo danno
Con questi pochi io mi sottrassi appena.
Nulla il barbaro a ciò ; ma, dando un lancio,
La man ponea sovra i compagni, e due
Brancavane ad un tempo, e quai cagnuoli,
Percoteali alla terra, e ne spargea
Le cervella ed il sangue. A brano a brano
Dilacerolli, e s'imbandì la cena.
Qual digiuno leon, che ih monte alberga,
Carni ed interiora, ossa e midolle.
Tutto vorò, consumò tutto. E noi
A Giove ambo le man tra il pianto alzammo,
Spettacol miserabile scorgendo
Con gli occhi nostri, e disperando scampo.
Poiché la gran ventraia empiivto s'ebbe,
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(v. 379-414) LIBRO IX, 165
Pasteggiando dell'uomo, e puro latte
Tracannandovi- sopra, in fra le agnello
Tatto quant'era ei si distese, e giacque.
Io, di me ricordandomi, pensai
Farmigli presso, e la pungente spada
Tirar nuda dal fianco, e al petto, dove
La corata dal fegato si cinge.
Ferirlo. So non ch'io vidi che certa
Morte noi pure incontreremo, e acerba:
Che non era da noi tór dall'immenso
Vano dell'antro la sformata pietra
Che il Ciclope fortissimo v' impose.
Però, gemendo, attendevam l'aurora.
Sorta l'aurora, e tinto in rosso il cielo,
Il foco ei raccendea, mugnea le grasse
Pecore belle, acconciamente il tutto ,
E i parti a quésta mettea sotto , e a quella.
Né appena fu delle sue cure uscito.
Che altri due mi ghermì de' cari amici ,
E carne umana desinò. Satollo,
Cacciava il gregge fuor dell'antro, tolto
Senza fatica il disonesto sasso,
Che dell'antro alla bocca indi ripose,
Qual chi a faretra il suo coverchio assesta,
Poi su pel monte si mandava il pingue
Gregge davanti, alto per via fischiando.
Ed io tutti a raccolta i miei pensieri
Chiamai, per iscoprir, come di lui
Vendicarmi io potessi, e un'immortale
Gloria comprarmi col favor di Palla.
Ciò alfin mi parve il meglio. Un verde, enorme
Tronco d'oliva, che il Ciclope svelse
Di terra, onde fermar con quello i passi.
Entro la stalla a inaridir giacca.
Albero scorger credevam di nave
Larga, mercanteggiante, e l'onde brune
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166 ODISSEA (v. 415-450)
Con venti remi a valicare usata:
Sì lungo era e sì grosso. Io ne recisi
Quanto è sei piedi, e la recisa parte
Diedi ai compagni da polirla. Come
Polita fu, da un lato io raffilai.
L'abbrustolai nel foco, e sotto il fimo,
Ch'ivi in gran copia s'accogliea, Tascosi.
Quindi a sorte tirar coloro io feci,
Che alzar meco dovessero, e al Ciclope
L'adusto palo conficcar nell'occhio.
Tosto che i sensi gli togliesse il sonno.
Fortuna i quattro, ch'io bramava, appunto
Donommi, e il quinto io fui. Cadea la sera,
E dai campi tornava il fier pastore,
Che la sua greggia di lucenti lane
Tutta introdusse nel capace speco:
di noi sospettasse, o prescrivesse
Così il Saturnio. Novamente imposto I
Quel, che rimosso avea, disconcio masso ^ |
Pecore e capre alla tremola voce i
Mungea sedendo, a maraviglia il tutto,
E a questa mettea sotto , e a quella i parti. I
Fornita ogni opra, m'abbrancò di nuovo i
Due de' compagni, e cenò d'essi il mostro. \
Allora io trassi avanti, e, in man tenendo
D'edra una coppa. Te', Ciclope, io dissi: '
Poiché cibasti umana carne, vino I
Bevi ora, e impara, qual su l'onde salse |
Bevanda carreggiava il nostro legno. j
Questa, con cui libar, recarti io volli.
Se mai, compunto di nuova pietade,
Mi rimandassi alle paterne case. j
Ma il tuo furor passa ogni segno. Iniquo!
Chi più tra gl'infiniti uomini in terra
Fia che s'accosti a te? Male adoprasti.
La coppa ei tolse, e bebbe, ed un supremo
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(v. 451.486) LIBRO IX. 167
Del soave licor prese diletto,
E un* altra volta men chiedea: Straniero,
Darmene ancor ti piaccia, e mi palesa
Subito il nome tuo, perch'io ti porga
L'ospitai dono che ti metta in festa.
Vino ai Ciclopi la feconda terra
Produce col favor di tempestiva
Pioggia, onde Giove le nostre uve ingrossa:
Ma questo è ambrosia e nettare celeste.
Un* altra volta io gli stendea la coppa.
Tre volte io la gli stesi; ed ei ne vide
Nella stoltezza sua tre volte il fondo.
Quando m' accorsi che saliti al capo
Del possente licor gli erano i fumi,
Voci blande io drizzavagli: il mio nome.
Ciclope, vuoi? L'avrai: ma non frodarmi
Tu del promesso a me dono ospitale.
Nessuno è il nome; me la madre e il padre
Chiaman Nessuno, e tutti gli altri amici.
Ed ei con fiero cor: L'ultimo ch'io
Divorerò, sarà Nessuno. Questo
Riceverai da me dono ospitale.
Disse, e die indietro, e rovescion cascò.
Giacea nell'antro con la gran cervice
Bipiegata su Temerò; e dal sonno.
Che tutti doma, vinto, e dalla molta
Crapula oppresso, per la gola fuori
Il negro vino, e della carne i pezzi,
Con sonanti mandava orrendi rutti.
Immantinente dell' ulivo il palo
Tra la cenere io spinsi ; e in questo gli altri
Rincorava, non forse alcun per tema
M'abbandonasse nel miglior dell' opra.
Come verde quantunque, a prender fiamma
Vicin mi parve, rosseggiante il trassi
Dalle ceneri ardenti, e al mostro andai
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168 ODISSEA (v. 487-522)
Con intorno i compagni; un Dio per fermo
D'insolito ardimento il cor ci armava.
Quelli afferrar l'acuto palo, e in mezzo
Dell'occhio il confìccaro; ed io di sopra,
Levandomi su i pie, movealo in giro.
E come allor che tavola di nave
Il trapano appuntato investe e fora.
Che altri il regge con mano, altri tirando
Va d'ambo i lati le coregge, e attorno
L' instancabil trapano si voi ve:
Sì nell'ampia lucerna il trave acceso
Noi giravamo. Scaturiva il sangue,
La pupilla bruciava, ed un focoso
Vapor, che tutta la palpebra e il ciglio
Struggeva, uscia della pupilla, e l'ime
Crepitarne io sentia rotte radici.
Qual se fabbro talor nell'onda fredda
Attuffò un'ascia o una stridente scure,
E temprò il ferro, e gli die forza; tale
L'occhio intorno al troncon cigola e frigge.
Urlo il Ciclope sì tremendo mise,
E tanto l'antro rimbombò, che noi
Qua e là ci spargemmo impauriti.
Ei f»or cavossi dell'occhiaia il trave,
E da sé lo scagliò di sangue lordo.
Furiando per doglia; indi i Ciclopi,
Che non lontani le ventose cime
Abitavan de* monti in cave grotte.
Con voce alta chiamava. Ed i Ciclopi
Quinci e quindi accorrean, la voce udita,
E, soffermando alla spelonca il passo,
Della cagione il richiedean del duolo.
Per quale offesa, o Polifemo, tanto
Gridasti! mai? Perchè così ci turbi
La balsamica notte e i dolci sonni?
Furati alcun la greggia? o uccìder forse
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(v. 523-558) LIBRO ix. 189
Con inganno ti vuole, o a forza aperta?
E Polifemo dal profondo speco:
Nessuno, amici, uccidemi, e ad inganno,
Non già con la virtude. Or se nessuno
Ti nuoce, rispoudeano, e solo alberghi,
Da Giove è il morbo, e non v*ha scampo. Al padre
Puoi bene, a re Nettun, drizzare i prieghi.
Dopo ciò, ritornar su i lor vestigi:
Ed a me il cor ridea, che sol d'un nome
Tutta si fosse la mia frode ordita.
Polifemo da duoli aspri crucciato.
Sospirando altamente, e brancolando
Con le mani, il pietron di loco tolse.
Poi, dove l'antro vaneggiava, assiso
Stavasi con le braccia aperte e stese,
Se alcun di noi, che tra le agnello uscisse.
Giungesse ad aggrappar; tanta ei credèo
Semplicitade in me. Ma io gli amici
E me studiava riscattar, correndo
Per molte strade con la mente astuta :
Che la vita ne andava, e già pendea
Su le teste il disastro. Al fine in questa.
Dopo molto girar, fraudo io m'arresto.
Montoni di gran mole, e pingui e belli.
Di folta carchi porporina lana,
Rinchiudea la caverna. Io tre per volta
Prendeane, e in un gli unia tacitamente
Co' vinchi attorti, sovra cui solea
Polifemo dormir: quel ch'era in mezzo.
Portava sotto il ventre un de' compagni.
Cui fean riparo i due ch'ivan da lato,
E così un uomo conducean tre bruti.
Indi afferrai pel tergo un ariete
Maggior di tutti, e della greggia il fiore ;
Mi rivoltai sotto il lanoso ventre,
E, le mani avvolgendo entro ai gran velli,
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170 ODISSEA (v. 559-594)
Con fermo cor mi v*attenea sospeso.
Così, gemendo, aspettavam l'aurora.
Sorta Taurora, e tinto in ro§eo il cielo,
Fuor della grotta i maschi alla pastura
Gittavansi; e le femmine non munte,
Che gravi molto si sentian le poppe,
R'iempiean di belati i lor serragli.
Il padron, cui ferian continue doglie,
D'ogni montone, che diritto stava,
Palpava il tergo; e non s'avvide il folle
Che dalle pance del velluto gregge
Pendean gli uomini avvinti. Ultimo uscià
De' suoi velli bellissimi gravato
L'ariete, e di me, cui molte cose
S'aggiravan per l'alma. Polifemo
Tai detti, brancicandolo, gli volse:
Ariete dappoco, e perchè fuori
Così da sezzo per la grotta m'esci?
GlAr non solevi dell'agnelle addietro
Restarti: primo, e di gran lunga, i molli
Fiori del prato a lacerar correvi
Con lunghi passi ; degli argentei fiumi
Primo giungevi alle correnti; primo
Ritornavi da sera al tuo presepe :
Ed oggi ultimo sei. Sospiri forse
L'occhio del tuo signor? l'occhio che un tristo
Mortai mi svelse co* suoi rei compagni ;
Poiché doma col vin m'ebbe la mente,
Nessuno, ch'io non credo in salvo ancora.
Oh! se a parte venir de' miei pensieri
Potessi, e, voci articolando, dirmi,
Dove dalla mia forza ei si ricovra,
Ti giuro che il cervel della percossa
Testa schizzata scorreria per l'antro,
Ed io qualche riposo avrei da' mali
Che nessuno recommi, un uom da nulla.
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(v. 595*630) LIBRO IX. 171
Disse; e da so lo spingea fuori al pasco.
Tosto che dietro a noi V infame speco
Lasciato avemmo, ed il cortile ingiusto,
Tardo a sciormi io non fui dairariete,
E poi gli altri a slegar, che, ragunate,
Molte in gran fretta piedilunghe agnello,
Cacciavansele avanti in sino al mare.
Desiati apparimmo, e come usciti.
Dalle fauci di Morte, a quei che in guardia
Rimaser della nave, e che i compagni.
Che non vedeano, a lagrimar si diero..
Ma io non consentiala, e con le ciglia
Cenno lor fea di ritenere il pianto,
E comandava lor che, messe in nave.
Le molte in pria vellosplendenti agnello.
Si fendessero i flutti. E già il naviglio
Salian, sedean su i banchi, e percotendo
Gian co* remi concordi il bianco mare.
Ma come fummo un gridar d'uom lontani,
Cosi il Ciclope io motteggiai: Ciclope,
Color che nel tuo cavo antro, le grandi
Forze abusando, divorasti, amici
Non eran dunque d'un mortai da nulla ,
E il mal te pur coglier dovea. Malvagio!
Che la carne cenar nelle tue case
Non temevi degli ospiti. Vendetta
Però Giove ne prese, e gli altri Numi.
A queste voci Polifemo in rabbia
Montò più alta, e con istrana possa
Scagliò d'un monte la divelta cima.
Che davanti alla prua caddemi: al tonfo
L'acqua levossi, ed innondò la nave
Che alla terra crudel, dai refluenti
Flutti portata, quasi a romper venne.
Ma io, dato di piglio a un lungo palo.
Ne la staccai, pontando; ed i compagni
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172 ODISSEA (v. 631-666)
D'incurvarsi sul remo, e in salvo addarsi,
Più de* cenni pregai, che della voce :
E quelli tutte ad inarcar le terga.
Scorso di mar due volte tanto, i detti
A Polifemo io rivolgea di nuovo ,
Benché gli amici con parole blande
D'ambo i lati tenessermi : Infelice I
Perchè la fera irritar vuoi più ancora?
Così poc'anzi a saettar si mise.
Che tre dita mancò, che risospinto
Non percotesse al continente il legno.
Fa che gridare o favellar ci senta,
E volerà per l'aere un altra rupe.
Che le nostra cervella, e in un la nave
Sfracellerà: tanto colui dardeggia.
L'alto mio cor non si piegava. Quindi,
Ciclope, io dissi con lo sdegno in petto,
Se della notte, in che or tu giaci, alcuno
Ti chiederà, gli narrerai che Ulisse,
D'Itaca abitator, figlio a Laerte,
Struggitor di cittadi, il dì ti tolse.
Egli allora, ululando. Ohimè ! rispose ,
Da* prischi vaticinii eccomi cólto.
Indovino era qui, prode uomo e illustre,
Telemo, figliuol d'Èurimo, che avea
Dell'arte il pregio , ed ai Ciclopi in mezzo
Profetando invecchiava. Ei queste cose
Mi presagì: mi presagì che il caro
Lume dell'occhio spegneriami Ulisse.
Se non ch'io sempre uom gigantesco e bello,
E di forze invincibili dotato.
Rimirar m'aspettava; ed ecco in vece
La pupilla smorzarmi un piccoletto
Greco ed imbelle, che col vin mi vinse.
Ma qua, su via, vientene, Ulisse, ch'io
Ti porga l'ospitai dono, e Nettuno
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(v. 667-702) LIBRO IX. 173
Di fortunare il tuo ritorno prieghi.
Io di lui nacqui, ed ei sen vanta, e solo,
Voglial, mi sanerà, non altri , io credo
Tra i mortali nel mondo, o in ciel tra i Numi.
Oh I così potess' io, ratto ripresi.
Te spogliar della vita, e negli oscuri
Precipitar regni di Pluto, come
Nò da Nettuno ti verrà salute.
Ed ei, le palme alla stellata volta
Levando, il supplicava: chiomazzurro.
Che la terra circondi, odi un mio voto.
Se tuo pur son, se padre mio ti chiami.
Di tanto mi contenta: in patria Ulisse,
D' Itaca abitator, figlio a Laerte,
Struggitor di cittadi, unqua non rieda.
E dove il natio suolo, e le paterne
Case il destin non gli negasse, almeno
Vi giunga tardi e a stento, e in nave altrui,
Perduti in pria tutti i compagni; e nuove
Nell'avita magion trovi sciagure.
Fatte le preci, e da Nettuno accolte,
Sollevò un masso di più vasta mole.
E, rotandol nell'aria, e una più grande
Forza immensa imprimendovi, lancioUo.
Cadde dopo la poppa, e del timone
La punta rasentò: levossi al tonfo
L'onda, e il legno coprì che all' isoletta.
Spinto dal mar, subitamente giunse.
Quivi eran l'altre navi in su l'arena,
E i compagni, che assisi ad esse intorno
Ci attendean sempre con agli occhi il pianto.
Noi tosto in secco la veloce nave
Tirammo, e fuor n'uscimmo, e del Ciclope
Trattone il gregge, il dividemmo in guisa,
Che parte ugual n* ebbe ciascuno. .È vero
Che voUer che a me sol, partite l'agaj.
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174 ODISSEA (v. 703-723)
Il superbo ariete anco toccasse.
Io di mia mano al Saturnide, al cinto
D'oscure nubi Correttor del Mondo,
L'uccisi, e n'arsi le fiorite cosce.
Ma non curava i sacrifizi Giove,
Che anzi tra sé volgea, com'io le navi
Tutte, e tutti i compagni al fin perdessi.
L'intero di sino al calar del sole
Sedevam banchettando: il sole ascoso,
Ed apparse le tenebre, le membra
Sul marin lido a riposar gettammo.
Ma come del mattin la figlia, l'Alba
Ditirosata in Oriente sorse,
I compagni esortai, comandai loro
Di rimbarcarsi, e liberar le funi.
E quei si rimbarcavano, e su i banchi
Sedean Tun dopo l'altro, e percotendo
Gian co* remi concordi il bianco mare.
-Così noi lieti per lo scampo nostro,
E per l'altrui sventura in un dolenti ,
Del mar di nuovo solcavam le spume.
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LIBRO DECIMO
ARGOMENTO
Ulisse gionge ali* isola Eolia. — Eolo gli & il dono d' uà
otre » in cui tutti i venti, non compresovi zefiro . son rin-
chiusi* » I compagni sciolgono V otre ; • i venti ne scap-
pano, e riportano Ulisse ad Eolo, che il discaccia de sé.
— Passa alla cittèi de* Lestrigoni . popolo anche questo
antropo&go. e perde la più parte de* compagni e le navi,
eccetto una , con la quale arriva ali* isola di Circe. —
Costei gli trasforma in pòrci la metit de* compagni, salvo
uno, che viene a darne là nuova. Ulisse con Terba Moli.
che Mercurio gli diede , scioglie 1* incanto. — Stato un
anno con Circe, questa il consiglia d* ire alla casa di Plu-
toni; ed ei s*apparecchia , perduto uno de* compagni, a
ubbidirla.
Giungemmo nell'Eolia, ove il diletto
Agl'immortali Dei d'Ippota figlio,
Eolo, abitava in isola natante,
Cui tutta un muro d* infrangibil rame,
E una liscia circonda eccelsa rupe.
Dodici, sei d'un sesso e sei dell'altro,
Gli nac^uer figli in casa ; ed ei congiunse
Per nodo maritai suore e fratelli.
Che avean degli anni il più bel fior sul volto.
Costoro ciascun di siedon tra il padre
Caro, e l'augusta madre, ad una mensa
Di varie carca delicate dapi.
Tutto il palagio, finché il giorno splende.
Spira fragranze, e d'armonie risuona.
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176 ODISSEA (v. 15-50)
Poi, caduta suU* isola la notte,
Chiudono al sonno le bramose ciglia
In traforati e attappezzati letti
Con le donne pudiche i fidi sposi.
Questo il paese fu, questo il superbo
Tetto, in cui me per un intero mese
Co' modi più gentili Eolo trattava.
Di molte cose mi chiedea; di Troia,
Del navile de* Greci , e del ritorno :
E il tutto io gli narrai di punto in punto.
Ma come, giunta del partir mio l'ora,
Parole io mossi ad impetrar licenza,
Ei, non che dissentir, del mìo viaggio
Pensier si tolse e cura; e della pelle
Di bue novenne appresentommi un otre.
Che imprigionava i tempestosi venti :
Poiché de' venti dispensier supremo
Fu da Giove nomato ; ed a sua voglia 1
Stringer lor puote, o rallentare il freno.
L'otre nel fondo del naviglio avvinse |
Con funicella lucida e d'argento,
Che non uscisse la più picciol' aura ; j
E sol tenne di fuori un opportuno
Zefiro, cui le navi e i naviganti i
Diede a spinger su l'onda. Eccelso dono, ,
Che la nostra follia volse in disastra ! |
Nove dì senza posa, e tante notti i
Velleggiavamo ; e già ventaci incontro |
Nel decimo la Patria, e omai vicini i
Quei vedevam che raccendeano i fochi ; |
Quando me stanco, perch'io regger volli
Della nave il timon, né in mano altrui ,
Onde il corso affrettar, lasciarlo mai,
Sorprese il sonno. I miei compagni intanto
Favellavan tra loro, e fean pensiero
Che argento ed oro alle mie case, doni
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(v. 51-86) LIBRO X. 177
Del generoso Ippòtade, io recassi.
Numi! come di sé, dicea taluno
Rivolto al suo yicin, tutti innamora
Costui dovunque navigando arriva!
Molti da Troia dispogliata arredi
Riporla belli e preziosi ; e noi,
Che le vie stesse misurammo, a casa
Torniam con le man vote. In oltre questi
L' Ippòtade gli die pegni d'amore.
Orsù, veggiam quanto in suo grembo asconda
D'oro e d'argento la bovina pelle.
Così prevalse il mal consiglio. L'otre
Fu preso e sciolto; e immantinente tutti
Con furia ne scoppiar gli agili venti.
La subitana orribile procella
Li rapia dalla patria, e li portava
Sospirosi nell'alto. Io , cui 1* infausto
Sonno si ruppe, rivolgea nell'alma.
Se di poppa dovessi in mar lanciarmi,
soffrir muto, e rimaner tra i vivi.
Soffrii, rimasi: ma, coverto il capo.
Giù nel fondo io giacer, mentre le navi,
Che i compagni di lutto empieano indarno,
Ricacciava in Eolia il fiero turbo.
Scendemmo a terra, acqua attingemmo e a
Presso le navi ci adagiammo. Estinta (mensa
Del cibarsi e del ber l'innata voglia,
Io con un de' compagni e con l'araldo
M'inviai d'Eolo alla magion superba;
E tra la dolce sposa e i figli cari
Banchettante il trcrvai. Sul limitare
Sedevam della porta. Alto stupore
Mostrare i figli, e con parole alate,
Ulisse, mi dicean, come venistu?
Qual t'assalì dèmone avverso ? Certo
Cosa non fu da noi lasciata indietro.
Odissea Digtzed by Godale
178 ODISSEA (v. 87-122)
Perchè alla patria e al tuo palagio, e ovunque
Ti talentasse più, salvo giungessi.
Ed io con petto d'amarezza colmo:
Tristi compagni, e un sonno infausto a tale
Condotto m'hanno. Or voi sanate, amici.
Che il potete, tal piaga. In questa guisa
Le anime loro io raddolcir tentai.
Quelli ammutirò. Ma il cruciato padre,
Via rispose, da questa isola, e tosto,
O degli uomini tutti il più malvagio:
Che a me né accor, né rimandar con doni
Lice un mortai che degli Eterni é in ira.
Via, poiché Todio lor qua ti condusse.
Così Eolo shandia me dal suo tetto,
Che de' gemiti miei tutto sonava.
Mesti di nuovo prende vam dell' alto:
Ma si stancavan di lottar con l' onda.
Remigando, i compagni, e del ritorno
Morìa la speme ne' dogliosi petti.
Sei di navigammo, e notti sei;
E col settimo Sol della sublime
Città di Lamo dalle }arghe porte.
Di Lestrigonia, pervenimmo a vista.
Quivi pastor, che a sera entra col gregge.
Chiama un altro, che fuor con l'armento esce.
Quivi uomo insonne avria doppia mercede,
L'una pascendo i buoi, l'altra le agnello
Dalla candida lana: sì vicini
Sono il diurno ed il notturno pasco.
Bello ed ampio n'è il porto; eccelsi scogli
Cerchianlo d'ogni parte, e tra due punte.
Che sporgon fuori e ad incontrar si vanno.
S'apre un'angusta bocca. I miei compagni,
Che nel concavo porto a entrar fur pronti,
Propinque vi tenean le ondivaganti
Navi, e avvinte tra lor; quando né grande
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(v. 123-158) LIBRO X. 179
Vi s'alza mai, né picciola onda, é sempro
Una calma vi appar tacita e bianca.
10 sol rimasi col naviglio fuori,
Che al sasso estremo con in torta fune,
Raccomandai: poi, su la rupe asceso,
Quanto si discopria mirava intorno.
Lavor di bue non si scorgea, né d'uomo:
Sol di terra salir vedeasi un fumo.
Scelgo allor due compagni, e con l'araldo
Mandoli a investigar, quali V ignota
Terra produce abitatori e nutre.
La via diritta seguitar, per dove
1 carri conduceano alla citade
Dagli alti monti la troncata selva;
E s'abbatterò a una real fanciulla,
Del Lestrigone Antifate alla figlia.
Che del fonte d'Artacia, onde costuma
11 cittadino attignere, in quel punto
Alle pure scendea linfe d'argento.
Le si fero da presso, e chi del loco
Re fosse, e su^ qual gente avesse impero ,
La domandare'; ed ella pronta l'alto
Loro additò con man tetto del padre.
Tocco ne aveano il limitare appena,
Che femmina trovar di si gran mole,
Che rassembrava una montagna; e un gelo
Si sentirò d'orror correr pel sangue.
Costei di botto Antifate chiamava
Dalla pubblica piazza, il rinomato
Marito suo, che disegnò lor tosto
Morte barbara e orrenda. Uno afferronne,
Che gli fu cena; gli altri due 6on fuga
Precipitosa giunsero alle navi.
Di grida la cittade intanto empiea
Antffate. I Lestrigoni l'udirò,
E accorrean chi da un lato e chi dall' altro,
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180 ODISSÈA (v. 159-194)
Forti di braccio, in numero infiniti,
E giganti alla vista. Immense pietre
Così dai monti a fulminar si diero,
Che d'uomini spiranti e infranti legni
Sorse nel porto un suon tetro e confuso.
Ed alcuni infilzati eran con l'aste,
Quali pesci guizzanti, e alle ferali
Mense future riserbati. Mentre
Tal seguia strage, io sguainato il brando ,
E la fune recisa, a' miei compagni
Dar di forza nel mar co* remi ingiunsi.
Se il fuggir morte premea loro ; e quelli
Di tal modo arrancavano, che i gravi
Massi, che piovean d'alto, il mio naviglio
Lietamente schivò; ma gli altri tutti
Colà restaro sfragellati e spersi.
Contenti dello scampo, e in un dogliosi
Per li troppi compagni in si crudele
Guisa periti, navigammo avanti,
E su l'isola Eèa sorgemmo, dove
Circe, Diva terribile, dal crespo
Crine e dal dolce canto, avea soggiorno.
" Suora germana del prudente Eeta,
Dal sole aggiornator nacque, e da Persa
Dell'antico Oceàn figliuola illustre.
Taciti a terra ci accostammo, entrammo ,
Non senza un Dio che ci guidasse, il cavo
Porto, e sul lido uscimmo ; e qui due giorni
Giacevamo, e due notti, il cor del pari
La stanchezza rodendoci e la doglia.
Come recato ebbe il dì terzo l'Alba ,
Io, presa l'asta ed il pungente brando,
Rapidamente andai sovra un' altezza,
Se d'uomo io vedessi opra, o voce udissi.
Fermato il pie su la scoscesa cima.
Sórsi un fumo salir d' infra uim selva
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[y. 195-230) LIBRO X. 18X
Di querce annose, che in vasto piano
Di Circe alla magion sorgeano intorno.
Entrar disposi senza indugio in vìa,
E il paese cercar: poi ripensando,
Al legno invece rivoltare i passi.
Cibo dare ai compagni, e alcuni prima
A esplorare inviar, mi parve il meglio.
Già tra la nave e me poco restava:
Quando ad un de' Celesti, in cui pietade
Per quella solitudine io destai.
Grosso ed armato di ramose corna
Drizzare alla mìa volta un cervo piacque.
Spinto dal Sole, che il cocca co* raggi ,
De' paschi uscia della foresta, e al fiume
Scendea con labbra sitibonde ; ed io
Su la spina lo colsi a mezzo il tergo
Sì, che tutto il passò l' asta di rame.
Nella pólve cade, mandando un grido,
E via ne volò l'alma. Accorsi, e, il piede
Pontando in esso, dalla fonda piaga
Trassi il cerro sanguigno, ed il sanguigno
Cerro deposi a terra : indi virgulti
Divelsi e giunchi, attorciliaili , fune
Sei spanne lunga ne composi, e i morti
Piedi ne strinsi dell* enorme fera.
Al fin sul collo io la mi tolsi, e mossi,
Su la lancia poggiandomi, al naviglio :
Che mal potuto avrei sovra una sola
Spalla portar così sformata belva.
Presso la nave scaricailla ; e ratto
Con soavi parole i miei compagni,
A questo rivolgendomi ed a quello.
Così tentai rianimare: Amici,
Prima del nostro di d'Aide alle porte
Non calerem, benché ci opprima il duolo.
Su, finché cibo avemo, avem licore,
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182 ODISSEA (v. 231-266)
Non mettiamli in oblio ; nò all' importuna
Fame lasciamci consumar di dentro.
Quelli ubbidendo alle mie yocì, uscirò
IDelle latebre loro, e in riva al mare.
Che frumento non genera, venuti,
Stupian del cervo: sì gran corpo egli era!
E come sazi del mirarlo furo,
Ne apparecchiare non vulgar convito.
Sparse prima di chiara onda le palme.
Cosi tutto quel di sino all' occaso
Di carne opima e di fumoso vino
L'alma riconfortammo: il Sol caduto,
E comparse le tenebre, nel sonno
Ci seppellimmo al mormorio dell'onde.
Ma, sorta del mattin la rosea figlia.
Tutti io raccolsi a parlamento, e dissi :
Ct)mpagni, ad onta di guai tanti, udite.
Qui, d'onde l'Austro spira o l'Aquilone,
E in qual parte il Sole alza, in qual dechina.
Noto non è. Pur consultare or vuoisi,
Qual consiglio da noi prender si debba,
Se v'ha un consiglio: di che forte io temo.
Io d'in su alpestre poggio isola vidi
Cinta da molto mar, che bassa giace,
E nel cui mezzo un nereggiante fumo
D' infra un bosco di querce al ciel si volve.
Rompere a questo si sentirò il core,
D'Antifate membrando, e del Ciclope
La ferocia, i misfatti e le nefande
Della carne dell'uom mense imbandite.
Strida metteano, e discioglieansi in pianto.
Ma del pianto che prò? che delle strida?
Tutti in due schiere uguali io li divisi,
E diedi ad ambo un duce: all'una il saggio
Euriloco, e me all'altra. Indi nel cavo
Rame dell'elmo agitavam le sortii
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{j. 267^02) LIBRO X. 183
Ed Euriloco uscì, che in via si pose
Senza dimora. Ventidue compagni,
Lagrimando, il seguian; né affatto asciutte
Di noi, che rimanemmo, eran le guance.
Edificata con lucenti pietre
Di Circe ad essi la magion s* offerse,
Che vagheggiava una feconda valle.
Montani lupi e leon falbi, ch'ella
Mansuefatti avea con sue bevande,
Stavano a guardia del palagio, eccelso.
Né lop già s'avventavano; ma in vece
Lusingando scotean le lunghe code,
E su V anche s* ergeano. E quali i cani
Blandiscono il signor, che dalla mensa
Si leva, e ghiotti bocconcelli ha in mano;
Tal quelle di forte unghia orride belve
Gli ospiti nuovi, che smarriti al primo
Vederle s'arretraro, ivan blandendo.
Giunti alle porte, la Deessa udirò
Dai ben torti capei. Circe, che dentro
Canterellava con leggiadra voce.
Ed un'ampia tessea, lucida, fina,
Maravigliosa, immortai tela, e quale
Della man delle Dive uscir può solo.
Polite allor, d'uomini capo, e molto
Più caro e in pregio a me, che gli altri tutti,
Sciogliea tai detti: Amici, in queste mura
Soggiorna, io non so ben, se donna o Diva,
Che, tele oprando, del suo dolce canto
Tutta fa risentir la casa intorno.
Voce mandiamo a lei. Disse, e a lei voce
Mandare; e Circe di là tosto, ov'era,
Levossi, e apri le luminose porte,
E ad entrare invitavali. In un groppo
La seguian tutti incautamente, salvo
Euriloco, che fuor, di qualche inganno
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184 ODISSEA. (y. S03-338)
Sospettando, restò. La Dea li pose
Sovra splendidi seggi; e lor mescea
11 Pramnio vino con rappreso latte,
Bianca farina e mèi recente; e un succo
Giungeavi esizìal, perchè con questo
Della patria l'oblio ciascun bevesse.
Preso e votato dai meschini il nappo.
Circe batteali d'una verga, e in vile
Stalla chiudeali: avean di porco testa.
Corpo, setole, voce; ma lo spirto
Serbavan dentro, qual da prima, integro.
Così rinchiusi, sospirando, furo:
Ed ella innanzi a lor del cornio i frutti
Gettava, e della rovere e dell'elee,
De* verri accovacciati usato cibo.
Nunzio verace dell'infausto caso
Venne rapido Euriloco alla nave.
Ma non potea per iterati sforzi
La lingua disnodar: gonfi portava
Di pianto i lumi, e un violento duolo
L'alma gli percotea. Noi, figurando
Sventure nel pensier, con maraviglia
L'interrogammo; ed ei l'eccidio al fine
De* compagni narrò: Nobile Ulisse,
Attraversato delle querce il bosco.
Come tu comandavi, eccoci a fronte
Magion construtta di politi marmi,
Che di mezzo a una valle alto s'ergea.
Tessea dì- dentro una gran tela, e canto,
Donna o Diva chi il sa? stridulo alzava.
Voce mandaro a lei. Levossi, e aperse
Le porte, e ne invitò. Tutti ad un corpo
Nella magion disavvedutamente
Seguianla: io no, che sospettai di frode.
Svanirò insieme tutti; e per istarmi
Lungo ch'io feci, ad esplorare assiso,
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(y. 339^4) LiBKo X. 185
Traccia d'alcun di lor più non m'apparve.
Disse; ed io grande alle mie spalle, e acuta
Spada d'argento buUettata appesi,
Appesi un valid'arco, e ingiunsi a lui,
Che innanzi per la via stessa mi gisse.
Ma Euriloco, i ginocchi ad ambe mani
Stringendomi, e piangendo, Ah ! mal mio grado,
Con supplici gridò parole alate,
Là non guidarmi, o del gran Giove alunno,
Donde, non che altri ricondur, tu stesso
Ritornar non potrai. Fuggiam, fuggiamo
Senza indugio con questi, e la vicina
Parca schiviam, finché schivarla è dato.
Euriloco, io risposi, e tu rimanti,
Di carne e vino a riempirti il ventre,
Lungo la nave. Io, cui severa stringe
Necessitate, andrò. Ciò detto, a tergo
La nave negra io mi lasciava, e il mare.
Già per le sacre solitarie valli
Della Maga possente all'alta casa
Presso io mi fea, quando Mercurio, il Nume
Che arma dell'aureo caduceo la destra.
In forma di garzone, a cui fiorisce
Di lanugine molle il mento appena,
Mi venne incontro, e per la man mi prese,
E, Misero! diss'ei con voce amica,
Perchè ignaro de* lochi, e tutto solo.
Muovi cosi per queste balze a caso?
Sono in poter di Circe i tuoi compagni,
E li chiudon, quai verri, anguste stalle.
Venistù forse a riscattarli? Uscito
Dell'immagine tua penso che a terra
Tu ancor cadrai. Se non che trarti io voglio
Fuor d'ogni storpio, e in salvo porti. Prendi
Questo mirabil farmaco, che il tristo
Giorno dal capo tuo storni, e con esso
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186 ODISSEA (v. 375-410)
Trova il tetto di Circe, i cui perversi
Consigli tutti io t'aprirò. Bevanda
Mista, e di succo esiziale infusa.
Colei t'appresterà: ma le sue tazze
Centra il farmaco mio nulla varranno.
Più oltre intendi. Come te la Diva
Percosso avrà d'una sua lunga verga.
Tu cava il brando che ti pende al fianco,
E, di ferirla in atto, a lei t'avventa.
Circe, compresa da timor, sue nozze
T'offrirà pronta: non voler tu il letto
Della Dea ricusare, acciò ti sciolga
Gli amici, e amica ti si renda. Solo
Di giurarti costringila col grande
Degl'immortali Dei giuro, che nulla
Più non sarà per macchinarti a danno;
Onde, poiché t'avrà l'armi spogliate.
Del cor la forza non ti spogli ancora.
Finito il ragionar, l'erba salubre
Persemi già dal suol per lui divelta,
E la natura divisonne: bruna
N'ò la radice; il fior bianco di latte;
Moli i Numi la chiamano: resiste
Alla mano mortai, che vuol dal suolo
Staccarla; ai Dei, che tutto ponno, cede.
Detto, dalla boscosa ìsola il Nume
Alle pendici dell'Olimpo ascese;
Ed io vèr Circe andai; ma di pensieri
In gran tempesta m'ondeggiava il core.
Giunto alla Diva dalle belle trecce,
La voce alzai dall'atrio. Udimmi, e ratta
Levossi, e aprì le luminose porte,
E m'invitava; io la seguia non lieto.
Sovra un distinto d'argentini chiovi
Seggio a grand' arte fatto, e vago assaij
Mi pose: lo sgabello i piò reggea,
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(y. 411-446) LIBRO X. 187
Quindi con alma, ohe pensava mali,
La mista preparommi in aureo nappo
Bevanda incantatrice, ed io la presi
Della sua mano, e babbi; e non mi nocque.
Però in quel che la Dea me della lunga
Verga percosse, e, Vanne, disse, e a terra
Co* tuoi compagni nella stalla giaci:
Tirai dal fianco il brando, e centra lei,
Di trafiggerla in atto, io mi scagliai.
Circe, mandando una gran voce, corse
Rapida sotto il colpo, e le ginocchia
Con le braccia afferrommi, e queste alate
Parole mi drizzò non senza pianto:
Chi sei tu? donde sei? la Patria dove?
Dove i parenti a te? Stupor m'ingombra,
Che l'incanto bevuto in te non possa,
Quando io non vidi, cui passasse indarno
Per la chiostra de' denti il mio veleno.
Certo un'anima invitta in petto chiudi.
Sarestu forse quel sagace Ulisse,
Che Mercurio a me sempre iva dicendo
Dover d'Ilio venir su negra nave?
Per fermo sei. Nella vagina il brando
Riponi, e sali il letto mio: dal core
D'entrambi ogni sospetto amor bandisca.
Circe, risposi, che da me richiedi?
Io cortese vèr te, che sozze belve
Mi trasformasti gli uomini? Rivolgi
Tacite frodi entro te stessa: ed io
La tua penetrerò stanza secreta.
Onde, poiché m'avrai l'armi spogliate.
Del cor la forza tu mi spogli ancora?
No, se non giuri prima, e con quel grande
Degl'immortali Dei giuro che nulla
Più non sarai per macchinarmi a danno.
Dissi; e la Dea giurò. Di Circe allora
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188 ODISSEA (v. 447-482>
Le belle io salsi maritali piume.
Quattro serviaDo a lei nel suo palagio
Di quelle Ninfe che dai boschi nate
Sono, o dai fonti liquidi, o dai sacri.
Che devolvonsi al mar, rapidi fiumi.
L'una gittava su i politi seggi
Bei tappeti di porpora, cui sotto
Bei tappeti mettea di bianco lino:
L'altra mense d'argento innanzi ai seggi
Spiegava, e d'oro v'imponea canestri:
Mescea la terza nell'argentee brocche
Soavissimi vini, e d'auree tazze
Copria le mense: ma la quarta il fresco
Fonte recava, e raccendea gran fuoco
Sotto il vasto treppiè, che l'onda cape.
Già fervea questa nel cavato bronzo,
E me la Ninfa guidò al bagno, e l'onda
Pel capo mollemente e per le spalle
Spargermi non cessò, ch'io mi sentii
Di vigor nuovo rifiorir le membra.
Lavato ed unto di licor d'oliva,
E di tunica e clamide coverto,
Sovra un distinto d'argentini chiovi
Seggio a grand' arte fatto, e vago assai
Mi pose: lo sgabello i pie reggea.
E un'altra Ninfa dal bel vaso d'oro
Purissim' acqua nel bacil d'argento
Mi versava, e stendeami un liscio desco,
Ohe di candido pane e di serbate
Dapi a fornir la dispeusiera venne.
Cibati, mi dicea la veneranda
Dispensiera, ed instava: ed io, d'ogni esca
Schivo, in altri pensieri, e tutti foschi,
Tenea la mente, pur sedendo, infissa.
Circe, ratto che avvidesi cL'io mesto
Non mi curava della mensa punto,
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(v. 483-518) LifeRO X. 18d
Con queste m'appressò voci sul labbro:
Perchè così, qual chi non ha favella.
Siedi, Ulisse, struggendoti, e vivanda
Non tocchi, né bevanda? In te sospetto
S'annida forse di novello inganno?
Dopo il mio giuramento a torto temi.
Ed lo : Circe, qual mai retto uomo e saggio
Vivanda toccheria prima, o bevanda.
Che i suoi vedesse riscattati e salvi?
Fa' che liberi io scorga i miei compagni,
Se vuoi che della mensa io mi sovvegna.
Circe usci tosto con in man la verga,
E della stalla gì' infelici trasse.
Che di porci novenni avean l'aspetto.
Tutti le stavan di rincontro; e Circe,
D'uno all'altro passando, un prezioso
Sovra lor distendea benigno unguento.
Gli odiati peli, che la tazza infesta
Produsse, a terra dalle membra loro
Cadevano; e ciascun più, che non era,
Grande apparve di corpo, e assai più fresco
D'etade in faccia e di beltà più adorno.
Mi ravvisò ciascuno, ed afferrommi
La destra; e un cosi tenero e si forte
Compianto si levò« che la magione
Ne risonava orrendamente, e punta
Sentiasi di pietà la stessa Maga.
Ella, standomi al fianco, sovrumano
Di Laerte fìgliuol, provvido Ulisse,
Corri, diceami, alla tua nave, e in secco
La tira, e cela nelle cave grotte
Le ricchezze e gli arnesi: indi a me torna,
E i diletti compagni adduci teco.
M' entrò il suo dir nell'alma. Al lido io corsi,
E i compagni trovai, che appo la nave
Di lagrime nutrìansi e di sospiri,
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Ì9Ò ODISSEA (v. 519-554)
Come, se riedon le satolle vacche
Dai verdi prati al rusticale albergo,
I vitelli saltellano, e alle madri,
Che più serraglio non ritienli o chiostra ,
Con frequente muggir corrono intorno:
Così con pianto a me, vistomi appena,
Intorno s'aggiravano i compagni,
E quei mostravan su la faccia segni,
Che vi si scorgerian, se il dolce nido,
Dove nacquero e crebbero, se l'aspra
Itaca avesser tocca. 0, lagrimando
Dìcean, di Giove alunno, una tal gioia
Sarebbe a stento in noi, se ci accogliesse
I)* Itaca il porto. Ma, su via, l'acerbo
Fato degli altri raccontar ti piaccia.
Ed io con dolce favellar: La nave
Si tiri in secco, e nelle cave grotte
Le ricchezze si celino e gli arnesi.
Poi seguitemi in fretta; ed i compagni
Nel tetto sacro dell'illustre Circe
Vedrete assisi ad una mensa, in cui
Di là d'ogni desio la copia regna.
Pronti obbedirò. Ripugnava Euriloco
Solo, ed or questo m'arrestava, or quello.
Gridando: Sventurati, ove ne andiamo?
Qual mai vi punge del disastro sete,
Che discendiate alla Maliarda, e vòlti
Siate in leoni, in lupi, o in sozzi verri, .
II suo palagio a custodir dannati?
L'ospizio aveste del Ciclope, quando
Calaro i nostri nella grotta, e questo
Prode Ulisse guidavali, di cui
Morte ai miseri fu lo stolto ardire.
Così Euriloco; ed io la lunga spada
Cavar pensai della vagina, e il capo
Dal busto ai pie sbalzargli in su la polve,
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(v. 555-590) tiBRo X. 191
Benché vincol di sangue a me 1* unisse.
Ma tutti quinci riteneanmi, e quindi
Con favella gentil: Di Giove alunno,
Costui sul lido, se ti piace, in guardia
Della nave rimangasi, e alla sacra
Magion noi guida. Detto ciò, dal mare
Meco venian, né restò quegli indietro:
Tanto della minaccia ebbe spavento.
Cura prendeasi Circe in questo mezzo
Degli altri, che lavati, unti, e di buone
Tuniche cinti e di bei manti furo.
Seduti a mensa li trovammo. Come
Si sguardaro Tun Taltro, e sul passato
Con la mente tornare, in pianti e in grida
Davano; ne gemean pareti e volte,
M'appressò allora e mi parlò in tal guisa
L'inclita tra le Dive: di Laerte
Gran prole, o ricco di consigli Ulisse,
Modo al dirotto lagrimar si ponga.
Noto è a me pur, quanti nel mar pescoso
Duraste affanni, e so le crude offese
Che vi recaro in terra uomini ostili.
Su via, gioite omai, finché nel petto
Vi rinasca Tardir, ch'era in voi, quando
Itaca alpestre abbandonaste in prima.
Bassi or gli spirti avete, e freddo il sangue
Per la memoria de* viaggi amari
Nelle menti ancor viva, e l'allegrezza
Disimparaste tra cotanti guai.
Agevolmente ci arrendemmo. Quindi
Pel continuo rotar d'un anno intero
Giorno non ispuntò, che a lauta mensa
Me non vedere e i miei compagni in festa.
Ma, rivolto già l'anno, e le stagioni
Tornate in sé col variar de* mesi.
Ed il cerchio dei dì molti compiuto,
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192 ODISSEA (v. 591-626)
I compagni, traendomi in disparte, «
Infelice! mi dissero, del caro
Cielo nativo e delle avite mura
Non ti rammenterai, se vuole il fato
Che in vita tu rimanga, e le rivegga?
Sano avviso mi parve. Il Sol caduto,
E coverta di tenebre la terra.
Quei si corcare per le stanze; ed io.
Salito il letto a maraviglia bello
Di Circe, supplichevoli drizzai
Alla Dea, che m'udì, queste parole:
Attiemmi, o Circe, le impromesse* e al caro
Rendimi natio ciel, cui sempre vola.
Non pure il mio, ma de' compagni il core.
De' compagni, che stanno a me d'intorno,
Sempre che tu da me t'apparti, e tutta
Con le lagrime lor mi struggon l'alma.
di Laerte sovrumana prole.
La Dea rispose, ritenervi a forza
Io più oltre non vo'. Ma un'altra via
Correre in prima è d'uopo : è d'uopo i foschi
Di Pluto e di Proserpina soggiorni
Vedere in prima, e interrogar lo spirto
Del Teban vate, che, degli occhi cieco.
Puro conserva della mente il lume;
Di Tiresia, cui sol die Proserpina
Tutto portar tra i morti il senno antico.
Gli altri non son che vani spettri ed ombre.
Rompere il core io mi sentii. Piagnea,
Su le piume giacendomi, né i raggi
Yolea del Sol più rimirare. Al fine.
Poiché del pianger mio, del mio voltarmi
Su le piume io fui sazio. Or qual, ripresi,
Di tal viaggio sarà il duce? All'Orco
Nessun giunse fìnor su negra nave.
Per difetto di guida, ella rispose,
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(v. 627-662) LIBRO x. 193
Non t'annoiar. L'albero alzato, e aperte
Le tae candide vele, in su la poppa
T'assidi, e spingerà Borea la nave.
Come varcato l'Oceano avrai.
Ti appariranno i bassi lidi, e il folto
Di pioppi eccelsi e d'infecondi salci
Bosco di Proserpìaa; a quella piaggia,
Che rOceàtt gorghiprofondo batte.
Ferma il naviglio, e i regni entra di Pluto.
Rupe ivi s'alza, presso cui due fiumi
S'urtan tra lor romoreggiando, e uniti
Nell'Acheronte cadono: Cocito,
Ramo di Stige, e Piriflegetonte.
Appressati alla rupe, ed una fossa.
Che un cubito si stenda in lungo e in largo.
Scava, o prode, tu stesso; e mèi con vino,
Indi vin puro e limpidissim'onda
Vèrsavi, a onor de' trapassati, intorno,
E di bianche farine il tutto aspergi.
Poi degli estinti prega i frali e vóti
Capi, e prometti lor che nel tuo tetto.
Entrato con la nave in porto appena,
Vacca infeconda, dell'armento fiore,
Lor sagrificherai, di doni il rogo
Riempiendo; e che al sol Tiresia, e a parte
Immolerai nerissimo ariete.
Che della greggia tua pasca il più bello.
Compiute ai Mani le preghiere, uccidi
Pecora bruna, ed un monton, che all'Orco
Volgan le fronte: ma converso tieni
Del fiume alla corrente in quella il viso.
Molte Ombre accorreranno. A* tuoi compagni
Le già sgozzate vittime e scoiate
Mettere allor sovra la fiamma, e ai Numi,
Al prepotente Pluto e alla tremenda
Proserpina drizzar voti comanda.
DigitizedbyVjOnQie
194 ODISSEA (v. 663-698)
E tu col brando sguainato siedi^
Nò consentir che anzi che parli al vate,
I Mani al sangue accostinsi. Repente
II profeta verrà, Duce di genti.
Che sul viaggio tuo, sul tuo ritorno
Pel mar pescoso alle natie contrade
Ti darà, quanto basta, indizio e lume.
Così la Diva; e d'in su l'aureo trono
L'Aurora comparì. Tunica e manto
Circe stessa vestimmi; a so ravvolse
Beila, candida, fiaa ed ampia gonna;
Si strinse al fianco un'aurea fascia, e un vago
Su i ben torti capei velo s'impose.
Ma io, passando d'una in altra stanza.
Confortava i compagni, e ad uno ad uno
Con molli detti gli abbordava: Tempo
Non è più da sfiorare i dolci sonni.
Partiamo, e tosto. Il mi consiglia Circe.
Si levaro e obbedirò. Ahi che ne quinci
Mi si concesse ricondurli tutti !
Un Elpenore v'era, il qual d 'e tate
Dopo gli altri venia, poco nell'armi
Forte, né troppo della mente accorto.
Caldo del buon licore, onde irrigossi.
Si divise dagli altri, ed al palagio
Mi si corcò, per rinfrescarsi, in cima.
Udito il suon della partenza, e il moto,
Riscossesi ad un tratto, e, per la lunga
Scala di dietro scendere obliando.
Mosse di punta so'vra il tetto e cadde
Precipite dall'alto : il collo ai nodi
Gli s'infranse, e volò l'anima a Dite.
Ragunatisi i miei. Forse, io lor dissi,
Alle patrie contrade andar credete.
Ma un altro pria la venerabil Diva
Ci destinò cammin, che ai foschi regni
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(v. 699-713) LIBRO X. 195
Di Pluto e dì Proserpina condace,
Per quivi interrogar del rinomato
Teban Tiresia Tindovioo spirto.
Duol mortale gli assalse a questi detti.
Piangeano, e fermi rimanean lì lì,
E la chioma stracciavansi : ma indarno
Lo strazio della chioma era, ed il pianto.
Mentre al mar tristi tendevamo, e spesse
Lagrime spargevam, Circe, che in via
Pur s'era posta, alla veloce nave
Legò la bruna pecora e il montone.
Ci oltrepassò, che non ce ne avvedemmo,
Con pie leggero. Chi potria de' Numi
Scorgere alcun che qua o là si mova,
Quando dall'occhio uman voglion celarsi?
LIBRO DECIMOPRIMO
ARGOMENTO «^
Ulisse, continuando la sua narrazione, giunge ai Cimmeri, e
▼a neirinferno. — Compiute le debite cerimonie, gli appa-
riscono le Ombre de* morti ; e quella d'Elpenore è la prima
con cui favella. — Poi Tiresia l' informa de' venturi suoi
casi, e gl'insegna come superarli. — Apparizion della ma-
dre, dalia quale intende lo stato della propria famiglia. —
Vengon poi le antiche eroine . e appresso gli eroi , tra i
quali Agamennone, Achille . ad Aiace, — Finètlmente vede
Minosse, Tizio. Tantalo, Sisifo ed Ercole: finché, preso d^
timore, ritorna in fretta alla nave.
Giunti al divino mare, il negro legno
Prima varammo, albero ergemmo e vele,
E prendemmo le vittime, e nel cavo
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196 ^ ODISSEA (v. 4-39)
Legno lo introducemmo: indi col molto
Terrore e pianto v'entravam noi stessi.
La dal crin crespo e dal canoro labbro
Dea veneranda un gonfìator di vela
Vento in poppa mandò, che fedelmente
Ci accompagnava per Tondosa via :
Tal che oziosi nella ratta nave
Dalla cerulea prua giacean gli arnesi,
E noi tranquilli sedevam, la cura
Al timonier lasciandone, ed al vento.
Quanto il dì risplendè, con vele sparse
Navigavamo. Spento il giorno, e d'ombra
Ricoperte le vie, dell'Oceano
Toccò la nave i gelidi confini.
Là 've la gente de' Cimmeri alberga,
Cui nebbia e buio sempiterno involve.
Monti pel cielo stelleggiato, o scenda.
Lo sfavillante d'or Sole non guarda
Quegl'infelici popoli, che trista
Circonda ognor pernizì'osa notte.
Addotto in su l'arena il buon naviglio,
E il mont(Jte e la pecora sbarcati.
Alla cor^enxe dell'Oceano in riva
Camminavam, finché venimmo ai lochi
Che la Dea c'insegnò. Quivi per mano
Euriloco teneano e Perimede
Le due vittime ; ed io, fuor tratto il brando,
Scavai la fossa cubitale, e mèle
Con vino, indi vin puro e lucid'onda
Versàivi, a onor de* trapassati, intorno,
E di bianche farine il tutto aspersi.
Poi degli estinti le debili teste
Pregai, promisi lor che nel mio tetto,
Entrato con la nave in porto appena.
Vacca infeconda, dell'armento fiore,
Lor sagrifìcherei, di doni il rogo
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(v. 4045) LIBRO XI. 197
Riempiendo ; e che al sol Tiresia, e a parte,
Immolerei nerissimo ariete,
Che della greggia mia pasca il più bello.
Fatte ai Mani le preci, ambo afferrai
Le vittime e sgozzàile e in su la fossa, .
Che tutto riceveane il sangue oscuro.
Ed ecco sorger della gente morta
Dal piti cupo deirErebo, e assembrarsi
Le pallid'Ombre : giovanetto spose,
Garzoni ignari delle nozze, vecchi
Da nemica fortuna assai versati,
E verginelle tenere, che impressi
Portano i cuori di recente lutto;
E molti dalle, acute aste guerrieri
Nel campo un dì feriti, a cui rosseggia
Sul petto ancor l'insanguinato usbergo :
Accorrean quinci e quindi, e tanti a tondo
Aggiravan la fossa, e con tai grida,
Ch*io ne gelai per subitana tema.
Pure a Euriloco ingiunsi, e a Perimede
Le già scannate vittime e scoiate
Por su la fiamma, e molti ai Dei far voti.
Al prepotente Pluto e alla tremenda
Proserpina : ma io col brando ignudo
Sedea, né consentia che al vivo sangue,
Pria ch'io Tiresia interrogato avessi,
S'accostasser dell'Ombre i vóti capi.
Primo ad offrirsi a me fu il simulacro
D'Elpenore, di cui non richiudea
La terra il corpo nel suo grembo ancora.
Lasciato in casa l'avevam di Circe
Non sepolto cadavere e non pianto:
Ghè incalzavaci allor diversa cura.
Pianse a vederlo, e ne sentii pleiade,
E, con alate voci a lui converso,
Elpenore, diss'io, come scendesti
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198 ODISSEA (v. 76-111)
Neiroscura caligine? Venisti
Più ratto a pie, ch'io su la negra nave.
Ed ei, piangendo: o di Laerte egregia
Prole, sagace Ulisse, un nequitoso
Demone avverso, e il molto vin m*offese.
Stretto dal sonno alla magione in cima,
Men disciolsi ad un tratto ; e, per la lunga
Di calar non membrando interna scala,
Mossi di punta sovra il tetto, e d'alto
Precipitai; della cervice i nodi
Ruppersi, ed io volai qua con lo spirto.
Ora io per quelli da cui lungo vivi,
Per la consorte tua, pel vecchio padre.
Che a tanta cura t'allevò bambino.
Pel giovane Telemaco, che dolce
Nella casa lasciasti unico germe,
Ti prego, quando io so che alla Circèa
I^ola il legno arriverai di nuovo.
Ti prego che di me, signor mio, vogli
Là ricordarti, onde io non resti, come
Della partenza spiegherai le vele.
Senza lagrime addietro e senza tomba,
E tu venghi per questo ai Numi in ira.
Ma con quell'armi, ch'io vestia, sul foco
Mi poni, e in riva del canuto mare
A un misero guerrier tumulo innalza.
Di cui favelli la ventura etade.
Queste cose m'adempi ; ed il buon remo.
Ch'io tra i compagni mìei, mentre vivea,
Solca trattar, sul mio sepolcro infiggi.
Sventurato, io risposi, a pien fornita
Sarà, non dubitarne, ogni tua voglia.
Cosi noi sedevam, meste parole
Parlando alternamente, io con. la spada
Sul vivo sangue ognora, e a me di centra
La forma lieve del compagno, a cui
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(v. 112-147) LIBRO XI. 199
Suggeria molti accenti il suo disastro.
Comparve in questo dell'antica madre
L'Ombra sottile, d'Anticlèa, che nacque
Dal magnanimo Autòlico, e a quel tempo
Era tra i vivi, ch'io per Troia sciolsi.
La vidi appena, che pietà mi strinse,
E il lagrimar non tenni : ma né a lei,
Quantunque men dolesse, io permettea
Al sangue atro appressar, se il vate prima
Favellar non s'udì a. Levossi al fine
Con l'aureo scettro nella man famosa
L'alma Tebana di Tiresia, e ratto
Mi riconobbe, e disse : Uomo infelice.
Perchè, del Sole abbandonati i raggi,
'Le dimore inamabili de' morti
Scendesti a visitar? Da questa fossa
Ti scosta, e torci in altra parte il brando,
Sì ch'io beva del sangue, e il ver ti narri.
Il pie ritrassi, e invaginai l'acuto
D'argentee borchie tempestato brando.
Ma ei, poiché bevuto ebbe, in tal guisa
Movea le labbra : Rinomato Ulisse,
Tu alla dolcezza del ritorno aneli,
E un Nume invidioso il ti contende.
Come celarti da Nettun, che grave
Contra te concepì sdegno nel petto
Pel figlio, a cui spegnesti in fronte l'occhio?
Pur, sebbene a gran pena, Itaca avrai,
Sol che te stesso e i tuoi compagni affreni,
Quando, tutti del mar vinti i perigli.
Approderai col ben formato legno
Alla verde Trinacria isola, in cui
Pascon del Sol, che tutto vede ed ode,
I nitidi montoni e i buoi lucenti.
Se pasceranno illesi, e a voi non caglia
Che della Patria, il rivederla dato,
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200 ODISSEA (v. 148-183)
Benché a stento, vi £a. Ma, dove osiate
Lana o corno toccargli, eccidio a' tuoi,
E alla nave io predico, ed a te stesso.
E, ancor che morte tu schivassi, tardo
Fora, ed infausto, e senza un sol campagno,
E su nave straniera il tuo ritorno.
Mali oltra ciò t'aspetteranno a casa:
Protervo stuol di giovani orgogliosi.
Che ti spolpa, ti mangia e alla divina
Moglie con doni aspira. È ver che a lungo
Non rimarrai senza vendetta. Uccisi
Dunque o per frode, o alla più chiara luce.
Nel tuo palagio i temerari amanti,
Prendi un ben fatto remo, e in via ti metti :
Nò rattenere il pie, che ad una nuova
Gente non sii, che non conosce il mare,
Né cosperse di sai vivande gusta.
Né delle navi dalle rosse guance,
de* politi remi, ale di nave.
Notizia vanta. Un manifesto segno
D'esser nella contrada io ti prometto,
Quel dì che un altro pellegrinn, a cui
T'abbatterai per via, te quell'arnese,
Con che al vento su l'aia il gran si sparge,
Portar dirà su la gagliarda spalla,
Tu repente nel suol conficca il remo.
Poi, vittime perfette a re Nettuno
Svenate, un toro, un ariete, un verro,
Riedi, e del cielo agli abitanti tutti
Con l'ordine dovuto offrì ecatombe
Nella tua reggia, ove a te fuor del mare,
E a poco a poco da muta vecchiezza
Mollemente consunto, una cortese
Sopraverrà morte tranquilla, mentre
Felici intorno i popoli vivranno.
L'oracol mio, che non t'inganna, è questo.
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V. 184-219) LifeRo il. 201
Tiresia, io rispondea, cosi prescritto
[Chi dubbiar ne potrebbe?) banno i Celesti;
Ma ciò narrami ancora: io della madre
L'ani aia scorgo, cbe tacente siede
A.ppo la cava fossa, e d*ano sguardo ,
Non cbe d*un motto, il suo figliuol non degna.
Che far degg'io perchè mi riconosca?
Ed egli: Troppo bene io nella mente
Lo ti porrò. Quai degli spirti al sangue
Non difeso da te giuDger potranno,
Sciorran parole non bugiarde: gli altri
Da te si ritrarranno taciti indietro.
Svelate a me tai cose, in seno a Dite
Del profetante Re Talma s'immerse.
Ma io di là non mi togliea. La madre
S'accostò intanto, né del negro sangue
Prima beve, che ravvisommi, e queste
Mi drizzò lagrimando alate voci:
Deh come, figliuol mio, scendestu vivo
Sotto l'atra caligine,? Chi vive.
Diffìcilmente questi alberghi mira,
Però che vasti fiumi e paurose
Correnti ci dividono, e il temuto
Oceàn, cui varcare ad uom non lice,
Se noi trasporta una dedalea nave.
Porse da Troia, e dopo molti errori, '
Con la nave e i compagni a questo baio
Tu vieni? Né trovar sapesti ancora
Itaca tua? né della tua consorte
Riveder nel palagio il caro volto?
madre mia, necessità, risposi,
L'alma indovina a interrogar m'addusse
Del tebano Tiresia. 11 suolo acheo
Non vidi ancor, né i liti nostri attinsi:
Ma vo ramingo, e dalle cure oppresso.
Dappoi cbe a Troia ne' puledri bella
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202 ót)issÉA (v. 220-255
Seguii, per disertarla, il primo Atride.
Su via, mi narra, e schiettamente, come
Te la di lunghi sonni apportatrice
Parca domò. Ti vinse un lungo morbo,
te Diana faretrata assalse
Con improvvisa non amara freccia?
Vive Taiitico padre, il figlio vive, .
Che in Itaca io lasciai? Nelle man loro
Resta, passò ad altrui la mia ricchezza,
E ch*io non rieda più, si fa ragione?
E la consorte mia qual cor, qaal mente
Serba? Dimora col fanciullo, e tutto
Gelosamente custodisce, o alcuno
Tra i primi degli Achei forse impalmolla?
Riprese allor la veneranda madre:
La moglie tua non lasciò mai la soglia
Del tuo palagio; e lentamente a lei
Scorron nel pianto i dì, scorron le notti.
Stranier nel tuo retaggio, in sin eh* io vissi.
Non entrò: il figlio su i paterni campi
Vigila in pace, e alle più illustri mense.
Cui l'invita ciascuno, e che non dee
Chi naeque al regno dispregiar, s'asside.
Ma in villa i dì passa Laerte, e mai
A cittade non vien; colà non letti.
Non coltri, o strati sontuosi, o manti.
Di vestimenta ignobili coverto
Dorme tra i servi al focolare il verno
Su la pallida cenere ; e se torna
L'arida estate, o il verdeggiante autunno,
Lettucci umili di raccolte foglie
Stesi a lui qua e là per la feconda
Sua vigna preme travagliato, e il duolo
Nutre piangendo la tua sorte ; arrogi,
La vecchiezza increscevole che il colse.
Non altrimenti de' miei stanchi giorni
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7, 236-291) LIBRO il. 203
riunse il termine a me, cui non Diana,
lagittaria infallibile, di un sordo
Quadrello assalse, o di que' morbi invase,
)he sogìion trar delle consunte membra
i'anima fuor con odiosa tabe:
la il desio di vederti, ma Taffanno
)ella tua lontananza, ma i gentili
lodi e costumi tuoi, nobile Ulisse,
ia vita un di si dolce hannomi tolta.
Io, pensando tra me, l'estinta madre
rolea stringermi al san: tre volte- corsi,
luale il mio cor mi sospingea, ver lei,
S tre volte m'uscì fuor delle braccia,.
Jorne nebbia sottile, o lieve sogno.
3ura più acerba mi trafìsse ; e ratto,
Lhi, madre, le diss'io, perchè mi sfuggi
)'al)bracciarti bramoso, onde anco a Dite,
jQ man gittando Tun dell'altro al collo,
)i duol ci satolliamo ambi, e di pianto?
fantasma vano, acciò sempre io m'anga,
^'orse l'alta Proserpina mandommi ;
O degli uomini tutti il più infelice.
La veneranda genitrice aggiunse,
Nfo, l'egregia Proserpina, di Giove
La figlia^ non t'inganna. É de' mortali
Pale il destin, dacché non son più in vita,
Che i muscoli tra sé, l'ossa ed i nervi
Non si congiungan più: tutto consuma
La gran possanza dell'ardente foco.
Come prima le bianche ossa abbandona,
E vagola per l'aere il nudo spirto.
Ma tu d'uscire alla superna luce
Da questo buio affretta; e ciò che udisti,
E porterai noiranima scolpito.
Penelope da te risappia un giorno.
Mentre cosi favellavam, sospinte
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204 ODISSEA (v. 292-327
Dairinclita Proserpina le figlie
Degli eroi compariano, e le consorti,
E traean dalla fossa al margo in folla.
Io, come interrogarle ad una ad una
Rivolgea meco; e ciò mi parve il meglio.
Stretta la spada, non patia che tutte
Beessero ad un tempo. Alla sua volta
Così accorrea ciascuna, e l'onorato
Lignaggio ed i suoi casi a me narrava.
Prima s'appresentò l'illustre Tiro,
Che del gran Salmonèo figlia, e consorte
Di Creteo, un de* fìgliuoi d'Eolo, sé disse.
Costei d'un fiume nell'amore accesa,
Dell'Enipèo diyin, che la più bella
Sovra i più ameni campi onda rivolve.
Spesso a bagnarsi in quegli argenti entrava.;
L'azzurro Nume che la terra cinge, ,
Nettuno, iu forma di quel Dio, corcossi '
Delle sue vorticose acque alla foce ;
E la porporeggiante onda d'intorno
Gli stette, e in arco si piegò, qual monte, j
Lui celando, e la giovane, cui tosto
Sciols'ei la zona virginale, e in casto '
Sopore infuse. Indi per man la prese,
E chiamolla per nome, e tai parole
Le feo : Di questo amor, donna, t'allegra.
Compiuto non avrà l'anno il suo giro.
Che diverrai di bei fanciulli madre,
Quando vane giammai degl'Immortali
Non riescon le nozze. I bei fanciulli
Prendi in cura, e nutrisci. Or vanne, e sappi,
Ma il sappi sola, che tu in me vedesti
Nettuno, il Nume che la terra scuote.
Disse ; e ne' gorghi suoi l'accolse il mare.
Ella di Neleo e Pelia, ond'era grave,
S'alleviò. Forti del sommo Giove '
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'. 328-363) LIBRO XI. 205
[inistri, Tun nell'arenosa Pib,
ell'ampia l'altro, e di feconde gregge
jcca laolco, ebbe soggiorno e scettro,
uindi altra prole, Eson, Perete, e il chiaro
omator di cavalli Àmitaòne,
lede a Creteo costei, che delle donna
«eina parve alla sembianza e agli atti.
Poi d*Asòpo la figlia. Antiopa, venne,
he deiramor di Giove andò superba,
1 due figli creò, Zeto e Anfione.
'ebe costoro dalle sette porte
*rimi fondare, e la munir di torri :
he mal potean la spaziosa Tebe
enza torri guardar, benché gagliardi.
Venne d'Amfitrìon la moglie, Alcmena,
'he al Saturnide l'animoso Alcide,
ior di leone, partorì. Megara,
»i Creonte magnanimo figliuola,
1 moglie dell'invitto Ercole, venne.
D'Edipo ancor la genitrice io vidi,
la leggiadra Epicasta, che nefanda
*er cecità di mente opra commise,
l'uom disposando da lei nato. Edippo
•a man, con che avea prima il padre ucciso,
^orse alla madre : né celaro i Dei
'al misfatto alle genti. Ei per crudele
''oler de* Numi nell'amena Tebe
addolorato su i Cadmei regnava,
fa la donna, cui vinse il proprio affanno,
/infame nodo ad un'eccelsa trave
legato, scese alla magion di Fiuto
>alle porte infrangibili, e tormenti
lasciò indietro al figliuol, quanti ne danno
•e nitrici Furie, che una madre invoca.
Vidi colei non men, che ultima nacque
dl'Iasìde Anfion, cui l'arenosa
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206 ODISSEA (v. 364-3
Pilo negli anni andati, e il Minieo
Orcomeno ubbidia; l'egregia Glori,
Che Neleo di lei preso a sé congiunse ,
Poscia che egli ebbe di dotali doni
La verdine ricolma. Ed ella il feo
Ricco di vaga e di lui degna prole.
Di Nestore, di Cromie, e dell' eroe
Perieli meno; e poi di quella Pero,
Che maraviglia fu d'ogni mortale.
Tutti i vicini la chiedean: ma il padre
Sol concedeala a chi le belle vacche
Dalla lunata spaziosa fronte,
Che appo sé riteneasi il forte Ificle,
Gli rimenasse, non leggiera impresa,
Dai pascoli di Filaca. L'impresa
Melampo asunse, un indovino illustre;
Se non che a lui s'attraversaro i fati,
E pastori salvatichi, da cui
Soffrir dovè d'aspre catene il pondo.
Ma non prima, già in sé rivolto l'anno,
I mesi succedettersi ed i giorni,
E compier le stagioni il corso usato,
Che Ificle, a cui gli oracoli de'Numi
Svelati aveva l'irreprensibil vate,
I suoi vincoli ruppe, e così al tempo
L'alto di Giove s'adempia consiglio.
Leda comparve da cui Tindaro ebbe
Due figli alteri, Castore e Polluce,
L'un di cavalli domatore, e l'altro
Pugile invitto. Benché l'alma terra
Ritengali nel sen, di vita un germe
(Cosi Giove tra l'Ombre anco gli onora)
Serbano: ciascun giorno, e alternamente,
Riapron gli occhi, e chiudonli alla luce,
E gloriosi al par van degli Eterni.
Dopo costei mi si parò davanti
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(v. 400-435) LIBRO XI. 207
D'Aloèo la consorte, Ifimidèa,
Cqì di dolce d'amor nodo si strinse
Lo Scotifcerra. Ingenerò due figli,
Oto a un Dio pari, e Tinclito Ifialte,
Che la luce del Sol poco fruirò^
Né di statura ugual, né di beltade,
Altri nodrì la comun madre antica.
Sol che fra tutti d'Orlon si taccia.
Non avevan tocco il decim'anno ancora.
Che in largo nove cubiti, e tre volte
Tanto cresciuti erano in lungo i corpi.
Questi volendo ai sommi Dei su l'etra
Nuova portar sediziosa guerra,
L'Ossa sovra l'Olimpo, e sovra l'Ossa
L'arborifero Polio impor tentare.
Onde il cielo scalar di monte in monte ;
E il fean, se i volti pubertà infiorava:
Ma di Giove il figliuolo e di Latona
Sterminolli ambo, che del primo pelo
Le guance non ombravano, ed il mento.
Fedra comparve ancor, Procri e Arianna,
Che l'amante Teseo rapì da Creta,
E al suol fecondo della sacra Atene
Condur volea. Vane speranze! In Nasse,
Cui cinge un vasto mar, fu da Diana,
Per indizio di Bacco, aggiunta e morta.
Né restò Mera inosservata indietro.
Né elimino restò, né l'abborrita
Erifìle, che il suo diletto sposo
Per un aureo monil vender poteo.
Ma dove io tutte degli eroi le apparse
Figlie nomar volessi, e le consorti,
Pria mancheriami la divina Notte,
E a me par tempo da posar la testa
in nave o qui, tutta del mio ritortìo
Ai Celesti lasciando, e a voi, la cura.
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208 ODissBA (v. 436-471)
Tacque. I Feaci per roscura sala
Stavansi muti, e nel piacere assorti.
Ruppe il silenzio rimmortal Regina,
La bracciobianca Arete: Feacesi,
Che Ti par di costui? del suo sembiante?
Della maschia persona? e di quel senno
Che in lui risiede ? Ospite è mio, ma tutti
Dell'onor, eh' io ricevo, a parte siete.
Non congedate in fretta, e senza doni.
Chi nulla tien, voi, che di buono in casa
Per favor degli Dei tanto serbate.
Qui favellò Echenèo, che gli altri tutti
Vincea d'etade : Fuor del segno, amici,
Arete non colpi con la sua voce.
Obbediscasi a lei, se non che prima
Del Re l'esempio attenderemo, e il detto.
Ciò sarà ch'ella vuole, Alcinoo disse,
Se vita e scettro a me lascian gli Dei. |
Ma, benché tanto di partir gli tardi,
L'ospite indugi sino al nuovo Sole,
Sì ch'io tutti ì regali insieme accoglia.
Cura esser dee comun che lieto ei parta,
E più, che d'altri, mia, s'io qui son primo.
Alcinoo re, che di grandezza e fama.
Riprese Ulisse, ogni mortale avanzi,
Sei mesi ancor mi riteneste, e sei,
E fida scorta intanto e ricchi doni
M'apparecchiaste, io non dovrei sgradirlo:
Che quanto io tornerò con man piti piene
A' miei sassi natii, tanto la gente
Con piti onore accorrammi e con più affetto.
Ed Alcinoo in risposta : Allora, Ulisse,
Che ti adocchiamo un impostor fallace, |
D'alte menzogne inaspettato fabbro, j
Scorger non sospettiam, quali benigna
La terra qua e là molti ne pasce.
Digitizedby Google " ;
r. 4'72.507) libUO xt. à06
iCggiadria di parole i labbri t'orna,
^è prudenza minor t'alberga in petto.
>'opre de' Greci e le tue doglie, quasi
*o spirto della Musa in te piovesse,
•ì narrasti così, ch'era un vederle.
)eh siegui, e dimmi, se t'apparve alcuno
)i tanti eroi che veleggiar© a Troia
'eco, e spenti rimaser vi. La Notte
Jon lenti passi or per lo ciel cammina,
!!, finché ci esporrai stupende cose,
^on fia chi del dormir qui si rammenti.
tuando parlar di te sìdo all'aurora
ri consentisse il duo!, sino all'aurora
o penderei dalle tue labbra immoto.
V'ha un tempo, Alcinoo, di racconti, ed havvi,
Jlisse ripigliò, di sonni un tempo,
'he se udir vuoi più avanti, io non ricuso
lia sorte di color molto piti dura
Rappresentarti, che scampar dai rischi
)'una terribil guerra, e nel ritorno,
^olpa d'una rea donna, ohimè!, perirò.
Poiché le femminili Ombre famose
La casta Proserpina ebbe disperse,
VIesto, e cinto da quei che fato uguale
Trovar d'Egisto negl' infidi alberghi,
^i levò d'Agamennone il fantasma,
assaggiò appena dell'oscuro sangue.
Che ravvisommi ; e dalle tristi ciglia
Versava in copia lagrime, e le mani
Mi stendea di toccarmi iuvan bramose :
Che quel vigor, quella possanza, eh' era
Nelle sue membra ubbidienti ed atte.
Derelitto l'avea. Lagrime anch' io
Sparsi a vederlo, e intenerii nell' alma.
E tai voci, nomandolo, gli volsi:
inclito d'Atrèo figlio, o de* prodi
Odi$$ea H
Digitizedby Google
210 ODISSÈA (v. 508-543
Re, Agamennone, qual destin ti vinse,
E i lunghi t'arrecò sonni di Morte?
Nettuno in mar ti domò forse, i fieri
Spirti eccitando de* crudeli venti?
ti offesero in terra uomini ostili,
Che armenti depredavi e pingui gregge,
O delle patrie mura, e delle caste
Donne a difesa, roteavi il brando ?
Laerziade preclaro, accorto Ulisse,
Ratto rispose delFAtride l'Ombra,
Me non domò Nettuno all'onde sopra.
Né m' oflfesero in terra uomini ostili.
Egisto, ordita con la mia perversa
Donna una frode, a sé invitommi, e a mensa.
Come alle greppie inconsapevol bue.
L'empio mi trucidò. Così morii
Di morte infelicissima; e non lunge
Gli amici mi cadeau, quai per illustri
Nozze, o banchetto sontuoso, o lauta
A dispendio comun mensa imbandita.
Cadono i verri dalle bianche saune.
Benché molti a* tuoi giorni o in folta pugna^
Vedessi estinti, o in singoiar certame,
Non solita pietà tocco t'avrebbe,
Noi mirando, che stesi all'ospitali
Coppe intorno eravam, mentre correa
Purpureo sangue il pavimento tutto.
La dolente io sentii voce pietosa
Della figlia di Priamo, di Cassandra,
Cui Clitennestra m'uccidea da presso.
La moglie iniqua ; ed io, giacendo a terra,
Con moribonda man cercava il brando:
Ma la sfrontata si rivolse altrove.
Né gli occhi a me, che già scendea tra l'Ombre
Chiudere, né compor degnò le labbra.
Non più rea peste, più crudel non dassi
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V. 544-579) tiBRo xi. 211
Di donna, che sì atroci opre commetta,
r^ome questa infedel, che il danno estremo
Tramò cui s*era vergine congiunta.
Lasso ! dove io credea che, ritornando,
Figlinoli e servi m'accorrian con festa,
Costei, che tutta del peccar sa Y arte,
Se ricoprì d'infamia, e quante al mondo
Verranno, e le più oneste anco, ne asperse.
Oh quanta, io ripigliai, sovra gli Atridi
Le femmine attiraro ira di Giove !
Fu di molti de' Greci Elena strage I
£ a te, cogliendo dell'assenza il tempo,
Funesta rete Clitennestra tese.
Quindi troppa tu stesso, ei rispondea,
Con la tua donna non usar dolcezza,
Né il tutto a lei svelar, ma parte narra
Be' tuoi secreti a lei, parte ne taci.
Benché a te dalla tua venir disastro
Kon debba: che Penelope, la saggia
Figlia d'Icario, altri consigli ha in core.
Moglie ancor giovinetta, e con un bimbo.
Che dalla mamma le pendea contento,
Tu la lasciavi, navigando a Troia:
Ed oggi il tuo Telemaco felice
Già s'asside uom tra gli uomini , e il diletto
Padre lui vedrà un giorno, ed egli al padre
Giusti baci porrà sovra la fronte.
Ma la consorte mia né questo almeno
Mi consenti, eh' io satollassi gli occhi
Nel volto del mio figlio, e pria mi spense.
Credi al fine a' miei detti, e ciò nel fondo
Serba del petto: le native spiagge
Secretamente afferra, e a tutti ignoto.
Quando fidar più non si puote in donna.
Or ciò mi conta, e schiettamente: udisti.
Dove questo mio figlio i giorni tragga?
212 oDiss!2\ (v. 580^6Ì5;
In Orcomeno forse ? O forse tienlo
Pjlo arenosa, o in la capace Spartà
Plesso sé Menelao? Certo non venne
Fjnor sotterra il mio gentile Oreste.
Ed io : Perchè di ciò domandi, Atride,
Me, cui né conto è pur se Oreste spira
Le dolci aure di sopra, o qui soggiorna?
Lode non merta il favellare al vento.
Cosi parlando alternamente, e il volto
Dì lagrime rigando, e il suol di Dite,
C'è ne stavam disconsolati; ed ecco
Sorger lo spirto del peliade Achille,
Di Patroclo, d'Antiloco e d'Aiace,
Che gli Achei tutti, se il Pelide togli.
Di corpo superava e di sembiante.
Mi riconobbe del veloce al corso
Eacide Timmago ; e, lamentando,
0, disse, di Laerte, inclita prole,
Qual nuova in mente, sciagurato, volgi
Macchina, che ad ogni altra il pregio scemi?
Come osasti calar ne* foschi regni.
Degli estinti magion, che altro non sono
Che aeree forme e simulacri ignudi?
Di Peleo, io rispondea, figlio, da cui
Tanto spazio rimase ogni altro Greco,
Tiresia io scesi a interrogar, che Tarte
Di prender m'insegnasse Itaca alpestre.
Sempre involto ne* guai, TAcaia terra
Kon vidi ancor, né il patrio lido attinsi.
Mii di te, forte Achille, uom più beato
"Non. fu, né giammai fia. Vivo d*un Nume
T'onoravamo al pari, ed or tu regni
Sovra i defunti. Puoi tristarti morto?
Non consolarmi della morte, a Ulisse
Replicala il Pelide. Io pria terrei
Servir bifolco per mercede a cui
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(v. 616-651) LIBRO XI. 213
Scarso e vii cibo difendesse i giorni, *
Che del Mondo defunto aver l'impero.
Su via, ciò lascia, e del mio figlio illustre
Parlami in vece. Nelle ardenti pugne
Gorre tra i primi avanti? E di Pelèo,
Del Daio gran genitor, nulla sapesti ?
Sieguon fedeli a riverirlo i molti
Mirmidoni, o nelFEllada ed in Ftìa
Spregiato vive per la troppa etade,
Che le membra gli agghiaccia? Ah! che guardar-
Sotto i raggi del Sol più non mi lice: (lo
Che passò il tempo che la Troica sabbia
D'esanimi io covria corpi famosi ,
Proteggendo gli Achei. S'io con la forza,
Che a qua' giorni era in me, toccar potessi
Per un istante la paterna soglia,
A. chiunque oltraggiarlo, e degli onori
Fraudarlo ardisse, questa invitta mano
Metterebbe nel core alto spavento.
Nulla, io risposi, di Pelèo, ma tutto
Del fìgliuol posso, e fedelmente, dirti.
Di Neottolemo tuo, che ali* oste achiva
Io stesso sopra cava e d'ugual fianchi
Munita nave rimenai da Sciro.
Sempre che ad Ilio tenevam consulte.
Primo egli a favellar s'alzava in piedi,
Né mai dal punto deviava: soli
Gareggiavam con lui Nestore ed io.
Ma dove l'armi si prendean, confuso
Già non restava in fra la turba, e ignoto:
Precorrea tutti, e di gran lunga, e intere
Le falangi struggea. Quant'ei mandasse,
Propugnacol de* Greci, anime all'Orco,
Da me non t'aspettare. Abbiti solo,
Che il telefide Euripilo trafisse
Pra i suoi Cetèi, che gli moriano intorno ;
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214 ODISSEA (v. 652-687)
Earipilo di Troia ai sacri muri
Per la impromessa man d'una del Rege
Figlia venuto, ed in quell'oste intera,
Dopo il deiforme Mènnone, il più bello.
Che del giorno dirò, ohe il fior de' Greci
Nel construtto da Epèo cavallo salse.
Che in cura ebb' io, poiché a mia voglia solo
Apriasi, o rinchiudeasi, il cavo agguato?
Tergeansi capi, e condottier con mano
Le umide ciglia, e le ginocchia sotto
Tremavano a ciascun; né bagnare una
Lagrima a lui, né di pallore un'ombra
Tingere io vidi la leggiadra guancia.
Bensì prìeghi porgeami, onde calarsi
Giti del cavallo, e delia lunga spada
Palpeggiava il grand' else, e l'asta grave
Crollava, mali divisando a Troia.
Poi, la cittade incenerita, in nave
Delle spoglie più belle adorno e carco
Montava, e illeso: quando lungo, o presso,
Di spada, o strai, non fu giammai chi vanto
Del ferito Neottòlemo si desse.
Dissi, e d'Achille alle veloci piante
Per li prati d'asfodelo vestiti
L'alma da me sen giva a lunghi passi
Lieta, che udì del fìgliuol suo la lode.
D'altri guerrieri le sembianze tristi
Compariano; e ciascun suoi guai narrava.
Sol dello spento telamonio Aiace
Stava in disparte il disdegnoso spirto,
Perché vinto da me nella contesa.
Dell'armi del Pelide appo le navi.
Teti, la madre veneranda, in mezzo
Le pose, e giudicare i Teucri e Palla.
Oh cólta mai non avess'io tal palma,
Se l'alma terra nel suo vasto grembo
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V, 688-723) • LIBRO xi. 215
3elar dovea sì gloriosa testa,
Uace, a cui d'aspetto e d'opre illustri,
5alvo r irreprensibile Pelide,
^on fu tra i Greci chi agguagliarsi osasse!
.0 con blande parole, Aiace, dissi,
.^iglio del sommo Telamon, gli sdegni
Per qtTelle maladette arme concetti
Danqiie né morto spoglierai? Fatali
Oerto reser gli Dei dell'arme ai Greci,
Che in te perderò una sì ferma torre.
Noi per te nulla men, che per Achille,
Dolenti andiam; nò alcun n'è in colpa, il credi:
Ma Giove, che infinito ai bellicosi
Danai odio porta, la tua morte volle.
Su via, t'accosta, Re, porgi cortese
L'orecchio alle mie voci, e la soverchia
Forza del generoso animo doma.
Nulla egli a ciò: ma, ritraendo il piede,
Fra l'altre degli estinti Ombre si mise.
Pur, seguendolo io quivi, una risposta
Forse data ei m'avria; se non che voglia
Altro di rimirar m'ardea nel petto.
Minosse io vidi, del Saturnio il chiaro
Figliaci, che assiso in trono, e un aureo scettro
Stringendo in man, tenea ragione all'Ombre,
Che tutte, qual seduta e quale in piedi.
Conto di sé rendeangli entro l'oscura
Di Pluto casa dalle larghe porte.
Vidi il grande Orlon, che delle fiere.
Che uccise un di sovra i boscosi monti,
Or gli spettri seguia de* prati Inferni
Per l'asfodelo in caccia; e maneggiava
Perpetua mazza d' infrangibil rame.
Ecco poi Tizio, della Terra figlio,
Che sforzar non temè l'alma di Giove
Sposa, Latona, che volgeasi a Pito
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216 ODISSEA (v. 124-759
Per le ridenti Panopee campagne.
Sul terren distendevasi, e ingombrava
Quanto in di nove ara di tauri un giogo:
E due avvoltoi, Tun quinci, Taltro quindi,
Ch'ei con mano scacciar tentava indarno,
Rodeangli il cor, sempre ficcando addentro
Nelle fibre rinate il curvo rostro.
Stava là presso con acerba pena
Tantalo in piedi entro un argenteo lago.
La cui bell'onda gli toccava il mento.
Sitibondo mostravasi, e una stilla
Non ne potea gustar: che quante volte
Chinava il veglio le bramose labbra.
Tante l'onda fuggia dal fondo assorta.
Si che appariagli ai pie solo una bruna
Da un Genio avverso inaridita terra.
Piante superbe, il melagrano, il pero,
K di lucide poma il melo adorno,
E il dolce fico, e la canuta oliva,
Gli piegavan sul capo i carchi rami;
E in quel ch'ei stendea dritto la destra.
Vèr le nubi lanciava i rami il vento.
Sisifo altrove smisurato sasso
Tra l'una e l'altra man portava, e doglia
Pungealo inenarrabile. Costui
La gran pietra alla cima alta d'un monte,
Urtando con le man, coi pie pontando,
Spingea: ma giunto in sul ciglion non era,
Che risospinta da un poter supremo
Rotolavdsi rapida pel chino
Sino alla valle la pesante massa.
Ei novamente di tutta sua forza
Su la cacciava: dalle membra a gronde
Il sudore colavagli, e perenne
Dal capo gli salia di polve un nembo,
P'Efcole mi s'offerse al fin la possa,
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(v. 760-795) LIBRO XI. 217
Anzi il fantasma: però ch'ei de' Numi
Giocondasi alla mensa, e cara sposa
Gli siede accanto la dal pie leggiadro
Ebe, di Giove figlia e di Giunone,
Che muta il passo coturnata d'oro.
Schiamazzavan gli spirti a lui d'intorno,
Come volanti augei da subitana
Tema compresi; ed ei fosco, qual notte,
Con l'arco in mano, e con lo strai sul nervo,
Ed in atto ad ognor di chi saetta.
Orrendamente qua e là guatava.
Ma il petto attraversavagli una larga
D'or cintura terribile, su cui
Storiate vedeansi opre ammirande.
Orsi, cinghiai feroci e leon torvi,
E pugne, e stragi, e sanguinose morti:
Cintura a cui l'eguale o prima, o dopo.
Non fabbricò, qual che si fosse, il mastro.
Mi sguardò, riconobbemi, e con voce
Lugubre, 0, disse, di Laerte figlio,
Ulisse accorto, ed infelice a un'ora.
Certo un crudo t'opprime avverso fato,
Qual sotto i rai del Sole anch'io sostenni.
Figliuol quantunque dell'egioco Giove,
Pur, soggetto vivendo ad uom che tanto
Valea manco di me, molto io soffersi.
Fatiche gravi ei m' addossava, e un tratto
Spedimmi a quinci trance il Can trifauce,
Che la prova di tutte a me più dura
Serabravaglì; ed io venni, e quinci il Cane
Trifauce trassi ripugnante indarno,
D'Ermete col ftivoro e di Minerva.
Tacque, e nel più profondo Èrebo scese.
Di loco io non moveami, altri aspettando
De* prodi, che sparirò, è ornai gran tempo.
E (jue' duo forse mi sarien comparsi,
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218 ODISSEA (v. 796-810)
Ch'io più veder bramava, eroi primieri,
Teseo e Piritoo, gloriosa prole
Degl* immortali Dei. Ma un infinito
Popol di spirti con frastuo^no immenso
Si ragunava; e in quella un improvviso
Timor m'assalse, non Torri bil testa
Della tremenda Gorgone la Diva
Proserpina inviasse a me dalTOrco.
Dunque senza dimora al cavo legno
Mossi, e ai compagni comandai salirlo;
E liberar le funi; ed i compagni
Ratto il saliano, e s'assidean su i banchi.
Pria l'aleggiar de' remi il cavo legno
Mandava innanzi d'Océan su Tonde:
Poscia quel, che levossi ottimo vento.
LIBRO DECIMOSECONDO
ARGOMENTO
Ritorno all'isola di Circe, esequio d'Elpenore, e partenza
d* Ulisse. — Questi, ammaestrato da Circe, vince il pericolo
delle Sirene, schiva le pietre erranti, e passa tra Scilla e
Cariddi, non però senza perdita di sei de* compagni. — Ar-
rivo air isola Trinacria, cioè alla Sicilia, ove i compagni
uccidono i buoi del Sole, e cibansi delle loro carni. -> Giove
fulmina la nave, e tutti periscono, eccetto Ulisse, che su
gli avanzi della nave si pone. — In tale stato ripassa tra
Scilla e Cariddi, salvandosi da quest'ultima con un'arte ma-
ravigliosa : e dopo dieci giorni giunge all' isola di Calipso.
E qui ha fine la sua narrazione.
Poiché la nave uscì dalle correnti
Pel gran fiume Oceano, ed alTEea
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(t. 3-38) LIBRO XII. 219
Xsola giunse neir immenso mare,
Xà, 've gli alberghi dell'Aurora, e i balli
Sono, e del Sole i lucidi Levanti,
T^oi dalla nave, che fu in secco tratta.
Scesi, e corcati su la muta spiaggia.
Aspettammo dell'Alba il sacro lume.
Ma come del mattin la bella figlia
Colorò il ciel con le rosate dita,
Di Circe andare alla magione alcuni,
Che dell'estinto Elpenore la fredda
Spoglia ne riportassero. Troncammo
Frassini e abeti, e all'infelice amico,
Dolenti il core, e lagrimosi il ciglio.
L'esequie femmo, ove sporgea piti il lido.
Né prima il corpo e le armi ebbe arse il foco
Che noi, composto un tumulo, ed eretta
Sopravi una colonna, il ben formato
Remo infiggemmo della tomba in cima.
Ment'eravamo al tristo ufficio intenti.
Circe, che d'Aide ci sapea tornati.
S'adornò, e venne in fretta, e con la Dea
Venner d'un passo le serventi Ninfe,
Forza di carni e pan seco recando,
E rosso vino, che le vene infiamma.
L'inclita tra le Dee stava nel mezzo,
E così favellava: sventurati,
Che in carne viva nel soggiorno entraste
D'Aide, e di cui la sorte è due fiate
Morir quando d'ogni altro uomo è una sola,
Su via, tra i cibi scorra ed i licori
Tutto a voi questo dì su le mie rive.
Come nel ciel roseggerà l'Aurora,
Navigherete; ma il cammino, e quanto
Di saper v'è mestieri, udrete in prima.
Sì che non abbia per un mal consiglio
Cerava in terra, od in mare, a incorvi danno,
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220 ODISSEA (v 39-74)
Chi persuaso non sarìasi? Quindi
Tra lanci piene e coronate tazze,
Finché il Sol si mostrò, sedemmo a mensa.
Il Sol celato, ed imbrunito il mondo,
Si coIcaro i compagni appo la nave.
Ma Circe me prese per mano, e trasse
Da parte, e a seder pose; indi, seduta
Di contra, interrogommi, ed io su tutto
La satisfeci pienamente. Allora
Tai parole sciogliea 1* illustre Diva:
Tu compiesti ogni cosa. Or quello ascolta,
Ch' io vo* manifestarti, e che al bisogno •
Ti torneranno nella mente i Numi.
Alle Sirene giungerai da prima,
Che affascinan chiunque i lidi loro
Con la sua prora veleggiando tocca.
Chiunque i lidi incautamente afferra
Delle Sirene, e n'ode il canto, a lui
Né la sposa fedel, né i cari figli
Verranno incontro su le soglie in festa.
Le Sirene, sedendo in un bel prato.
Mandano un canto dalle argute labbra,
Che alletta il passeggier: ma non lontano
D'ossa d'umani putrefatti corpi,
E di pelli marcite, un monte s'alza.
Tu veloce oltrepassa, e con mellita
Cera de* tuoi così l'orecchio tura.
Che non vi possa penetrar la voce.
Odila tu, se vuoi; sol che diritto
Te della nave all'albero i compagni
Leghino, e i piedi stringanti e le mani;
Perchè il diletto di sentir la voce
Delle Sirene tu non perda. E dove
Pregassi, o comandassi a' tuoi di sciorti,
Le ritorte raddoppino, ed i lacci.
Poiché trascorso tu sarai, due y\e
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(v. 75-ilO) LIBRÒ xil. èài
Ti s'apriranno innanzi; ed io non dico,
Qual piti giovi pigliar, ma, come d'ambo
Ragionato t'avrò, tu stesso il pensa.
Vedrai da un lato discoscese rupi
Sovra l'onde pendenti, a cui rimbomba
Dell'azzurra Anfitrìte il salso fiotto,
or Iddìi beati nella lor favella
Chiamanle Erranti. Non che ogni altro angelo,
Trasvolarlé non sanno impunemente
Né le colombe pur, che al padre Giove
Recan l'ambrosia: la polita pietra
Sempre alcuna ne fura e della spenta
Surroga in vece altra colomba il padre.
Nave non iscampò dal periglioso
Varco sin qui: che de' navigli tutti
Le tavole del pari e i naviganti
Sen porta il vincitor flutto, e la pregna
Di mortifero foco atra procella.
Sola quell'Argo, che sglcava il mare,
Degli uomini pensiero, e degli Dei,
Trapassar valse, navigando a Coleo:
E se non che Giunon, cui molto a cuore
Giasone stava, di sua man la spinse.
Quella non meno avrìan contra le vaste
Rupi cacciata i tempestosi flutti.
Dall'altrii parte havvi due scogli: l'uno
Va sino agli astri, e fosca nube il cinge,
Né su l'acuto vertice, l'estate
Corra o l'autunno, un puro ciel mai ride.
Montarvi non potrebbe altri, o calarne,
Venti mani movesse e venti piedi ;
Si liscio è il sasso, e la costa superba.
Nel mezzo vòlta all'Occidente e all'Orco
S'apre oscura caverna, a cui davanti
Dovrai ratto passar; giovane arciere.
Che dalla nave disfrenasse il dardo^
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S22 ODISSEA (v. 111-146)
Non toccherebbe l'incavato speco.
Scilla ivi alberga, che moleste grida
Di mandar non rista. La costei voce
Altro non par che un guaiolar perenne
Di lattante cagnuol: ma Scilla è atroce
Mostro, e sino ad un Dìo, che a lei si fesse
Non mirerebbe in lei senza ribrezzo.
Dodici ha piedi, anteriori tutti,
Sei lunghissimi colli, e su ciascuno
Spaventosa una testa, e nelle bocche
Di spessi denti un triplicato giro,
E la morte più amara in ogni dente.
Con la metà di sé nell'incavato
Speco profondo ella s'attuffa, e fuori
Sporge le teste, riguardando intorno,
Se delfini pescar, lupi, o alcun puote
Di que' mostri maggior che a mille a mille
Chiude Anfitrite ne* suoi gorghi, e nutre.
Né mai nocchieri oltrepassare illesi:
Poiché quante apre disoneste bocche,
Tanti dal cavo legno uomini invola.
Men l'altro s'alza contrapposto scoglio,
E il dardo tuo ne colpirla la cima.
Grande verdeggia in questo, e d'ampie foglie
Selvaggio fico; e alle sue falde assorbe
La temuta Cariddi il negro mare.
Tre fiate il rigetta, e tre nel giorno
L'assorbe orribilmente. Or tu a Cariddi
Non t'accostar, mentre il mar negro inghiotte;
Che mal sapria dalla mina estrema
Nettuno stesso dilivrarti. A Scilla
Tienti vicino, e rapido trascorri.
Perder sei de' compagni entro la nave
Torna più assai, che perir tutti a un tempo.
Tal ragionava; ed io; Quando m'avvegna
"^hivare, o Circe, la fatai Cariddi,
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(v. 147-182) LIBRO xn. 223
Respinger, dimmi il ver, Scilla non deggio,
Che gli amici a distruggermi s'avventa?
sventurato, rispondea la Diva,
Dunque le pugne in mente ed i travagli
Rivolgi ancor, né ceder pensi ai Numi?
Cosa mortai credi tu Scilla? Eterno
Credila, e duro, e faticoso, e immenso
Male, ed inespugnabile, da cui
Schermo non havvi, e cui fuggir fia il meglio*
Se indugi, e vesti appo lo scoglio Tarmi,
Sbucherà, temo, ad un secondo assalto,
E tanti de' compagni un'altra volta
Ti rapirà, quante spalanca bocche.
7ola dunque sul pelago, e la madre
Cratèi, che al mondo generò tal peste,
E ritenerla, che a novella preda
Non si slanci, potrà, nel corso invoca.
Allora incontro ti verran le belle
Spiagge della Trinacria isola, dove
Pasce il gregge del Sol, pasce l'armento:
Sette branchi di buoi, d'agnelle tanti,
E di teste cinquanta i branchi tutti.
Non cresce, o scema, per natale, o morte,
Branco; e le Dive sono i lor pastori,
Faetusa e Lampezie il crin ricciute,
Che partorì d'Iperione al figlio.
Ninfe leggiadre, la immortai Neera.
Come l'augusta madre ambo le Ninfe
Dopo il felice parto ebbe nodrite,
A soggiornar lungi da sé mandolle
Nella Trinacria; e le paterne vacche
Dalla fronte lunata, ed i paterni
Monton lucenti a custodir lor diede.
Pascoleranno intatti, e a voi soltanto
Calerà del ritorno? il suol nativo.
Non però senza guai, favi concesso,
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224 ODISSEA (v. 183-2Ì8)
Ma se giovenca molestate, od agna.
Sterminio a te predico, e al legno e a' tuoi.
E pognam, che tu salvo ancor ne andassi,
Riederai tardi, e a gran fatica, e solo.
Disse; e sul trono d*or l'Aurora apparve.
Circe, non molto poi, da me rivolse
Per risola i suoi passi; ed io, trovata
La nave, a entrarvi, e a disnodar la fune,
Confortava i compagni; ed i compagni
Y'entraro, e s'assidean su i banchi, e assisi
Fean co' remi nel mar spume d'argento.
La Dea possente ci spedi un amico
Vento di vela gonfìator, che fido
Per l'ondoso cammin ne accompagnava;
Si che deposti nella negra nave
Dalla prora cerulea i lunghi remi.
Sedevamo, di spingerci e guidarci
Lasciando al timonier la cura, e al vento.
Qui, turbato del core. Amici, io dissi,
Degno mi par che a tutti voi sia conto
Quel che predisse a me l'inclita Circe.
Sceltale adunque, acciocché, tristo o lieto,
Non ci sorprenda ignari il nostro fato.
Sfuggire in pria delie Sirene il verde
Prato, e la voce dilettosa ingiunge.
Vuole eh* io l'oda io sol: ma voi diritto
Me della nave all'albero legate
Con fune sì, ch'io dar non possa un crollo;
E dove di slegarmi io vi pregassi
Pur con le ciglia, o comandassi, voi
Le ritorte doppiatemi, ed i lacci.
Mentre ciò loro io discopria, la nave.
Che avea da poppa il vento, in picciol tempo
Delle Sirene all'isola pervenne.
Là il vento cadde ed agguagliossi il mare,
~ l'onde assonnò un demone. I compagni
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(v. 219-254) LIBRO XII. 225
Si levar pronti, e ripiegar le vele,
E nella nave collocarle; quindi
Sedean sui banchi, ed imbiancavan Tonde
Co' forti remi di polito abete,
lo la duttile cera, onde una tonda
Tenea gran mazza, sminuzzai con destro
Rame affilato; ed i frammenti n*iva
Rivoltando e premendo in fra le dita.
Né a scaldarsi tardò la molle pasta;
Perocché lucidissimi dall'alto
Scoccava i rai d'Iperìone il figlio.
Be' compagni incerai senza dimora
Le orecchie di mia mano; e quei diritto
Me della nave all'albero legare
Con fune, i pie stringendomi e le mani*
Poi sui banchi adagiavansi, e co' remi.
Batteano il mar, che ne tornava bianco.
Già, vogando di forza, eravam, quanto
Corre un grido dell'uomo, alle Sirene
Vicini. Udito il flagellar de' remi,
E non lontana ornai vista la nave.
Un dolce canto cominciare a sciorre:
molto illustre Ulisse, o degli Achei
Somma gloria immortai, su via, qua vieni.
Ferma la nave, e il nostro canto ascolta.
Nessun passò di qua su negro legno.
Che non udisse pria questa, che noi
Balle labbra mandiam, voce soave;
Yoce, che inonda di diletto il core,
E di molto saver la mente abbella.
Che non pur ciò, che sopportare a Troia
Per celeste voler Teucri ed Argivi,
Noi conosciam, ma non avvien su tutta
La delle vite serbatrice terra
Nulla^ che ignoto o scuro a noi rimanga.
Cosi cantaro. Ed io, porger volendo.
Odissea Digitizedbye^^Ogle
è26 ODISSEA (v. 255-290)
Più da vicino il dilettato orecchio,
Cenno ai compagni fea, che ogni legame
Fessemi rotto; e quei più ancor sul remo
Incurvavano il dorso, e Perimede
Sorgea ratto, ed Euriloco, e di nuovi
Nodi cingeanrai, e mi premean più ancora.
Come trascorsa fu tanto la nave,
Che non potea la perigliosa voce
Delle Sirene aggiungerci, coloro
A sé la cera dairorecchie tosto,
E dalle membra a me tolsero i lacci.
Già rimanea l'isola indietro; ed ecco
Denso apparirmi un fumo e vasti flutti,
E gli orecchi intronarmi alto fragore.
Ne sbigottirò i miei compagni, e i lunghi
Remi di man lor caddero, e la nave
Che de* fidi suoi r«mi era tarpata.
Là immantinente si arrestò. Ma io
Di su, di giù per la corsia movendo,
E con blanda favella or questo, or quello
De* compagni abbordando, 0, dissi, meco
Sin qua passati per cotanti affanni.
Non ci sovrasta un maggior mal, che quando
L'infinito vigor di Polifemo
Nell'antro ci chiudea, pur quinci ancora
Col valor mio vi trassi, e col mio senno,
E vi fia dolce il rimembrarlo un giorno.
Via, dunque, via, ciò ch'io comando, tutti
Facciam: voi, stando sopra i banchi, l'onde
Percotete co* remi, e Giove, io spero ,
Concederà dalle correnti scampo.
Ma tu, che il tiraon reggi, abbiti in mente
Questo, né l'obliar; guida il naviglio
Fuor del fumo e del fiotto, ed alfopposta
Rupe ognor mira, e ad essa tienti, o noi
Getterai nelForribile vorago.
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(v. 291-326) LIBRO XII. 227
Tutti alla voce mio ratto ubbidirò.
Se non ch'io Scilla, immedicabil piaga,
Tacqui, non forse, abbandonati i banchi,
L'un sovra l'altro per soverchia tema
Della nave cacciassersi nel fondo.
E qui, di Circe, che vietommi Tarme,
Negletto il disamabile comando.
Io dell'arme vestiami, e con due lungha
Nell'impavida mano aste lucenti
Salia sul palco della nave in prua.
Attendendo colà, che l'efferrata
Abitatrice dell'infame scoglio
Indi, gli amici a m' involar, sbalzasse :
Né, perchè del ficcarli in tutto il brullo
Macigno stanchi io mi sentissi gli occhi,
Da parte alcuna rimirarla io valsi.
Navigavamo addolorati intanto
Per l'angusto sentier: Scilla da un lato.
Dall'altro era l'orribile Cariddi,
Che del mare inghiottia l'onde spumose.
Sempre che rigettavak, siccome
Caldaia iu molto rilucente foco.
Mormorava bollendo; e i larghi sprazzi,
Che andavan sino al cielo, in vetta d'ambo
Gli scogli ricadevano. Ma quando
I salsi flutti ringhiottiva, tutta
Commoveasi di dentro, ed alla rupe
Terribilmente rimbombava intorno,
E, Tonda il seno aprendo, un'azzurrigna
Sabbia parea nell'imo fondo; verdi
Le guance di paura a tutti io scorsi.
Mentre in Cariddi tenevam le ciglia,
Una morte temendone vicina.
Sei de' compagni^ i più di man gagliardi,
Scilla rapimmi dal naviglio. Io gli occhi
Torsi, é li vidi che levati in alto. ^ . ., .
' DigitizedbyCjOOgle
228 ODISSEA (v. 327-362)
Braccia e piedi agitavano, ed Ulisse
Chiamavan, lassi I per Testrema volta.
Qual pescator che su pendente rupe
Tuffa di bue silvestre in mare il corno
Con lunghissima canna, un'infedele
Esca ai minuti abitatori offrendo,
E fuor li trae dell'onda, e palpitanti
Scagliali sul terren; non altrimenti
Scilla i compagni dal naviglio alzava,
E innanzi divoravali allo speco.
Che dolenti mettean grida, e le mani
Nel gran disastro mi stendeano indarno.
Fra i molti acerbi casi, ond'io sostenni
Solcando il mar, la vista, oggetto mai
Di cotanta pietà non mi s'offerse.
Scilla e Cariddi oltrepassate, in faccia
La feconda ci apparve isola amena.
Ove il gregge del Sol pasce, e l'armento;
E ne giungean dall'ampie stalle a noi
I belati su l'aure ed i muggiti.
Gli avvisi allor mi si svegliare in mente
Del Teban vate e della maga Circe,
Ch'io l'isola schivar del Sol dovessi.
Di cui rallegra ogni vivente il raggio.
Ond'io, Compagni, lor dicea, per quanto
Siate angosciati, la sentenza udite
Del Teban vate e della maga Circe
Ch'io l'isola schivar debba del Sole,
Di cui rallegra ogni vivente il raggio.
Circe affermava che il maggior de' guai
Quivi e* incoglieria. Lasciarla indietro
Ci convien dunque con la negra nave.
Colpo tai detti fur quasi mortale.
Nò a molestarmi Euriloco in tal guisa
Tardava: Ulisse, un barbaro io ti chiamo.
rchè di forze abbondi, e mai non. cedi,
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(v, 3é3-398) LIBRO xn. 229
Né fibra è in ta che non sia ferro, a' tuoi
Contendi il toccar terra, e di non parca
Cena sul lido ristorarsi. Esigi
Che in mezzo le notturne ombre su questo
Pelago a caso erriam, benché la notte
Gravi produca disastrosi venti.
Or chi fuggir potrà Tultimo danno.
Dove repente un procelloso fiato
Di Mezzodì ci assalga, o di Ponente,
Che, de' Numi anco ad onta, il legno sperda?
S'obbedisca oggi alla divina notte,
E la cena nell'isola s'appresti.
Come il dì spunti, salirem di buovo
La nave, e nell'immensa onda entreremo.
Questa favella con applauso accolta
Fu dai compagni ad una; e io ben m'avvidi
Che mali un Genio prepotente ordia.
Euriloco, io risposi, oggimai troppa.
Tutti centra ad un sol, forza mi fate.
Giurate almeno, e col piti saldo giuro.
Che se greggi troviam, troviamo armenti,
Non sia chi, spinto da stoltezza iniqua,
Giovenca uccida, o pecorella offenda :
Ma tranquilli di ciò pasteggerete.
Che in don vi porse la benigna Circe.
Quelli giurare, e non si tosto a fine
L'inviolabil giuro ebber condotto,
Che la nave nel porto appo una fonte
Fermare, e ne smontare, e lauta cena
Solertemente apparecchiar sul lido.
Paga delle vivande e de* licori
La naturale avidità pungente ,
Risovveniansi di color che Scilla
Dalla misera nave alto rapiti
Vorossi, e li piangean, finché discese
Su gli oèchi lagrimosi il dolce sonno.
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230 ODISSEA (v. 309-434^
Già corsi avea del suo cammin due terzi
La notte, e dechinavano le stelle.
Quando il cinto di nembi olimpio Giove
Destò nn gagliardo, turbinoso vento,
Che la terra coverse, il mar di nubi,
E la notte di cielo a piombo cadde.
Ma come poi Toricrinita Aurora
Colorò il "ciel con le rosate dita,
Tirammo a terra il legno, e in cavo speco
De' seggi ornato delle Ninfe, ch'ivi
1 lor balli tessean, 1* introducemmo.
Subito io tutti mi raccolsi intorno,
E, Compagni, diss'io, cibo e bevanda
Restanci ancor nella veloce nave.
Se non vogliam perir, lungi, vedete,
La man dal gregge e dall'armento: al Sole,
Terribil Dio, che tutto vedo ed ode,
Pascono i monton pingui e ì bianchi tori.
Dissi; e acchetarsi i generosi petti.
Per un intero mese Austro giammai
Di spirar non restava, e poscia fiato
Non sovgea. mai, che di Levante o d'Austro.
Finché il pan non falli loro, ed il vino
Ubbidienti, e della vita avari,
Rispettavan l'armento. E già la nave
Nulla contenea più. Givano adunque,
Come il bisogno li pungea, dispersi
Per l'isola, d'augelli e pesci in traccia.
Con archi e ami, o di quale altra preda
Lor venisse alle man: però che forte
Rodeali dentro l'importuna fame.
Io, dai compagni scevro, una remota
Cercai del piede solitaria piaggia.
Gli eterni a supplicar, se alcun la via
Mi dimostrasse del ritorno; e in parte
"^■mto, che d'aura non sentiasi colpo,
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(v. 435-470) LIBRO Xii. 231
Sparsi di limpid* onda, e a tutti alzai
Gli abitanti dei cielo arabo le palme.
Né guari audò, che d'un tranquillo sonno
Gli occhi ed il petto ritìmpièrmi i Numi.
Euriloco frattanto un mal consiglio
Pose innanzi ai compagni: da si acerbe
Sciagure oppressi, la mia voce udite.
Tutte odiose certo ad uom le morti:
Ma nulla tanto, che il perir di fame.
Che più si tarda? Meniam via le belle
Giovenche, e sagrifici ai Numi offriamo.
Che se afferrar ci sarà dato i lidi
Nativi, al Sole Iperione un ricco
Tempio illustre alzeremo, appenderemo
Molti alle mura preziosi doni,
£ dov' ei, per li buoi dalla superba
Testa crucciato, sperder voglia il legno,
Nò alcun Dio gli contrasti, io tolgo Talma .
Pria tra i flutti esalar, che, su deserta
Isola stando, intisichir più a lungo.
Disse; e tutti assentìano. Incontanente,
Del Sol cacciate le più belle vacche
Di fronte larga, e con le corna in arco.
Che dalla nave non pascean lontane
Stavano ad esse intorno; e, cólte prima,
Per difetto che avean di candid* orzo.
Tenere foglie di sublime quercia ,
Voti feano agli Dei. Compiuti i vóti,
Le vittime sgozzaro, e le scolaro,
E, le cosce tagliatone, di zirbo
Le coprirò doppiate, e i crudi brani
Sopra vi collocare. Acqua, che il rosso
Vino scusasse, onde patian disagio,
Versavan poi su i sacrifìci ardenti,
E abbrostian tutti gr intestini. Quindi,
Le cosce ornai combuste, ed assaggiate
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éà2 obissBÀ (v. 471-506)
Le interiora, tutto l'altro in pozzi
Fu messo, e infitto negli acuti spiedi.
E a me uscì dalle ciglia il dolce sonno.
Sorsi, e alla nave in fretta io mi condussi.
Ma vicina del tutto ancor non m'era,
Ch' io mi sentii dall' avvampate carpii
Muovere incontro un odoroso vento,
E gridai lamentando, ai Numi eterni:
O Giove padre, e voi, Dei sempre stanti,
Certo in un crudo e jfatal sonno voi
Mi seppelliste, *se doveasi intanto
Compier da cotestoro un tal misfatto.
Nunzia non tarda dell'ucciso armento,
Lampezie al Sole andò di lungo peplo
Coperta. Il Sole in grande ira montato.
Si volse ai Numi, e, Giove, disse, e voi
Tutti, immortali Dei, paghino il fio
Del Laerziade Ulisse i rei compagni,
Che le giovenche trucidarmi osare.
Della cui vista, o eh' io per la stellata
Volta salissi, o discendessi, nuovo
Diletto ciascun dì prendea il mio core.
Colpa e pena in lor sia d'una misura:
O calerò nella magion di Fiuto,
K al popol morto porterò mia luce.
E il nimbifero Giove a lui rispose:
Tra gì' Immortali, o Sole, ed i mortali
Vibra su l'alma terra, e in cielo, i raggi.
Io senza indugio d'un sol tocco lieve
Del fulmine affocato il lor naviglio
Sfracellerò del negro mar nel seno.
Queste cose Cai ipso un giorno udia
Dal messaggier Mercurio, e a me nàrrolle
La ricciuta il bel crin ninfa Calipso.
Giunto alla nave, io rampognava or questo j
De' compagni, ed or quel: ma violato
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(v. 50r542) LIBRO XII. è38
L'armento fu, né avea compenso il male.
Strani prodigi intanto agi* infelici
Mostravano gì* Iddii : le fresche pelli
Strisciavan sul terreo, muggian le incotte
Carni, e le crude, agli scbidoni intorno,
E de' buoi lor sembrava udir la voce.
Pur del fior dell* armento ancor sei giorni
Si cibaro i colpevoli. Comparsa
La settim' alba, il turbinoso vento
Stancossi: e noi ci rimbarcammo, e, alzato
L'albero prontamente, e dispiegate
Le bianche vele, ci mettemmo in mare.
Di vista già della Trinacria usciti,
Altro non ci apparia che il cielo e l'onda,
Quando il Saturnio sul veloce legno
Sospese in alto una cerulea nube,
Sotto cui tutte intenebrarsi l'acque.
La nave non correa che un tempo breve;
Poiché ratto uno stridulo Ponente,
Infuriando, imperversando, venne
Di contra, e ruppe con tremenda buffa
Le due funi dell'albero, che a poppa
Cadde; ed antenne in uno, e vele e sarte
Nella sentina scesero. Percosse
L'alber, cadendo, al timoniere in capo,
E l'ossa fracassògli; ed ei da poppa
Saltò nel mar, di palombaro in guisa,
E cacciata volò dal colpo l'alma.
Ma Giove, che tonato avea pili volte,
Scagliò il fulmine suo contro la nave,
Che si girò, dal fulmine colpita
Del Saturnio, e s'empieo di zolfo tutta.
Tutti fuor ne cascarono i compagni,
E ad essa intorno l'ondeggiante sale,
Quai corvi, li portava; e cosi Giove
Il ritorno togli ea loro, e la vita.
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284 ODISSEA (v. 543-578)
Io pel naviglio su e giù movea,
Finché gli sciolse la tempesta i fianchi
Dalla carena, che rimase inerme.
Poi la base dell'albero l'irata
Onda schiantò; ma di taurino cuoio
Rivestialo uaa striscia, ed io con questa
L'albero e la carena in un legai,
E sopra mi v' assisi; e tale i venti
Esiziali mi spingean su l'onde..
Zefiro a un tratto rallentò la rabbia:
Sennonché sopraggiunse un Austro in fretta,
Che, noiandomi forte, in ver Cariddi
Ricondur mi volea. L* intera notte
Scorsi su i flutti; e col novello Sole
Tra la grotta di Scilla, e la corrente
Mi ritrovai della fatai vorago,
Che in quel punto inghiottia le salse spume.
Io, slanciandomi in alto, a quel selvaggio
M'aggrappai fico eccelso, e mi v'attenni»
Qua! vipistrello; che nò dove i piedi
Fermar, né come ascender, io sapea,
Tanto eran lungi le radici, e tanto
Remoti dalla mano i lunghi, immensi
Rami, che d'ombra ricoprian Cariddi.
Là dunque io m' attenea, bramando sempre
Che rigettati dall'orrendo abisso
Posser gli avanzi della nave. Al fine
Dopo un lungo desio vennero a galla.
Nella stagion che il giudicante, sciolte
Varie di caldi giovani contese,
Sorge dal fòro, e por cenar s'avvia,
Dell'onde uscirò i sospirati avanzi.
Le braccia apersi allora, e mi lasciai
Giù piombar con gran tonfo all'onde in mezzo,
Non lunge da que' legni; a cui m' assisi
Di sopra, e delle man remi io mi feci,
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<^. 879-590) LIBRO XII. 835
Ma degli uomini il padre e de' Celesti
Di rivedermi non permise a Scilla:
Che toccata sariami orrida morte.
I^er nove di mi trabalzava il fiotto,
E la decima notte i Dei sul lido
Mi gettar dell'Ogigia isola, dove
Calipso alberga, la divina Ninfa,
Ohe raccoglieami amica, e in molte guise
Mi confortava. Perchè ciò ti narro?
Tai cose, Alcinoo illustre, ieri le udivi,
Le udia con teco la tua oasta donna ,
K ciò, ridir, ch'io dissi, a me non torna.
LIBRO DECIMOTBRZO
ARGOMENTO
Nuovi regali ad Ulisse. — Tutto è collocato nella nave, che
ad Itaca dee condurlo. — Egli s* accommiata dal Re , e si
imbarca. — I Feaci il depongono in su la spiaggia, mentre
dormia; e al lor ritorno Ne^uno converte in pietra la nave
loro. •— fìestatosi Ulisse non riconosce la patria per cagion
d*ana nebbia, che Pallade gli levò iotorno. — Questa gli
appare in forma di pastorello : gì* insegna qual modo do-
vrà tenere per uccidere i Proci ; e gli suggerisce di na-
scondere in un antro vicino i doni che i Feaci, in partendo,
avean lasciati sul lido. — Finalmente il trasforma in vec-
chjio mendico, acciocchò ninno in Itaca il riconosca.
Stavansi tutti per l'oscura sala
Taciti, immoti, e nel diletto assortì.
Cosi al fine il silenzio Alcinoo ruppe;
Poiché alla mia venisti alta, e di rama
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é36 ODISSEA (v. 5-40)
Solido e lìscio edifìcata casa ,
No, Ulisse, non cred'io che al tuo ritomo
L'onde t'agiteran, comunque afflitto
T'abbia sin qui co* suoi decreti il fato.
Voi tutti, che votar nel mio palagio
Del serbato ai più degni ardente vino
Solete i nappi, ed ascoltare il vate.
L'animo a quel, ch'io vi dichiaro, aprite.
Le vesti e Toro d'artificio miro ,
E ogni altro don, che de'Feaci i capi
Recaro al forestier, l'arca polita
Già nel suo grembo accolse. Or d'un treppiede
Anco e d'un'urna il presenti am per testa.
Indi farem che tutta in questi doni.
Di cui male potremmo al grave peso
Regger noi «oli, la città concorra.
Disse: e piacquero! detti, e al proprio albergo
Ciascun, le piume a ritrovar, si volse.
Ma come del mattin la bella figlia
Aperse il ciel con le rosate dita,
Vèr la nave afi^rettavansi , portando
Il bel, che onora l'uom, bronzo foggiato.
Lo stesso Re, ch'entrò per questo in nave,
Attentamente sotto i banchi il mise,
Onde, mentre daran de' remi in acqua,
Non impedisse alcun de' Feacesi
Giovani, e l'offendesse urna o treppiede.
Né di condursi al real tetto, dove
La mensa gli attendea, tardare i prenci.
Per lor d'Alcinoo la sacrata possa
Un bue quel giorno uccise al ghirlandato
D'atre nubi Signor dell'Universo.
Arse le pingui cosce, un prandio lauto
Celebran lietamente; e il venerato
Dalla gente Demodoco, il divino
Cantor, percuote la sonante cetra.
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(v. 41-76) LIBRO xin. 237
Ma Ulisse il capo alla diurna lampa
Spesso torcea, se tramontasse al fine;
Che il ritorno nel cor sempre gli stava.
Quale a villan, che dalla prima luce
Co* negri tori e col pesante aratro
Un terren franse riposato e duro,
Cade gradito il sole in occidente
Pel desio della cena, a cui s*avvia
Con le ginocchia, che gli treman sotto,
Tal cadde a Ulisse in occidente il sole*
Tosto agli amanti del remar Feaci,
E al Re, più che ad altrui, cosi drizzossi;
Facciansi, Alcinoo, i libamenti, e illeso
Mandatemi ; e gì* Iddii vi guardin sempre.
Tutti ho già i miei desir; pronta è la scorta,
E della nave in sefir^ giacciono i doni,
Da cui vogliano i Dei che prò ne vegna.
Vogliano ancor, che in Itaca l'egregia
Consorte io trovi, e i cari amici in vita.
Voi, pestandovi qui, serbate in gioia
Quelle, che unisce a voi, vergini spose,
E i. dolci figli che ne aveste: i Numi
V'ornin d*ogni virtù, né possa mai
I di vostri turbar pubblico danno.
Tacque; eapplaùdia ciascuno, e molto insta-
si compiacesse allo stranier, da cui (va,
Uscita era si nobile favella.
Ed Alcinoo all'araldo allor tal detti:
Pontonoo, il vino mesci, e a tutti in giro
Porgilo, acciò da noi, pregato Giove,
S'accomiati oggimai l'ospite amico.
Mescè l'araldo il vino, e iPporse in giro;
E tutti dai lor seggi agl'immortali
Numi libaro. Ma il divino Ulisse
Sorse, e d'Arete in man gemina pose
Tazza rotonda, e tai parole sciolse : ^ .
DigitizedbyCiOOgle
238 ODISSEA (v. 77-112)
Vivi felici dì, Regina illustre,
Finché vecchiezza ti sorprenda, e morte,
Comun retaggio degli umani. Io parto:
Te del popol, de* figli e del marito
Il rispetto feliciti e l'amore.
Disse, e varcò la soglia. Alcinoo innanzi
Muover gli fece il banditor, che al ratto
Legno il guidasse e al mare; e Arete dietro
Tre serve gli spedì, Tuna con tersa
Tunica in mano, ed un lucente manto.
L'altra con la fedele arca, e con bianchi
Pani la terza, e rosseggianti vini.
Tutto da lor, come sul lido furo,
I remiganti tolsero, e nel fondo
Della nave allogar: poi su la poppa
Steser candidi lini e bella coltre.
Dove tranquillo il forestier dormisse.
Vi montò egli, e tacito corcossi.
E quei sedean su i banchi, e, poiché sciolta
Dal traforato sasso ebber la fune,
Fatigavan co* remi il mar canuto.
Ma un dolce sonno' al Laerziade, un sonno
Profondo, ineccitabile, e alla morte
Per poco egual, su le palpebre scese.
Come talvolta in polveroso campo
Quattro maschi doistieri a un cocchio aggiunti,
E tutti dal flagel percossi a un tempo
Sembran levarsi nel vóto aere in alto,
E la prescritta via compier volando: I
Si la nave correa con alta poppa,
Dietro da cui precipitava il grosso
Del risonante mar flutto cilestro.
Correa sicura, né Tavria sparviere,
Degli augei velocissimo, ragi?iunta;
Con si celere prora i salsi flutti
Solcava, un uom seco recandq^ai Dii . . ,
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(v. 113-148) LIBRO XIII. 239
Pari di senno, che infiniti affanni
Durati avea tra Tarmi, avea tra Tonde,
E allor, d'oblio sparsa ogni cura, in braooio
D'un sonno placidissimo giacea.
Quando comparve quel sì fulgid' astro,
Che della rosea Aurora è messaggiero,
La ratta nave ad Itaca approdava.
Il porto è qui del marin vecchio Forco,
Che due sporgenti in mar lidi scoscesi,
B Tun alTaltro ripieganti incontra,
Si dal vento riparano e dal fiotto,
Che di fune mestier non v'han le navi.
Spande sovra la cima i larghi rami
Vivace oliva, e presso a questa un antro
S'apre amabile, opaco, ed alle Ninfe
Naiadi sacro. Anfore ed urne, in cui
Forman le industri pecchie il mèi soave j
Vi son di marmo tutte, e pur di marmo
Lunghi telai, dove purpurei drappi.
Maraviglia a veder, tesson le Ninfe.
Perenni onde vi scorrono, e due porte
Mettono ad esso : ad Aquilon si volge
L'una, e schiudesi alTuom; Taltra, che Noto
Guarda, ha più del divino, ed un mortale
Per lei non varca: ella è la via de' Numi.
In questo porto ai Feacesi conto
Dirittamente entrò l'agile nave,
Che sul lido andò mezza: di sì forti
Remigatori la spingean le braccia I
Si gittaron nel lido; e Ulisse in ])rima
Co' bianchi lini e con la bella coltre
Sollevar dalla nave, e seppellito
Nel sonno, siccom' era, in su l'arena
Posarlo giti. Poi ne levare i doni,
Ch'ei riportò dalla Feacia gente
Per favor di Minerva, e al piede uniti ,
DigitizedbyLjOOgle
240 ODISSEA (v. 149-184)
Li collocaro della verde oliva,
Fuor del cammin, ove s'avvenisse in loro
Viandante, e la man su lor mettesse,
Mentre Teroe dormia. Quindi ritorno
Fean con la nave alia natia contrada.
Nettuno intanto, che serbava in mente
' Le minacce che un di contra il divino
Laerziade scagliò, cosi il pensiero
Ne spiava di Giove: Giove padre,
Chi più tra i Dei m'onorerà, se onore
Nieganmi i Feacesi, che mortali
Sono e a me deon l'origine? Io credea
Che della sua nativa isola ai sassi
Giunger dovesse tra gli affanni Ulisse ,
Cui non invidiava io quel ritorno
Che tu gli promettesti, e del tuo capo
Confermasti col cenno. Ma i Feaci
Dormendo il trasportar su ratta nave,
E in Itaca il deposero, e il colmaro
Di doni in bronzo, e in oro, e in bei tessuti:
Ricchezza immensa, e qual dall'arsa Troia
Recato ei non avria, se oon la preda.
Che gli toccò, ne ritornava illeso,
della terra scuotitor possente,
Il nubiadunator Giove rispose,
Qual parola parlasti? Alcun de' Numi
Te in dispregio non ha, né lieve fora
Dispregiar Dio sì poderoso e antico.
Ma dove uom troppo di sue forze altero
T'osasse ingiuriar, tu ne puoi sempre,
Qual più t'aggradirà, prender vendetta.
Mi starei forse, o nubipadre Giove,
Nettun riprese, s' io dal tuo corruccio
Non mi guardassi ognora? Io de' Feaci,
Perchè di ricondur gli ospiti il vezzo
Perdano al fin, strugger vorrei nel mare .
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(v. 185-220) LIBRO xiii. 241
L'inclita nave ritornante; e in oltre
Grande alla lor città montagna imporre.
Ciò, replicava il Nubipadre, il meglio,
Ottimo Nume, anco a me sembra: quando
I Feacesi scorgeran dal lido
Venir la nave a tutto corso, e poco
Sara lontana, convertirla in sasso
Che di naviglio abbia sembianza, e oggetto
Si mostri a ognun di maraviglia; e in oltre
Grande alla lor città montagna imporre.
Lo Scuotiterra, udito .questo appena,
Si portò a Scheria in fretta, e qui fermossi.
Ed ecco spinta dagl'illustri remi
Su per Tonde venir l'agile nave.
Egli appressolla, e convertilla in sasso,
E d'un sol tocco della man divina
La radicò nel fondo. Indi scomparve.
Molte allor de'Feaci in mar famosi
Fur le alterne parole. Ahi chi nel mare
Legò la nave che vèr noi solcava
L'acque di volo, e che apparia già tutta?
Cosi, gli occhi volgendo al suo vicino.
Favellava talun; ma rimanea
La cagion del portento a tutti ignota.
Se non che Alcinoo a ragionar tra loro
Prese in tal foggia: Oh Dei! cólto io mi veggo,
Qual dubbio v'ha? dai vatinicii antichi
Bel padre, che dicea, come sdegnato
Nettun fosse con noi, perchè securo
Riconduciam su l'acque ogni mortale.
Dicea, che insigne de'Feaci nave.
Dagli altrui nel ridire ai porti suoi.
Distruggerla nell'oscure onde, e questa
Cittade coprirla d'alta montagna.
Cosi arringava il vecchio, ed oggi il tutto
Si compie. Or via, sottomettiamci ognuno:
OdÌMf A Digitized by CjC^^g IC
242 ODI33KA (v. 221-250)
Dal ricondur cessiam gli ospiti nostri,
E dodici a Nettuno eletti tori
Sagrifìchiam, perchè di noi %V incresca,
Né d'alto monte la città ricuopra.
Disse. Penetrò in quelli un timor sacro,
E i cornigeri tori apparecchiaro.
Mentre intorno all' aitar prieghi a Nettuno
Drizzavan della Scheria i duci e i capi ,
Svegliossi il pari agl'Immortali Ulisse,
Che su la terra sua dormia disteso,
Né la sua terra riconobbe: stato
N'era lungo gran tempo, e Palla cinto
L'avea di nebbia, per celarlo altrui,
E di quanto è mestier dargli contezza,
Sì che la moglie, i cittadin, gli amici
Noi ravvisin, che pria de' tristi Proci
Fatto ei non abbia universal macello.
Quindi ogni cosa gli parea mutata,
Le lunghe strade, i ben difesi porti,
E le ombrose foreste, e l'alte rupi.
Sguardò fermo su i pie la patria ignota.
Poi non tenne le lagrime, e la mano
Battè su l'anca, e lagrimando disse:
Misero! tra qual nuova, estrania gente
Sono io? Chi sa, so nequitosa e cruda,
giusta in vece, ed ospitale e pia?
Ove questa recar molta ricchezza.
Ove ire io stesso? Oh nella Scheria fosse
Rimasta, ed io giunto all' eccelsa casa
D'altro signor magnanimo, che accolto
Dolcemente m'avesse, e rimandato
Sicuramente! Io dove porla ignoro,
Né lasciarla vo'qui, che altri la involi.
Men che saggi eran dunque, e men che probi
De'Feacesi i condottieri e i capi,
ChfJ non alla serena Itaca, come
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(v. 257-292) LIBRO XIII. 243
Dicean, ma in questa sconosciuta piaggia
Condur mi fero. Li punisca Giove
De' supplici custode, a cui nessuno
Celasi, e che non lascia inulto un fallo.
Queste ricchezze noveriam, veggiamo,
Se Tia non ne portò nulla la nave.
Dette tal cose, i tripodi superbi
Contava, e Turno, e Toro, e le tessute
Vesti leggiadre; e non falliagli nulla.
Ma la sua Patria sospirava, e molti
Lungo il lido del mar romoreggiante
Passi e lamenti fea. Pallade allora,
Di pastorello delicato in forma,
Quale un figlio di Re mostrasi al guardo,
S'offerse a lui : doppia e ben fatta veste
Avea d'intorno agli omeri, calzari
Sotto i pie molli, e nella destra un dardo.
Gioì Ulisse a mirarla, e incontanente
Le mosse incontro con tai detlì: Amico,
Che qui primiero mi t'affacci, salve.
Deh non mi t'affacciar col alma ostile;
Ma questi beni e me serba, che abbraccio
Le tue ginocchia, e te, qual Nume, invoco.
Che terra è questa? che città? che gente?
Una dell'ondicinte isole forse?
O di fecondo continente spiaggia,
Che scende in sino al mar? Schietto favella.
Stolto sei bene, o di lontan venisti,
La Dea rispose dall'azzurro sguardo,
Se di questa contrada, ospite, chiedi.
Cui non è nota? La conosce appieno
Qual vèr l'aurora, e il Sol, qual vèr l'oscura
Notte soggiorna. Alpestra sorge, e male
Yi si cavalca, né si stende assai.
Sterile non però torna: di grano
Risponde, e d'uva, e la rugiada semjre ,
* ^ Digiti2edby(500gle
244 ODISSEA (v. 293-328)
Bagnala, e il némbo: ottimo pasco i buoi
E le capre vi trovano, verdeggia
D'ogni pianta, e perenne acqua T irriga.
Sin d'Ilio ai campi, che dal suolo Àcheo^
Come sentii narrar, molto distanno,
D' Itaca giunge, o forestiero, il nome.
Al nome della Patria, che su i labbri
Deir immortai sonò figlia di Giove,
S'empiè di gioia il liuerziade, e tardo
A risponder non fu, benché, volgendo
Nel suo cor sempre gli artifici usati.
Contraria al vero una novella ordisse.
Io già d'Itaca udia nell'ampia Creta,
Che lungi nel mar giace, e donde io venni.
Metà recando de' miei beni, e ai figli
Lasciandone metà. Di Creta io fuggo,
Perchè vi uccisi Orsiloco, il diletto
D'Idomenèo figliuol, da cui nel corso
Uom non era colà che non perdesse.
Costui di tutta la Troiana preda.
Che tanti in mezzo all'onde, in mezzo aU'arme,
Travagli mi costò, volea fraudarmi.
Sdegnato, ch'io d'altri guerrieri duce
Sotto il padre di lui servir negassi.
In quel eh' ei nella strada uscia dal campo,
Gli tesi insidie con un mio compagno,
E di lancia il ferii. Notte assai fosca
L*aere ingombrava, e^ non che agli altri, a lai
Che di Vita io spogliai, rimasi occulto.
Trovai sul lido una Fenicia nave,
E a quegl* illustri naviganti ricca
Mercede offersi, e li pregai che in Pilo
Mi ponessero, o in Elide divina.
Dominio degli Epèi. Se non che il vento
Indi li svolse, e forte a lor mal cuore;
Che inganni non pensavano. Venimmo ,
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(v. 329-364) LiBiio xiii. 245
Notturni errando, a qaesta piaggia, e a forza
Di remi, e con gran stento, il porto entrammo.
Né della cena favellossi punto,
Benché ciascuno in grande uopo ne fosse;
Ma, del naviglio alla rinfusa usciti,
Giacevam su l'arena. Ivi un tranquillo
Sonno me stanco invase; e quei, Jevate
Dalla nave, e deposte, ov' io giacea.
Le mie ricchezze, in vèr la popolosa
Sidone andaro, e me lasciar nel duolo.
Sorrise a questo la degli occhi azzurra ,
E con man careggiollo; e uguale a donna
Bella, di gran sembiante, e di famosi
Lavori esperta, in un momento apparve ,
E a così fatti accenti il volo sciolse:
Certo «agace anco tra i Numi, e solo
Colui saria, che d'ingannar nell'arte
Te superasse! Sciagurato, scaltro.
Di frodi insaziabile, non cessi
Dunque né in Patria dai fallaci detti,
Che ti piaccion così sin dalla culla?
Ma di questo non piìi: che d'astuzie ambo
Maestri siam; tu di gran lunga tutti
D'inventive i mortali, e di parole
Sorpassi; tutti io di gran lunga i Numi.
Dunque la figlia ravvisar di Giove
Tu non sapresti, che a te assisto sempre
Nelle tue prove, e te conservo, e grazia
Ti fei trovare appo i Feaci? E or venni
Per ammonirti, e per celare i fatti
Col mio soccorso a te splendidi doni, »
Non che narrarti ciò che per destino
Nel tuo palagio a sopportar ti resta.
Tu soffri, benché atretto ; e ad uomo o donna
L'arrivo tuo non palesar: ma tieni
Chiusi nel petto i tuoi dolori, e solo
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246 ODISSEA (v. 365-400)
Col silenzio rispondi a chi t'oltraggia.
E tosto il ricco di consigli Ulisse:
Difficilmente, o Dea, può ravvisarti
Mortai, cui t'appresenti, ancor che saggio,
Tante forme rivesti. Io ben rammento
Che visitar tu mi degnavi un giorno.
Mentre noi, figli degli Achivi, a Troia
Combatte vam: ma poiché l'alte torri
Ruins^mmo di Priamo, e su le navi
Partimmo, e un Dio l'Achiva oste disperse.
Più non ti scorsi, o del Tonante figlia.
Nò m'avvidi unqua che m'entrassi in nave,
Per cavarmi d'affanno. Abbandonato
Solo a me stesso, e affiìtto io già vagando,
Finché pria che il tuo labbro in tra i Feaci
Mi confortasse, e nella lor cittade
M'introducessi tu, le mie sventure
GV immortali finirò. Ora io ti priego
Pel tuo gran padre, quando in terra estrami.
Non nella Patria mia, credomi, e temo
Che tu di me prender ti voglia gioco.
Ti priego dirmi, o Dea, se veramente
Degli occhi Itaca io veggio, e del pie calco.
E la Dea che rivolge azzurri i lumi:
Tu mai te stesso non oblìi. Quind'io
Non posso ai mali abbandonarti in preda;
Tal mostri ingegno, tal facondia e senno.
Altri, che dopo error molti giungesse.
Sposa e figli mirar vorria repente;
E a te nulla sapere, o chieder piace,
, Se con gran cura non assaggi e tenti 1
Prima la tua, che invan t'aspetta, e" a cui
Scorron nel pianto i dì, scorron le notti. ,
Dubbio io non ebbi mai del tuo ritorno,
Benché ritorno solitario e tristo:
Se non che al zio Nettun con te crucciato
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(v. 401-43C) LIBRO xin. 247
Beirocchio che spegnesti al figlio in frontey
Repugnar non volea. Ma or ti mostro
D* Itaca il sito, e a credernoi io ti sforzo.
Ecco il porto di Forcine, e la verde
Frondosa oliva che gli sorge in cima.
Ecco non lunge l'opaco antro ameno.
Alle Naiadi sacro; la convessa
Spelonca vasta riconosci, dove
Ecatombi legittime alle Ninfe
Sacrificar solevi. Ecco il sublime
Nerito monte che di selve ondeggia.
Disse, e ruppe la nebbia, e il sito apparve.
Giubbilò Ulisse alla diletta vista
Della sua patria, e baciò l'alma terra.
Poi, levando le man, subitamente
Le Ninfe supplicò: Naiadi Ninfe,
Non credea rivedervi, e con devoto
Labbra in vece io salutovi, o di Giove
Nate, a cui doni porgerem novelli,
Se me in vita conserva, e dì felici
A Telemaco mio concede amica
La bellicosa del Saturnio figlia.
Ti rassicura, e non temer, riprese
La Dea dagli occhi di cilestro tinti.
Che d'aiuto io ti manchi. Or senza indugio
Nel cavo sen della divina grotta.
Su via, poniam queste ricchezze in salvo,
E di ciò consultiam che più ti torna.
Tacque, ed entrava nella grotta oscura,
Le ascosaglie cercandone; ed Ulisse,
L'oro ed il bronzo, e le superbe vesti
Portando, la seguìa. Tutto depose
Acconciamente dell'egioco Giove
La figlia, e l'antro d'un macigno chiuse.
Ciò fatto, al pie della sacrata oliva
Ambi sedendo, e investigando l'arte
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248 ODISSEA \y. 437-472j
Di tór di mezzo i temerari Proci,
Così a parlar la prima era Minerva:
Studiar convienti, o Laerziade, come
Metter la man su gli arroganti drudi,
Che regnano in tua casa, oggi e terz'anno,
E della moglie tua con ricchi doni
Chiedono a gara le bramate nozze.
Ella, ognor sospirando il tuo ritorno,
Ciascun di speme e d' impromesse allatta.
Manda messaggi a tutti, ed altro ha in core.
Ah! dunque, le rispose il saggio Ulisse,^
Me dell'atride Agameunón Tacerbo
Fato attendea nelle paterne case,
Se il tutto, inclita Dea, tu non m'aprivi.
Ma tu la via, che a vendicarmi io prenda,
M'addita, e a me soccorri, e quell'audace
Spirto m'infondi, che accendeami, quando
Sfemmo di Troia le famose mura.
Mi starai tu del pari al fianco sempre?
Io pugnar con trecento allor non temo.
Sempre al fianco m'avrai, non m'uscirai,
La Dea riprese dalle glauche luci.
Di vista un sol momento in questa impresa.
Questi superbi, che le tue sostanze
Mandano a male, imbratteran di sangue
L'immenso pavimento, e di cervella-
Ma io così vo' trasformarti, Ulisse,
Che riconoscer non ti possa uom vivo.
Cotesta liscia ed ancor fresca pelle,
Che le membra flessibili ti cuopre.
Disseccherò, raggrinzerò ; di biondo
Nulla ti rimarrà sovra la testa,
E te circonderan miseri panni.
Da cui lo sguardo di ciascun rifugga.
Gli oochi poi sì belli ora, e sì vivaci,
Saran sì oscuri, e avran tai pieghe intorno,
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(v. 473-508) LIBRO XIII. 249
Che turpe ai Proci, e alla tua donna e al figlio
Cui lasciasti bambin cosa parrai.
Tu prinpa cerca de' tuoi pingui verri
Il fido guardian che t'ama, ed ama
Telemaco, ama la tua saggia donna.
Il troverai, che guarderà la nera
Greggia che beve d'Aretusa al fonte,
E alla pietra del Corvo addenta, e rompe
La dolce ghianda, per la cui virtude
Il florido sul dosso adipe cresce.
Quivi ti ferma, ed al suo fianco assiso
D'ogni cosa il richiedi; ed io frattanto
Andrò alla bella nelle donne Sparta,
In traccia del figliuol, che vi s'addusse,
Onde saper di te dal bellicoso
Menelao biondo, e udir, se vivi, e dove.
Perchè non dirgliel tu, cui noto è il tutto?
Rispose il ricco di consigli Ulisse.
Forse perch'ei su l'infecondo mare
Tormenti errando, come il padre, e intanto
Le sue sostanze a male altri gli mandi?
Ciò non t'afiligga, ripigliò la Dea
Che cilestre in altrui le luci intende.
Io stessa, nome ad acquistarsi e grido,
Già l'inviava là, 've nulla il turba:
Là, 've tranquillo, e d'ogni cosa agiato,
Nel regal siede dell'Atride albergo.
So ben, che agguati in nave negra i Proci
Tendogli, desiando a lui dar morte
Pria ch'ei torni; ma invan: che anzi, lui vivo,
Coprirà i suoi nemici, e tuoi, la terra.
Disse Minerva, e della sua potente
Verga l'eroe toccò. S'inaridisce
La molle cute, e si rincrespa; rari
Spuntano, e bianchi su la testa i crini;
Tutta 4*un vecchio la persona ei prenda
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250 ODISSEA (v. 509-521)
Rotto dagli anni, e stanco; e foschi, estinti
Son gli occhi, in che un divin foco brillava.
Tunica trista, e mala cappa in dosso
L'amica Dea cacciògli, ambo squarciate,
Discolorate, affumicate e sozze:
Sopra gli vestì ancor di ratto cervo
Un gran cuoio spelato, e nella destra
Pose bastone; ed una vii bisaccia,
Che in più luoghi s*apria, per una torta
Coreggia antica agli omeri sospese.
Preso il consiglio che più acconcio parve,
L*un dall'altro staccarsi ; e alla divina
Sparta, del figlio in traccia, andò Minerva.
LIBRO DECIMOQUARTO
ARGOMENTO
Ulisse giunge alla casa d'Eumèo. — Condizione in cui trovasi
questo buon servo , accoglienza eh' ei fa al suo padrone
senza conoscerlo, e colloquio che hanno tra loro. — Ulisse
finge d'esser di Creta e racconta le sue false avventure. —
Sagrifìzio d'Eumèo. e cena. — Sopravvenuta una nott«
fredda e tempestosa. Ulisse con altra finta novella ottiene
un manto dal servo ; e questi va a coricarsi sotto una spe*
lonca in guardia delle sue mandre.
Ei, la riva lasciata, entrò in un' aspra
Strada, e per gioghi e per silvestri lochi,
Là si rivolse, dove Palla mostro
Gli avea V inclito Eumèo, di cui fra tutti
DTUsse i mi^lic>r servi alcun non era,
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(V. 6-4J) LIBRO XIV. 251
Che i beni del padron meglio guardasse.
Trovollo assiso nella prima entrata
D'un ampio e bello ed altamente estrutto
Recinto a un colle solitario in cima.
Il fabbricava Eumèo con pietre tolte
Da una cava propinqua, e mentre lungi
Stavasi Ulisse, e senz* alcun dal veglio
Laerte, o da Penelope, soccorso:
D* un' irta siepe ricingealo, e folti
Di bruna, che spezzò, quercia scorzata
Pali frequenti vi piantava intorno.
Dodici v'erau dentro una appo l'altra
Comode stalle, che cinquanta a sera
Madri feconde ricevean ciascuna.
I maschi dormian fuor; molto più scarsi,
Perchè scemati dall'ingordo dente
De' Proci, a cui mandar sempre dovea
L'ottimo della greggia il buon custode.
Trecento ne contava egli, e sessanta;
E presso lor, quando volgea la notte,
Quattro cani giacean pari a leoni.
Che il pastor di sua mano avea nodriti.
Calzari allor s'accomodava ai piedi.
Di bue tagliando una ben tinta pelle.
Mentre chi qua chi là giano i garzoni.
Tre conducean la nera mandra, e il quarto
Alla cittade col tributo usato
Lo stesso Eumèo spedialo, e a que' superbi
Cui ciascun di gli avidi ventri empiea
Della sgozzata vìttima la carne.
Videro Ulisse i latratori cani,
E a lui con grida corsero: ma egli
S'assise accorto, e il baston pose a terra.
Pur fìero strazio alle sue stalle avanti
Sofliria, s'Eumèo non era, il qual, veloce
Scagliandosi dall'atrio, e la bovina
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252 ODISSEA (V. 42-17;
Pelle di man lasciandosi cadere,
Sgridava i suoi mastini, e or questo or quello
Con spesse pietre qua o là cacciava.
Poi, rivolto al suo Re, Vecchio, gli disse,
Poco falli non te n'andassi in pezzi,
E il biasmo in me ne ricadesse, quasi
Sciagure altre io non pata, io, che dolente
Siedo, e piango un signore ai Numi eguale,
E i pingui verri airaltrui gola allevo;
Mentr*ei s'aggira per estranie terre
Famelico e digiuno; ove ancor viva,
E gli splenda del Sole il dolce lume.
Ma tu sieguimi, o vecchio, ed al mio albergo
Vientene, acciò, come di cibo e vino
Sentirai sazio il naturai talento.
La tua patria io conosca, e i mali tuoi.
Ciò detto, gli entrò innanzi, e l'introdusse
Nel padiglione suo. Qui di fogliosi
Virgulti densi, sovra cui velloso
Cuoio distese di selvaggia capra.
Gli feo, non so qual più, se letto, o seggio.
L'eroe gioia dell'accoglienza amica,
E eosi favellava: Ospite, Giove
Con tutti gli altri Dei compia i tuoi voti,
E d'accoglienza tal largo ti paghi.
E tu così gli rispondesti, Eumèo:
Buon vecchio, a me non lice uno straniero »
Fosse di te men degno, avere a scherno;
Che gli stranieri tutti ed i mendichi
Vengon da Giove. Poco fare io posso.
Poco potendo far servi che stanno
Sempre in timor sotto un novello impero: j
Pure anco un picciol don grazia ritrova.
Colui fraudaro del ritorno i Numi,
Che amor sincero mi portava, e dato
Podere avriami, e casa, e donna molto
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(v. 78-113) LIBRO XIV. 253
Bramata; e quanto al fin dolce signore
A servo dà, che in suo prò sudi, e il cui
Travaglio prosperar degnino i Dei,
Come arridono al mio, certo ei giovato.
Se incanutiva qui, molto m'avrebbe.
Ma perì l'infelice. Ah perchè tutta
D' Elena in vece non perì la stirpe
Che di cotali eroi sciolse le membra?
Quel prode anch'ei volger le prore armato,
Per Tonor degli Atridi, a Troia volle.
Detto così, la tunica si strinse
Col ciuto, ed alle stalle in fretta mosse,
E, tolti due dalla rinchiusa mandra
Giovinetti porcelli, ambo gli uccise,
Gli abbronzò, gli sparti, negli appuntati
Spiedi gì' infisse: indi, arrostito il tutto,
Caldo e fumante negli stessi spiedi
Recollo, e il pose al Laerzìade innanzi,
E di farina candida V asperse.
Ciò fatto, e in tazza d'ellera mesciuto
L'umor dolce dell* uva, a lui di fronte
3'assise, e rincoroUo in questa forma:
Su via, quel mangia, o forestier, che a servi
Lice imbandir, di poreelletti carne:
Quando i più grandi corpi ed i più pingui
Li divorano i Proci,, a cui non entra
Pietade in petto, né timor de' Numi.
Ma non aman gli Dei 1' opre malvage,
B il giusto ricompensano, ed il retto.
Quelli che armati su le altrui riviere
Scendono, e a cui tornar Giove consente
Do' legni carchi alla natia contrada,
Spavento ad essi ancor delle divine
Vendette passa nel rapace spirto.
Clerto per voce umana o per divina
Kan della morte del mio Re contezza,
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254 ODISSEA (v. 114-149)
Poiché né gareggiar, come s'addice,
Per la sua donna, né ai domini loro
Voglionsi ricondur; ma gli altrui beni
Senza pudore alcun struggono in pace.
Giove dì o notte non produce, in cui
Una vittima o due paghi li renda,
E il più scelto licor bevono a oltraggio.
Dovizia molta ei possedea, qual venti
Sul continente, o in Itaca, mortali
Non felicita insieme. Udirla vuoi?
Dodici armenti nell'Epiro, e tanto
Di pecorelle greggi e di maiali.
Tanti di capre comodi serragli,
Di domestici tutto, e di stranieri
Pastori a guardia. In Itaca, serragli
Di capre undici, e larghi, e nell' estremo
Tutti della campagna, e con robusti
Custodi, che ogni di recano ai drudi
Qual nel vasto capril veggion più grassa
Bestia, e più bella. Io sovra i porci veglio,
E della mandra il fior sempre lor mando.
Ulisse intanto senza dir parola
Tutto in cacciar la fame era, e la sete,
E muli ai Proci macchinava in petto.
Rinfrancati ch'egli ebbe i fiacchi spirti,
Euméo la tazza, entro cui ber solea,
Colma gli porse, ed ei la prese, e questi
Detti, brillando in core, ad Euméo volse;
Amico, chi Tuom fu sì ricco e forte,
Che del suo ti comprò, come racconti?
Morto tu il dici per l'Atride. Io forse
Conobbilo. Il Saturnio e gli altri Numi
Sanno, s'io di lui visto alcuna posso
Contezza darti, io, che vagai cotanto.
Vecchio, rispose Euméo d'uomini capo,
^ellegrin che venisse oggi il ritorno
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(v. 150-185) LIBRO Xiv 255
Del Rege a nunzì'ar, nò la sua donna
Gli crederebbe, né il diletto figlio:
Troppo usati a mentir son questi erranti,
Che mestier han d*asilo. Un non ne giunge,
E alla Reina mia non si presenta,
Che false cose non favelli, o vane:
Tutti ella accoglie con benigno aspetto,
Cento cose domanda, e dalle ciglia
Le cadono le lagrime: costume
Di donna, cui morì lo sposo altrove.
E chi m* accerta che tu ancor, buon vecchio,
Una favola a ordir non fossi pronto.
Dove tunica e manto altri ti desse ?
Ma i cani, io temo, ed i veloci augelli
Tutta dall'ossa gli staccar la cute,
O i pesci il divoraro, e l'ossa ignude
Giaccion sul lido nell'arena involte.
Cosi perìo, lungo agli amici affanno
Lasciando, ed a me piti, che, ovunque io vada
Non impero trovar bontà sì grande.
Non, se del padre e della madre al dolce
Nativo albergo io riparassi. È vero
Che rivederli ardentemente io bramo
Nella terra natia: pur men li piango
D'Ulisse, ond'io l'assenza ognor sospiro.
Ospite, così appena io nomar l'oso.
Benché lontan da me: tanto ei m'amava.
Tal pigliava di me cura e pensiero.
Maggior fratello, dopo ancor la cruda
Sua dipartita, io più sovente il chiamo.
Dunque, l'eroe riprese, al suo ritorno
Non credi, e stai sul niego? Ed io ti giuro
Che Ulisse riede ; né già parlo a caso.
Ma tu la strenna del felice annunzio
M' appresta, bella tunica, bel manto,
Di cui mi coprirai, com'egli appaia*
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2^6 ODISSEA (v. Ì86-221)
Prima, sebben d'ogni sostanza scusso,
Nulla io riceverei: che delle Inferno
Porte al par sempre io detestai chi vinto
Dalla sua pòvertade il falso vende.
Chiamo il Saturnio in testimonio, chiamo
L'ospitai mensa, e dell' egregio Ulisse
Il venerando focolar, cui venni:
Ciò ch'io dico, avverrà. Quest' anno istesso,
L'un mese uscendo, o entrando l'altro, il piede
Ei metterà nella sua reggia, e grande
Di chiunque il figliuolo, e la pudica
Donna gli oltraggia, prenderà vendetta.
E tu in risposta gli dicesti, Eumèo:
Né strenna, o vecchio, io ti darò, né Ulisse
Metterà piti nella sua reggia il piede.
Su via, tranquillo bevi, e ad altra cosa
Voltiam la lingua : che mi cruccia troppo
Di si nobil signor la rimembranza.
Lasciam da parte i giuramenti, e Ulisse
Tenga, qual bramiam tutti, io, la Regina,
E l'antico Laerte, e il pari a un Nume
Telemaco, per cui tremando io vivo.
Questo fanciullo, che d'Ulisse nacque,
E cui poscia, qual pianta in florid'orto,
Crebber gli Dei, si ch'io credea che il padre
Di senno agguaglieria, come d'aspetto,
La dritta mente or degli Eterni alcuno
Gli offese, io penso, o de* mortali. Ei mosse.
L'orme paterne investigando, a Pilo,
E agguati i Proci tendongli al ritorno.
Perché tutto d'Arcesio il sangue manchi.
Or né di questo più: traranlo a morte
Forse i nemici, o forse a voto ancora
Le insidie andranno, e la sua destra Giove
Sul capo gli terrà. Ma tu gli affanni
Tuoi stessi, vecchio, e il tuo destia mi narra.
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(v. 222-257) LIBRO XIV. . ^ 257
Chi sei tu ? Donde sei? Dove i parenti?
Dove la tua città? Quai ti menare
Nocchieri, e di qua! guisa, e con qual nave?
Certo in Itaca il piò non ti condusse.
Tutto, rispose lo scaltrito Ulisse,
Schiettamente io dirò. Ma un anno intero,
Che, fuori uscito a sue faccende ogni altro,
Da noi si consumasse ad una lauta
Nel padiglione tuo mensa tranquilla,
Per raccontar non basteria le pene
Di cui tessermi a Dei piacque la vita.
Patria m' è l'ampia Creta, e mi fu padre
Rioco uom, cui di legittima consorte
Molti naquero in casa e crebber figli.
Me compra donna generò, né m'ebbe
Man per ciò de' fratelli il padre in conto
L* Ilacide Castor, di cui mi vanto
Sentirmi il sangue nelle vene, e a cui
Per fortuna, dovizia e illustre prole
Divin reildeasi dai Cretesi onore.
Sorpreso dalla Parca, e ad Aide spinto.
Tra Bè partirò le sostanze i figli.
Gittate in pria le sorti, e me di scarsa
Provigion consolare, e d'umil tetto.
Ma donna io tolsi di gran beni in moglie,
E a me solo il dovei ; però eh* io vile
Non fui d'aspetto, né fugace in guerra.
E benché nulla oggi mi resti, e gli anni
M'opprimano, ed i guai, la messe, io credo.
Può dalla paglia ravvisarsi ancora.
Forza tra l'armi e ardir Marte e Minèrva
Sempre infusero a me, quando i migliori
Per gli agguati io scegli ea centra i nemici;
O allor che primo, e senza mai la, morte
Dinanzi a me veder, nelle battaglie
Mi scagliava, e color che dal mio brando
Odissea ^ *7,
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258 ^ ODISSEA (v. 258-293)
Si sottraeano, io raggiungea con Tasta.
Tal nella guerra io fui. -Me della pace
Non dilettavan Farti, o della casa
Le molli cure, e della prole. Navi
Dilettavano, e pugne, e rilucenti
Dardi, e quadrelli acuti: amare, orrende
Cose per molti, a me soavi e belle,
Come vari dell' uom sono 1 desiri.
Prima che la greca oste Ilio cercasse,
Nove fiate io comandai sul mare
Centra gente straniera, e la fortuna
Così m'arrise, che tra ciò che in sorte
Toccommi della preda, e quel ch'io stesso
A mio senno eleggea, rapidamente
Crebbe il mio stato, e non passò gran tempo
Che in sommo pregio tra i Cretesi io salsi.
Ma quando Giove quel fatai viaggio
Prescrisse, che mandò tante alme a Pluto
À me de' legni ondivaghi, ed al noto
Per fama Idomenèo, diero il governo.
Né modo v'ebbe a ricusar; si grave
Il popolo, e si ardita, ergea la voce.
Colà nove anni pugnavam noi Greci,
E nel decimo al fin. Troia combusta
Ritornavamo: e ci disperse un Nume.
Se non che Giove una più ria ventura
Centra me disegnò. Passato un mese
Tra i figli cari appena, e la diletta
Sposa, che vergin s'era a me congiunta,
Novella brama dell'Egitto ai lidi
Con egregi compagni, e su navigli
Ben corredati a navigar m'indusse.
Nove legni adornai; né a riunirsi
Tardò l'amica gente, a cui non poche
Pe'sagrifizi loro e pe' conviti,
''he durare sei dì, vittime io dava.
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<r. '294-329) libuo xiv. 259
La settim* alba in Oriente apparsa,
Creta lasciammo, e con un Borea in poppa
Sincer-o e fido, agevolmente, e come
Sovra un fiume a seconda, il mar fendemmo.
Nave non fu nò leggermente offesa,
E noi sicuri sedevam, bastando
I timonieri al nostro uopo, ed il vento.
Presa il dì quinto la bramata foce
Del ricco di bell'onda Egitto fiume.
Io nel fiume arrestai le veleggia nti
Navi, e a* compagni comandai che in guardia
De* legni rimanessero, e la terra
Gissero alcuni ad esplorar dairalto.
Ma questi, da un ardir folle e da un cieco
Desio portati, a saccheggiar le belle
Campagne degli Egizi, a via menarne
Le donne e i figli non parlanti, i grami
Coltivatori a uccidere. Ne giunse
Tosto il remore alla città, né prima
L'aurora comparì, che i cittadini
Vennero, e pieno di cavalli e fanti
Fu tutto il campo, e del fulgor dell* armi.
Cotale allora il fulminante pose
Desir di fuga de' compagni in petto.
Che un sol far fronte non osava: uccisi
Fur parte, e parte presi, e ad opre dure
Sforzati; e, cfvunque rivolgeansi gli occhi.
Un disastro apparia. Ma il Saturnide
Nuovo consiglio m'inspirò nel core.
Deh perchè nell'Egitto anch'io non caddi,
Se nuovi guai m'apparecchiava il fato?
Io l'elmo dalla testa al suol deposi.
Dagli omeri lo scudo, e gìttati lungo
Da me la lancia; indi ai cavalli incontro
Corsi, e al cocchio del Re, strinsi e baciai
Le sue ginocchia; ed ei serbommi in vita,
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26Ó ODISSEA * (v. 330-365)
Compunto di pietà, me che piagnea,
Levò nel cocchio, e al suo palagio addusse.
È ver che gli altri m'assalian con l'aste
Di rabbia accesi, e mi voleano estinto.
Ma il Re lontani e con cenni e con voci
Teneali per timor dell* ospitale
Giove, che i supplicanti, a cui mercede
Dairuom non s'usi, vendicar suol sempre.
Sett' anni io colà vissi, e assai tesori
Raccolsi: doni mi porgea chiunque.
Poi, volgendo l'ottavo anno, un Fenice
Comparve, uom fraudolento, e di menzogne
Gran fiibbro, che già molti avea tradito.
Nella Fenicia a seguitarlo, dove
Casa e poderi avea costui piegommi ;
E seco io dimorai di sole un giro.
Ma, rivolto già Tanno e le stagioni
Tornate in sé col trapassar de*mesi.
Ed il cerchio dei di lunghi compiuto,
Far vela volle per la Libia, e fìnse
Non poter senza me carcar la nave.
Che nave? in Libia vendermi a gran prezzo
Pensava il tristo. Io che potea? Costretto,
Di nuovo il seguitai ; benché del vero
Mi trascorresse per la mente un lampo.
Su Creta sorse il rapido naviglio.
Che un gagliardo Aquilon feriva in poppa,
Mentre gli ordìa l'ultimo eccidio Giove.
Già né più Creta si vedea, né altra
Terra, ma cielo in ogni parte, o mare,
Quando il Fulminator sul nostro capo
Sospese d*alto una cerulea nube.
Sotto a cui tutte intenebrarsi l'acque.
Tonò piti volte, o al fin lanciò il suo telo
Centra la nave, che del fiero colpo
Si contorse,> s'empieo di zolfo, e tutti
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I
(v. 366-401) LIBRO stiv. 261
Ne cadettero giù. Quai corvi, intorno
Le s'aggiravan su per Tonde, e Giove
Lor togliea con la Patria anco la vita.
Salvò me solo nel mortai periglio:
Che alle mani venir mi fece il lungo
Albero della nave, a cui m'attenni,
£ cosi mi lasciai su i tempestosi
Flutti portar per nove giorni ai venti:
Finché la notte decima mi spinse
De'Tesproti alla terra il negro fiotto.
Qui de'Tesproti il Sir, Teroe Fidone,
Generoso m'accolse. A sorte il figlio
Sul lido mi trovò tutto tremante
Di freddo, e omai dalla fatica vinto, '
E con man sollevatomi, del padre
Al real tetto mi condusse, e pormi
Tunica e manto si compiacque in dosso.
Quivi io d'Ulisse udii. Diceami il Rege,
Ch'ei l'accolse, e il trattò cortesemente
Nel suo ritorno alle natie contrade;
E il rame e l'or mostravami, ed il ferro,
E quanto al fin di prezioso e bello
Ulisse avea raccolto, e nella reggia
Deposto: forza, che per dieci etadi
. Padri e figliuoli a sostener bastava.
E aggiungea, che a Dodona era passato,
Per Giove consultare, e udir dall'alta
Quercia indovina, se ridursi ai dolci
Colli d'Itaca sua dopo sì lunga
Stagion dovea palesemente, o ignoto.
Poi, libando, giurò ch'era nel mare
Tratta la nave, e i remiganti pronti.
Per rimenarlo in Itaca. Ma prima
Me stesso accommiatò: che per ventura
Al ferace Dulichio un legno andava
Di nocchieri Tesproti. Al rege Acasto
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262 ^ ODISSEA (r. 402-437)
Costor dovean raccomandarmi,^ e in vece
Un consiglio tessean, perch' io cadessi
Novamente ne' guai. Come lontano
Da terra fu Tondivagante legno,
Il negro m'appari giorno servile.
Tunica e manto mi spogliare, e questi
In dosso mi gettar laceri panni,
E, venuti all'amena Itaca a notte.
Me nella nave con ben torta e salda
Fune legaro. Indi n'uscirò, e cena
Frettolosa del mar presero in riva.
Ma un Nume ruppe i miei legami ; ed io
Giù sdrucciolai pel timon liscio, al mare
Mi consegnai col petto, e ad ambe mani
Notando remigai si, che in brev'ora
Fuor di lor vista io fui. Giunsi, ove bella
Sorgea di querce una foresta, e giacqui.
Quei, di me con dolore in traccia mossi.
Né credendo cercarne invan più oltre,
Si rimbarcare ; e me gì* Iddii, che ascoso
Facilmente m'avean, d'un uom saputo
Guidar benigni al pastoreccio albergo,
Poiché in vita il destin mi vuole ancora.
E tal fu a lui la tua «risposta, Eumèo :
degli ospiti misero, tu l'alma
Mi commovesti addentro, i tuoi viaggi
Narrando, e i mali tuoi. Sol ciò non lodo ,
Che d'Ulisse dicesti e non tei credo,
Perché, degno uom qual sei, mentire indarno ?
So anch'io pur troppo, qnal del suo ritorno
Speme nodrir si possa, e l'infinito,
Che gli portano i Numi, odio io conosco.
Quindi éi non cadde combattendo, a Troia,
Q degli amici in sen dopo la guerra.
Sepolto avrianlo nobilmente i Greci,
E dalla tomba sua verria un rilampo
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^v. 438-473) LIBRO XIV. 263
J)ì gloria al suo figliuol: m^ inonorato
Le Arpie crudeli sei rapirò in yecB.
Tale io ne provo duol, .che appo la mandra
Vivomi occulto, ed a città non vado,
Se non quando Penelope, comparso-
Da qualche banda con novelle alcuno,.
Chiamami a sé per caso. Allora stanno .
Tutti dintorno allo straniero, e mille
Gli fan domande ; cosi quei che doglia
Dell'assenza del Re sentono in petto,
Come color, che gioia, e le sostanze
Ne distruggon ,frattanto in tutta pace.
Ma io domande far dal dì non amo.
Che mi deluse un vagabondo Etòlo,
Reo d'omicidio, che al mio tetto giunse.
Molto io Taccarezzava ; ed ei mi disse.
Che presso Idomeneo nell'ampia Créta
Veduto avealo risarcir le navi
Dalla procella sconquassate, e aggiunse
Che Testate- o Tautunno al suo paese
Capiteria ben compagnato e ricco.
Or non volermi tu, vecchio infelice,
Con falsi detti, poiché un Dio t'addusse,
Molcere o lusingar ; che non per questo
Ben trattato sarai, ma perchè temo
L'ospitai Giove, e che ho di te pietade.
Un incredulo cor, rispose Ulisse,
Tu chiudi in te, quando a prestarmi fede
Né co' miei giuramenti indur ti posso.
Su via> fermisi un patto, e testimoni
Ne sian dall' alto gl'immortali Dei.
Riederà il tuo signar, com'io predissi ?
Tunica e manto vestimi, e a Dulichio
Mi manda, ov'io da molti giorni ir bramo
Ma s'ei non torna, eccita i servi, e getta
Me capovolto da un'eccelsa rupe,
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264 ODISSEA (v. 474-500)
Si che piti non ti beffi alcun mendieo.
Gran merto in vero, e memorabii nome.
Il pastor ripigliò, m'acquisterei
Appo la nostra e la ventura etade,
Se, ricevuto avendoti e trattato
Ospitalmente, io t'uccidessi, e fuori
Ti traessi dal sen l'anima cara?
Come franco io potrei preghiere a Giove
Porgere allora! Or della cena è il tempo.
I miei compagni entreran tosto, e lauta
S'appresterà nel padiglion la mensa.
Cosi tra lor diceano; ed ecco il nero
Gregge, e i garzoni che ne' suoi serragli
Metteanlo: immenso delle pingui troie,
Che andavansi a corcar, sorse il grugnito.
Ratto ai compagni favellava Euméo:
L'ottimo a me de'porci, affinchè muoia
Pel venuto di lungi ospite, e un tratto
Noi pur festa facciam, noi, che soffriamo
Per questo armento dalle bianche sanne.
Mentre in riposo e in gioia altri le nostre
Fatiche si divorano, e gli affanni.
Detto cosi, con affilata scura
Quercia secca recise ; e quelli un grasso
D'anni cinque d'età porco menaro,
E al focolare il collocar davanti.
Né de' Celesti Eumèo, che molto senno
Nutriva in sé, dimenticossi. I peli
Dal capo svelti del grugnante, in mezzo
Gittolli al foco, e innalzò voti ai numi
Pel ritorno d'Ulisse. Indi un troncone
Della quercia, ch'ei fésse, alto levando,
Percosse, e senza vita a terra stese
La vittima. I garzoni ad ammazzarla,
Ad abbronzarla e a farla in pezzi; ed egli
I crudi brani da ogni membro tolti,
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V. 610-546) LIBRO XIV. 265
.^arte metteali su Tomento, e parte
7ìì farina bianchissima cospersi
I^onsamaTali al foco, lì resto tutto
Poi sminuzzare; e Tabbrostiro infisso
C^on modo acconcio negli spiedi, e al fine
Dagli spiedi cavato in su la mensa
Poserlo. Euméo, che sapea il giusto e il retto
Sarse, e il tutto divise in sette parti :
Dffrì runa alle ninfe, ed al figliuolo
Di Maia, e Taltre a ciascun porse in giro.
Ma dell'intera del sannuto schiena
Solo Ulisse onorava, e gaudio in petto
Spandea del Sire, che diceagU: Bumèo,
Cosi tu possi caro al padre Giove
Viver, qual vivi, a me, poiché si grande
Nello stato, in ch'io son, mi rendi onore.
E tu dicesti, rispondendo, Euméo:
O preclaro degli ospiti, ti ciba
E di quel godi, che imbandirti io valgo.
Concede, o niega, il correttor del mondo,
Come gli aggrada più : che tutto ei puote.
Ciò detto, ai Numi le primizie offeinse;
E, libato ch'egli ebbe, in man d'Ulisse
Che al suo loco sedea, pose la tazza.
Mesaulio, eh' ei del proprio, e noi sapendo
Kè la Regina, né Laerte, avea,
Mentre lungi era il Sir, compro dal Tafl
Il pane dispensò. Stendeano ai cibi
La mano: e paga del mangiar la voglia^
Paga quella del ber, Mesaulio il pane
Raccolse, e gli altri a dar le membra al sonno
Ristorati affrettavansi e satolli.
Fosca sorvenàe e disxistrosa notte;
Giove piovea senza intervallo, e fiero
Di Ponente spirava un vento acquoso.
Ulisse allor, poidiò vedeansi tanto
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266 ODISSÈA. (v. 546-581)
Carezzato da Eiunèo, tentare il volle,
Se gli prestasse il proprio manto , o almeno
Quel d*alcun de* compagni aver gli fesse.
Eumèo, disse' egli, ascoltami, e i compagni
M*ascoltin tutti. Io millantarmi alquanto
Voglio qual mi comanda il folle vino,
Che talvolta i più saggi a cantar mosse
Più là d'ogni misura, a mollemente
Rider, spiccar salti improvvisi, ed anche
Quello a parlar, ch*era tacere il meglio.
Ma dacché un tratto a cicalare io presi,
Nulla io terrò nel petto. Oh di quel fiore
Fossi, e tornassi iu quelle forze, ch'io
Sentiami al tfimpo che sott'Ilio agguati
..Tendemmo, Ulisse, ed il secondo Atride,
E, cosi ad essi piacque, io terzo ducei
Tosto che alla cittade, e all' alte mura
Vicini fummo, tra i virgulti densi,
E nelle canne paludose a terra
Giace vam sotto l'armi. Impronta notte
Ci Hssalse: un crudo Tramontan soffiava,
Scendea la neve, qual gelata brina,
E gli scudi incrostava il ghiaccio. Gli altri,
Che manti aveano e tuniche, tranquilli
Tormian poggiando alle lor targhe il dosso.
Ma io, partendo dai compagni, il manto
Nella stoltezza mia lasciai tra loro,
Non isperando un sì pungente verno ;
E una tunica^ un cingolo e uno scudo
Meco sol tolsi. Della notte il terzo
Era» e gli astri cadevano, e ad Ulisse,
Che mi giacca da presso, io tai parole
Frugandolo del gomito, rivolsi:
Illustre e scaltro di Laerte figlio,
Così mi doma il gel, ch'io più tra i vivi
Non rimarrò. Mi falla un manto. Un Dio,
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V. 582-617) LIBRO XIV. 267
Zhe mi deluse, di vestirmi solo
La tunica inspirommi. Or quale scampo?
Ei, le parole udite, un suo partito
Scelse di botto, come quei che meno
Ai consigli non fu, che all'armi, pronto.
Taci, rispose con sommessa voce,
Che alcun Greco non t'oda. E poi, del braccio
Facendo, e della man sostegno al mento.
Amici, disse, un sogno, un divin sogno,
Dormendo m'avvertì, che dilungati
Troppo ci siam dalle veloci navi.
Quindi al pastor di genti Agamennone
Corra un di noi, perchè, se ben gli sembra,
Ne mandi altri guerrieri, e ne rinforzi.
Disse, e Toante, d'Andremòne il figlio,
Sorse, e corse al navil, deposto prima
Il purpureo suo manto ; ed io con gioia
Men cìnsi, e vi stetti entro, in sin che apparve
Sul trono d'or la ditirosea Aurora.
Se quei fior, quelle forze io non piangessi,
Me forse alcun de'tuoi compagni, Eumèo
Per riverenza e amòre ad un buon vecchio,
Di manto fornirla : ma or, veggendo
Questi miei cenci, ciascun tiemmi a vile.
Tu così, Eumeo, gli rispondesti allora:
Bella fu, amico la tua storia, e un motto
Non t'uscì delle labbra o sconcio o vano.
Però di veste, o d'altro, che. infelice
Morta supplicante uomo, in questa notte
Difetto non avrai. Ma, nato il Sole,
T'adatterai gli usati panni intorno.
Poche son qui le cappe, e a suo piacere
Di tunica non puote alcun mutarsi-:
Star dee contento ad una sola ognuno.
Come giunto sarà d'Ulisse il figlio,
Ei di vestirti e di mandarti, dove ^ ,
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268 , ODISSEA (v. 618.630.
Ti consiglia il tuo cor, pensier d arassi.
S'alzò, così dicendo, e presso al foco
Poneagli il letto, e di montoni e capre
Pelli stendeavi, in che l'eroe sdraiossi;
E d'un largo il coprì suo denso manto,
Ch'egli a sé stesso circondar solca,
Quando turbava il ciel fiera tempesta.
Cosi là giacque Ulisse; e accanto a lui
Si corcaro i garzoni: ma corcarsi
Disgiunto da' suoi verri Eumèo non volle.
Fuori uscito ei s'armava; e Ulisse in core
Gioia mirando lui del suo Re tanto
Curare i beni, benché lungi il creda.
Prima ei sospese agli omeri gagliardi
L'acuta spada: indi a sé intorno un folto
Manto gittò, che il difendea dal vento;
Tolse una pelle di corputa e grassa
Capra; e un pungente dardo in man recossi,
Degli uomini spavento e de' mastini.
Tale s'andò a corcar, dove protetti
Dal soffio d'Aquilone i setolosi
Verri dormìan sotto una cava rupe.
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LIBRO DECIMOQUINTO
ARGOMENTO
Minerva appare di notte a Telemaco, e il conforta di tornare
in Itaca. — £i si congeda da Menelao, e parte col figliuolo
di Nestore. — Giunto a Pilo, si rimbarca, senza rientrare
nella città; e accoglie nella sua nave un indovino d'Argo,
chiamato Teoclimèno, che fu costretto lasciar la patria per
omicidio. — Frattanto colloqui tra Ulisse ed Eumèo; il
quale, non riconoscendolo ancora « gli narra, come da cor-
sari Fenici rapito fu, mentr'era fanciullo, dall'isola Siria,
e venduto a Laerte. — Telemaco, arrivato salvo alle ispiagge
d'Itaca, manda alla città la nave, e va tutto solo alla casa
d'Euraèo, di cui conosce la fedeltà.
Neirampia Lacedemone Minerva
Entrava .intanto ad ammonir d*Ulisso
L'inclita prole, che di far ritorno
Alle patrie contrade era già tempo.
TrovoUo che giacea di Menelao
Nell'atrio con Pisistrato. Ingombrava
Un molle sonno di Nestorre il figlio:
Ma rUlissì'de, cui l'incerta sorte
Del caro padre fieramente turba,
Pensavano ad ognora, e invan per lui
D'alto i balsami suoi spargea la notte.
La Dea, che azzurri gli occhi in giro muove,
Appressoilo, e, Telemaco, gli disse.
Non fa per te di rimanerti ancora
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270 ODISSEA {v. 15-50)
D'Itaca fuori, e lungi dall'altera
Turba inalnata degli arditi Proci,
Che, divisa tra lor la tua sostanza,
Divorinsi al fin tutto, e, non che vano.
Dannoso a te questo viaggio torni.
Levati, e pressa il valoroso Atride
Di congedarti, onde nel tuo palagio
Trovi la madre tua, che Icario il padre
Co* fratelli oggimai sforza alla mano
D' Eurimaco, il qual cresce i maritali
Doni, e ogni suo rivai d'ambito vince.
Guarda, non del palagio a tuo dispetto
Parte de' beni con la madre t'esca:
Però che sai, quaì cor s'abbia ogni donna.
Ingrandir brama del secondo sposo
La nostra casa; e de'suoi primi figli,
E di colui che vergine impalmolla,
Non si rammenta più, più non ricerca.
Quando ei nel buio della tomba giace.
Tu, partita la madre, a quale ancella
Più dabbene ti sembri, e più sentita,
Commetti il tutto, finché illustre sposa
Ti presentino al guardo i Dei clementi.
Altro dirotti, e il riporrai nel core.
Degli amanti i più rei, che tor dal mondo
Prinfa vorrianti, che alla Patria arrivi.
Nel mar tra la pietrosa Itaca e Same
Stanno in agguato. Io crederò che indarno,
E che la terra pria l'ossa spolpate
De' tuoi nemici chiuderà nel seno.
Non pertanto la nave indi lontana
Tieni, e notturno naviga; un amico
Vento t'invìerà quel tra gli Eterni,
Chiunque sia, che ti difende e guarda,
Come d' Itaca giunto alla più estrema
Riva sarai, lascia ir la nave, e tutti
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V. 51-86) LIBRO XV. 271
A.lla città i compagni ; e tu il custode
Cerca de' verri, che un gran ben ti vuole.
Seco passa la notte, ed in su Ta.lba
Mandai significando alla Regina,
Che a lei da Pilo ritornasti illeso.
Ciò detto, in un balen salse airOlimpo.
Egli Tamico dal suo dolce sonno,
Urtandolo del pie, subito scosse,
E gli drizzò queste parole: Sorgi,
Pisistrato, ed al cocchio i corridori
Solido unghiati sottoponi, e accoppia,
Se anche il viaggio nostro aver dee fine.
Telemaco, il Nestòride rispose.
Benché ci tardi di partir, non lice
Dell'atra notte carreggiar per Tombre.
Poco l'Aurora tarderà. Sostieni
Tanto almen, che il di lancia esperto Atride
Ponga nel cocchio gli ospitali doni,
E gentilmente ti licenzi. Eterna
L'ospite rimembranza in petto serba
Di chi un bel pegno d'amistà gli porse.
Disse; e nel trono d*6r l'Aurora apparve.
Il prode Menelao di letto allora
Sorto, e d'allato della bella Elèria,
Venne alla volta lor; né prima il caro
Figliuol d'Ulisse l'avvisò, che in fretta
Della lucente tunica le membra
Cinse, e gittò il gran manto a sé d'intorno,
Ed uscì fuori, e ì'abborilò, e gli disse:
Figlio d'Atrèo, di Giove alunno, duce
Di genti, me rimanda oggi al diletto
Nativo ciel, cui già con l'alma io volo.
Telemaco, rispose il forte Atride,
Io ritenerti qui lunga stagione
Non voglio a tuo mal cuore. Odio chi suole
Gli ospiti suoi festeggiar troppo, o troppo
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272 ODISSEA (V. 87-122)
Spregiarli: il meglio sempre è star nel mezzo.
Certo peccau del par chi discortese
L'ospite caccia di restar bramoso,
E chi bramoso di partir Tarresta.
Carezzalo indugiante, e quando scorgi
Che levarsi desia, dagli commiato.
Tanto dimora sol, ch'io non vulgari
Doni nel cocchio, te presente, ponga:
E comandi alle femmine che un pronto
Conforto largo di serbate dapi
T'apprestin nella sala, È glorioso
Del par che utile a te dell'infinita
Terra su i campi non passar digiuno.
Vuoi tu aggirarti per la Grecia, e l'Argo?
Giungerò i miei destrieri, e alle diversa
Città ti condurrò: treppiede, o conca
Di bronzo, o due bene appaiati muli,
vaga d'oro effigiata tazza.
Ci donerà ciascuno, e senza doni
Cittade non sarà che ci accommiati.
Telemaco a rincontro; Menelao,
Di Giove alunno, condottier di genti,
Nel mio palagio, ove nessun che il guardi,
Partendone, io lasciai, rieder mi giova.
Acciocché, mentre il padre indarno io cerco,
Tutti io non perda i suoi tesori e miei.
Udito questo, ad Elena e alle fanti
L'Atride comandò, s'apparecchiasse
Subita e lauta mensa. Eteonèo,
Che poco lungi dal suo Re dormia.
Sorto appena di letto, a lui sen venne;
E il foco suscitar, cuocer le carni.
Gì' impose Menelao: né ad ubbidirgli
Tardò un istante di Boote il figlio.
Nell'odorata solitaria stanza
Menelao incese, e non già sol: che seco
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(Y. 123458) , LIBRO XV. 273
Scesero Elèna e Megapente. Giunti
Là, 've la rioca suppellettil giace,
Tolse TAtride biondo una ritonda
Gemina coppa, e di levare un' urna
D'argento al figlio Megapente ingiunse.
Ma la donna fermossi all'arche innanzi
Ove i pepli giacean, che da lei stessa
Travagliati già furo, e variati
Con ogni sorta d'artifìcio Elèna
Il più ampio traeane, ed il più bello
Per moltiplici fregi: era nel fondo
Dell'arca, e sì rilusse in quel che alzollo,
Che stella parve che dai flutti emerga.
Con tai doni le stanze attraversare,
Finché furo a Telemaco davante.
Cui questi accenti Menelao converse:
Fortunato così, come tu il brami,
Ti consenta, o Telemaco, il ritorno
L'altitonante di Giunon marito.
Io di quel, che possiedo, a te dar voglio
Ciò che mi sembra più leggiadro e raro:
Un'urna effigiata, argento tutta,
Se non quanto su i labbri oro gialleggia,
Di Vulcano fattura. Il generoso
Re di Sidone, Fèdimo, donolla
A me, che d'Ilio ritornava, e cui
Ricettò ne' suoi tetti; e a te io la dono.
L'Atride in mano gli mettea la tonda
Gemina coppa: Megapente ai piedi
Gli recò l'urna sfolgorante; e poi
Elena, bella guancia, a lui di centra
Stette col peplo su le braccia, e disse:
Ricevi anco da me, figlio diletto.
Quest'altro dono, e per memoria tenlo
Delle mani d' Elèna. Alla tua sposa
Nel sospirato dì delle sue nozze
Odissea _ ift
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274 ODISSEA - (v. 159-194)
Le membra coprirà. Rimanga intanto
Della prudente genitrice in guardia;
E tu alla patria terra, e alle superbe
Case de* padri tuoi, giungi felice.
Ei con gioia sei prese; e i doni tutti.
Poiché ammirata la materia e l'arte
N'ebbe, allogò Pisistrato nel carro.
Quindi TAtride dalla bionda testa
Ambi condusse nella reggia, dove
Sovra i troni sedettero. L* ancella
Subitamente da bel vaso d'oro
Nell'argenteo bacile acqua lucente
Spandea, stendea desco polito, in cui
La veneranda dispensiera i bianchi
Pani venne ad imporre, e non già poche
Delle dapi serbate, ond'è custode.
Eteonèo partia le carni, e il vino
Megapente versava; e i due stranieri
La mano all'uno e all'altro ivan porgendo.
Ma come sazi della mensa furo.
Aggiogare i cavalli, e la vergata
Biga pronti salirò, e l'agitare
Fuor dell'atrio e del portico sonante.
Usci con essi Menelao, spumosa.
Perchè libasser pria, ciotola d'oro
Nella destra tenendo, e de' cavalli
Fermossi a fronte, e, propinando, disse:
Salute, prodi giovanetti, a voi
Ed al pastor de' popoli salute
Per vostra bocca, a Nestore, che fummi
Dolce, qual padre sotto i Teucri muri,
s Ed il saggio Telemaco a rincontro:
Tutto, non dubitar, di Giove alunno,
Saprà il buon vecchio. Oh potess'io non manco,
Tosto eh' io sarò in Itaca, ad Ulisse
Mostrare i tanti e cosi ricchi doni
DigitÌ2edbyG00gle_
(v. 195-230) LIBRO XV. 275
Ch'io da te ricevetti, e raccontargli,
Quale accoglienza io n* ebbi e qual commiato !
Tal favellava; e a lui di sopra e a destra
Un'aquila volò, che bianca e grande.
Domestica oca con gli adunchi artigli
Dalla corte rapia. Dietro gridando
Uomini e donne le correan: ma quella
S accostò^ pur da destra, ai due garzoni,
E davanti ai destrier rivolò in alto.
Tutti gioirò a cotal vista, e primo
Fu Pisistrato a dir: Nobile Atride,
Pensa in te stesso, se a te forse, o a noi
Tal prodigio inviare i Sempiterni.
Ei la risposta entro da sé cercava,
Ma l'antivenne la divina Elèna,
Dicendo, udite me. Quel ch'io indovino,
Certo avverrà: che me l'inspira un Nume.
Come questa volante aquila scesa
Dal natio monte, che i suoi parti guarda.
Si rapi l'oca nel cortil nodrita.
Non altrimenti Ulisse, alle paterne
Case venuto da lontani lidi.
Su i Proci piomberà; se par non venne,
E lor non apparecchia orrida morte.
E Telemaco allor: Cosi ciò voglia
L'altitonante di Giunon marito,
Come voti da me tu avrai, qual Diva!
Disse, e i destrieri flagellò, che ratti
Mosser per la cittade, e ai campi uscirò.
Correan l'intero di, squassando il giogo.
Che ad ambi stava sul robusto collo.
Tramontò il Sole, ed imbrunian le strade;
E i due giovani a Fera, e alla magione
Di Diòcle arrivar, del prode figlio
D'Orsiloco d'Alfèo, dove riposi
Ebber tranquilli, ed ospitali doni.
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276 ' ODISSEA (v. 231-266)
Ma come al Sole con le man rosate
L'Aurora aperse le celesti porte,
I cavalli aggiogare, e risalirò
La vergolata biga, e l'agitare
Fuor dell'atrio e del portico sonante.
Sferzò i destrier Pisistrato, è i destrieri
Di buon grado volavano: né molto
Stetter di Pilo ad apparir le torri.
Allor cosi Telemaco si volse
Al figliuol di Nestorre: di Nestorre
Figlino!, non desti a me fede, che sempre
Ciò tu faresti, che mi fosse gioia?
Paterni ospiti Siam, siam d'un' etade,
E più ancor ci unirà questo viaggio,
Non mi guidare oltra il naviglio mio,
Colà mi lascia: ritenermi il vecchio
Mal mio grado appo sé, di carezzarmi
Desioso, potrebbe; e a me bisogna
Tocca. 3 in breve la natia contrada.
, Mentre cosi Tun favellava all'altro.
Che d'attener la sua promessa i modi
Discorrea con la mente, in questo parve
Dover fermarsi. ìlipiegò i destrieri
Verso il mare e il naviglio; e i bei presenti
Onde ornato il compagno avea l'Atride,
Scaricò su la poppa. Indi, su via.
Monta, disse, di fretta, e a' tuoi comanda
Pria la nave salir, che me il mio tetto
Riceva, e il tutto al genitore io narri.
So, qual chiuda nel petto alma sdegnosa:
Ti negherà il congedo, in su la riva *
Verrà egli stesso, e benché senza doni
Da lui, cred* io, tu non partissi, un forte
Della collera sua scoppio io preveggo.
Dette tai cose, alla città de' Pili
Spinse i destrieri dal leggiadro crine,
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(V. 267-302) LIBRO XV. 277
E all'eccelsa magion rapido giunse.
E Telemaco a* suoi; Pronti la nave
Compagni, armate, e su montiamvi, e andiamo.
L'ascoltaro e ubbidirò. Immantinente
Montava, e s'assidea ciascun su i banchi.
Ei, la partenza accelerando, a Palla
Prieghi alla poppa, e sagrifìci offria;
Quando esul dalla verde Argo ferace
Per non voluta uccisione ignoto
Viandante appressoUo: era indorino,
E di Melampo dalla stirpe sceso.
Nella madre di greggi inclita Pilo
Melampo prima soggiornava, e come
Ricco uom, superbo vi abitava ostello:
Poi fuggendo la Patria, ed il più illustre
Tra gli uomini Nelèo, che i suoi tesori
Un anno intiero riteneagli a forza.
Capitò ad altre genti, e duri lacci
Nell'albergo di Filaco, e dolori
Gravi sostenne per la vaga figlia
Di Neleo, e per l'audace opra, cui messa
Gli avea nel capo la tremenda Erinni.
Ma scampò dalla morte, e a Pilo addusse
Le contrastate altomugghianti vacche,
Si vendicò dell* infedel Nelèo,
E consorte al fratel la vaga Pero
Da Filace menò. Quindi all'altrice
Di, nobili destrieri Argo sen venne,
Volendo il fato che su i molti Argivi
Regnasse; sposa quivi scelse; al cielo
Levò le pietre della sua dimora;
E i forti generò Mantio e Antifàte.
Di questo il grande Oiclèo nacque, e d'Oiclèo
Il salvator di genti Anfiarao, •
Cui tanto amor Febo portava, e Giove.
Pur di vecchiezza non toccò la soglia:
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278 ODISSEA (v. 303-338)
Che, generati Anfiloco e Alcmeóne,
Sotto Tebe perì dalla più avara
Donna tradito. Ma da Matìtio al giorno
Olito uscirò e Polifìde. L'aurora,
Per la beltà che in Olito alta splendea,
Rapillo, e il collocò tra gì' immortali;
E Febo, spento Anfiarao, concesse
Più, che ad altr* uom, de* vaticini il dono
A Polifìde, il qual crucciato al padre.
Trapassò in Iperesia, ove a ciascuno
Del futuro squarciar solca il velame.
Figlio a questo era il pellegrin che stette
Di Telemaco al fianco, e si chiamava
Teoclimèno: appo la negra nave,
Mentr* ei libava e supplicava, il colse,
E a lui con voci alate; Amico, disse.
Poi ch'io ti trovo a questi uffici intento,
Pe'sagrifizi tuoi, pel Dio cui gli offri.
Per lo tuo capo stesso, e per cotesti
Compagni tuoi, non mi nasconder nulla
Di quanto io chiederò. Chi e donde sei?
Dove i parenti a te? la Patria dove?
Stranier, così Telemaco rispose,
Su i labbri miei non sonerà che il vero.
Itaca è la mia Patria, il padre è Ulisse,
Se un padre ho ancor: quel, di cui forte io temo.
Però con negra nave e gente fida
Partii, cercando per diversi lochi
Novelle di quel misero, cui lunge
Tien dalla Patria sua gran tempo il fato.
E il pari ai Dei Teoclimèno: Anch'io
Lungi erro dalla mia, dacché v'uccisi
Uom dalla mia tribù, che lasciò molti
Parenti e amici prepossenti in Argo.
Delle lor man vendicatrici uscito.
Fuggo, e sieguo il destin che Tarapia terra
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(v. 339-374) LIBRO xv. ^ 279
Con pie ramingo a calpestar mi traggo.
Deh su la nave tua me supplicante
Ricovra, e da color che vengon forse
Su i miei vestigi, tu che il puoi, mi salva.
Il prudente Telemaco di nuovo:
Dalla mia nave, in cui salir tu brami.
Esser non potrà mai ch'io ti respinga.
Seguimi pur: non maneheranti in nave
Quei, che di darti è in me, doni ospitali.
Ciò detto. Tasta dalla man gli prese,
E della nave stesela sul palco.
Poscia montovvi,e sedò in poppa, e al fianco
Seder si feo Teoclimèno. Sciolte
Dai compagni le funi, ei loro impose
Di correre agli attrezzi, ed i compagni
Ratti ubbidirò: il grosso abete in alto
Drizzare, e Timpiantaro entro la cava
Base, di corda Tannodaro al piede,
E le candide vele in su tirare
Con bene attorti cuoi. La Dea che in giro
Pupille tinte d'azzurrino muove,
Precipite mandò dal cielo un vento
Destro, gagliardo, perchè in brevi istanti
Misurasse del mar Tonde il naviglio.
Crune passò il buon legno, e la di belle
Acque irrigata Calcide, che il Sole
Già tramontava, ed imbrunian le strade;
E, spinto sempre da quel vento amico.
Cui governava un Dio, sopra Fea sorse;
E di là costeggiò TElide, dove
Regnan gli Epèi. Quinci il figliuol d'Ulisse
Tra le scoscese Echinadi si mise.
Pur rivolgendo nel suo cor, se i lacci
Schiverebbe de* Proci, o vi cadrebbe.
Ma in altra parte Ulisse e il buon custode
Sedean sott'esso il padiglione a cena,
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280 ODISSEA (v. 375-410)
E non lunge sedean gli altri pastori.
Pago de* cibi il naturai talento,
Ulisse favellò, tentando Eumèo,
S'ei, non cessando dalle cure amiche.
Ritenerlo appo sé nella sua cara
Stalla intendesse, o alla città mandarlo.
Eumèo, disse, m'ascolta; e voi pur tutti.
Tosto che il ciel s'inalbi, alla cittade,
Ond'io te non consumi, ed i compagni.
Condurmi io voglio a mendicar la vita.
Ma tu d'utili avvisi, e d'una scorta
/ Fidata mi provedi. Andrò vagando
Di porta in porta, e ricercando, come
Sforzami rea necessità, chi un pane
Mi porga, ed una ciotola. D'Ulisse
Mi farò ai tetti, e alla sua donna saggia
Novelle recheronne, e avvolgerommi
Tra i Proci alteri, che lasciarmi forse
Nella lor copia non vorran digiuno.
Io, che che piaccia lor, subito e bene,
Eseguirò; poiché, saper t'è d'uopo
Che per favor del messagger Ermete,
Da cui grazia ed onore acquista ogni opra,
Tal son, che ne* servigi, o il foco sparso
Raccor convenga, o le risecche legna
Pendere, o cuocer le tagliate carni,
il vin d'alto versare, uffici tutti J
Che i minori prestar sogliono ai grandi, j
Me nessun vince su l'immensa terra. |
Sdegnato assai gli rispondette, Euméo; j
Ahi! qual pensier ti cadde, ospite, incapo? 1
Brami perir, se raggirarti pensi j
Tra i Proci, la cui folle oltracotanza |
Sale del ciel sino alla ferrea volta.
Credi a te somigliare i lor donzelli?
Giovani in belle vestimenta, ed unti
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V. 411-446) LIBRO XV. 281
La chioma sempre, e la leggiadra faccia,
Ministrano ai superbi; e sempre cardie
Delle carni, de' pani e de* licori
Splendono agli occhi le polite mense.
Elimani: che né a me, nò de* compagni
jrave al alcun la tua presenza torna.
Ma come giunto sia d*Ulisse il figlio.
Da lui tunica e manto, e da lui scorta
Riceverai, dove che andar t'aggradi.
Eumèo, rispose il paziente Ulisse,
Possa Giove amar te, siccome io t'amo,
Te, che al vagar mio lungo ed all'inopia
Ponesti fine! Io non so peggio vita:
Ma il famelico stomaco latrante
Grl' inopi a errar, per acchetarlo, sforza,
E que'mali a soffrir, che ad una vita
Povera s'accompagnano, e raminga.
Or, quando vuoi eh' io teco resti, e aspetti
Telemaco, su via, della canuta
Madre d'Ulisse parlami, e del padre,
Che al tempo che il fìgliuol sciolse per Troia,
Della vecchiezza il limitar toccava.
Veggon del Sole in qualche parte i rai?
d'Aide la magion freddi gli accolse?
Ospite, ripigliò l'inclito Eumèo,
Altro da me tu non udrai, che il vero.
Laerte vive ancora, e Giove prega
Che la stanca dal corpo alma gli tragga :
Tanto del figlio per l'assenza, tanto
Per la morte si duol della prudente
Moglie, che intatta disposoUo, e in trista
Morendo il collocò vecchiezza cruda.
La lontananza del suo figlio illustre
A poco a poco, ed infelicemente.
Sotterra la condusse. Ah tolga Giove,
Che qual m'è amico, e con amor mi tratta,
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282 ^ ODISSEA (v. 447-482
Per una aimìì via discenda a Dite!
Finch' ella visse, m'era dolce cosa,
Sebben dolente si mostrasse in faccia.
L'interrogarla e il ricercarla spesso:
Poich' ella mi nutrì con la de' pepli
Vaga Ctimene, sua figliuola egregia,
E de* suoi parti l'ultimo. Con questa
Cresceami, e quasi m'onorava al pari.
Ma come fummo della nostra etade
Ambi sul primo invidìabil fiore.
Sposa lei fero in Same, e ricchi doni
N'ebbero, ed infiniti: e me con vesti
Leggiadre in dosso, e bei calzari ai piedi,
Mandò i campi abitar la mia signora.
Che di cor ciascun dì vie ^piti m* amava.
Quanto seco io perdetti! E ver che queste
Fatiche dure, in che la vita io spendo.
Mi fortunano i Numi, e ch'io gli estrani
Finor ne alimentai, non che me stesso.
Ma di fatti conforto, o di parole
Sperare or da Penelope non lice:
Che tutta in preda di superba gente
É la magion; né alla Regina ponno
Rappresentarsi e far domande i servi.
Pigliar cibo e bevanda al suo cospetto,
E poi di quello ancor, che l'alma loro
Sempre rallegra, riportare ai campi.
Eumèo, rispose l'avveduto Ulisse,
Te dalla Patria lungi e da' parenti
Pargoletto sbalzò dunque il tuo fato?
Orsti, ciò dimmi, e schiettamente: venne
La città disertata, in cui soggiorno
Avea la madre veneranda e il padre?
O incautamente abbandonato fosti
Presso le agnelle o i tori, e gente ostile
Ti rapi sulle navi, e ai tetti addusse
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V. 483-518) LIBRO XV. 283
)i questo Re, che ti comprò a gran prezzo?
Ed a rincontro Eumèo, d'uomini capo:
Quando a te risaperlo, ospite, caie,
Tacito ascolta, e goditi, e alle labbra
VIettì, assiso, la tazza. Or cosi lunghe
Lic notti van, che trapassar si ponno
Parte dormendo, e novellando parte.
Sé corcarti t'è d'uopo innanzi al tempo;
luco il gran sonno nuoce. Ove degli altri,
^iò piacesse ad alcuno, esca e s'addorma:
yia, fatto bianco l'Oriente, siegua,
C^on digiuno però, gl'ispidi verri.
5 noi sediam nel padiglione a mensa,
\.mbi a vicenda delle nostre doglie.
Diletto, rimembrandole, prendendo;
Poiché de* mali ancora uom, che sofferse
Molto, e molto vagò, prende diletto.
Ceri' isola, se mai parlar ne udisti,
Gliace a Delo di sopra, e Siria è detta,
Dove segnati del corrente Sole
I ritorni si veggono. Già grande
Non è troppo, ma buona; armenti e greggi
Produce in copia, e ogni speranza vince
Col frumento e col vino. Ivi la fame
Non entra mai, nò alcun funesto morbo
Consuma lento i miseri mortali:
Ma come il crine agli abitanti imbianca.
Cala, portando in man l'arco d'argento,
Apollo con Artemide, e gli uccide
Di saetta non vista un dolce colpo.
Due cittadi ivi son di nerbo eguale;
E rOrmenide Ctesio, il mio divino
Padre, dell'una e l'altra il fren reggea.
Capitò un giorno di Fenici, scaltra
Gente, e del mar misuratrice illustre.
Rapida nave negra, che infinite
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284 ODISSEA (v. 519-554)
Chiudea in sé stessa bagattelle industri.
Sedusse? questi uùa fenicia donna,
Che il padre schiava nel palagio avea.
Bella, di gran persona, e di leggiadri
Lavori esperta. I maculati panni
Lavava al fonte presso il cavo legno.
Quando un di qu«* ribaldi a ciò la trasse,
Che alle femmine incaute, ancor che vote
Non sien d*ogni virtù de, il senno invola.
Poscia chi fosse, richiedeale, e donde
Venuta: ed ella senza indugio l'alte
Del padre mio case additegli, e disse:
Io cittadina della chiara al mondo
Sidone metallifera, e del ricco
Aribante figliuola esser mi vanto.
Tafi ladroni mi rapirò un giorno,
Che dai campi tornava, e mi venderò,
Trasportata sul mare, a quel signore ,
Che ben degno di me prezzo lor diede.
Non ti saria, colui rispose allora.
Caro dunque il seguirci, ed il superbo
De' tuoi parenti rivedere albergo?
Riveder lor, che pur son vivi, e in fama
Di dovizia tra noi? Certo mi fora.
La donna ripigliò, sol che voi tutti
Di ricondurmi al natio suol giuriate
Salva sul mar na vigere, e sicura.
Disse; e tutti giuravano. E in tal guisa
Tra lor di nuovo favellò la donna: |
Statevi or cheti, e o per trovarmi al fonte,
E incontrarmi tra via, nessun mi parli.
Risaprebbelo il vecchio, e di catene
Me graverebbe, sospettando, e a voi
Morte, cred* io, macchineria. La cosa
Tenete dunque in seno, e' a provvedervi
Di quanto v'è mestier, pensate intanto.
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(v. 555-590) LIBRO XV. ' 285
La nave appien vettovagliata e carca,
Giungane a me l'annunzio in tutta fretta,
Ed io, non che altro, recherò con meco
Quanto sotto alle man verràmmi d'oro.
Altra mercè vi darò ancora, un figlio
Di quest'ottimo Re nel suo palagio
Rallevo, un vispo tal, che ad ogn' istante
Fuor mi scappa di casa. Io vi prometto
Alla nave condurlovi; né voi
Picciol tesor ne ritrarrete, ovunque
Per venderlo il meniate a estranie genti.
Disse, e alla reggia ritornò. Coloro,
Nel paese restando un anno intero,
Fean di vitto e di merci immenso acquisto.
Fornito il carco, e di salpare in punto.
Un messaggio alla femmina spedirò.
Uomo spedir d'accorgimenti mastro.
Che con un bello, aureo monile, e d'ambra
Vagamente intrecciato, a noi sen venne.
Madre ed ancelle il rivolgeantra mano,
Prezzo non lieve promettendo, e a gara
Gli occhi vi tenean su. Tacitamente
Quegli ammiccò alla donna: indi alla nave
Drizzava i passi. Ella per mano allora
Presemi, e fuori uscì : trovò le mense
Nell'atrio, e 1 nappi, in che bevean del padre
I commensali al parlamento andati
Con esso il padre caro ; e di que' nappi
Tre, che in grembo celò, via ne portava
Ed io seguiala nella mia stoltezza.
Oià tramontava il Sole, e di tenèbre
Ricopriasi ogni strada; e noi veloci
Giungemmo al porto e alla fenicia nave.
Tutti saliti, le campagne acquose
Pendevam lieti con un vento in poppa,
Che da Giove spiccavasi. Sei giorni
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286 ODISSEA (v. 591626;
Le fendevamo, e notti sei: ma Giove
Il settimo non ebbe agli altri aggiunto.
Che dalla Dea, d'avventar dardi amante,
Colpita fu la nequitosa donna.
Nella sentina con rimbombo cadde,
Quasi trafìtta folaga. Tra Tacque
La scagliaro i Fenici, esca futura
Ai marioi vitelli; e nella nave
Solo io rimasi, abbandonato e mesto»
Poi Tonda e il vento li sospinse ai lidi
D'Itaca, dove me comprò Laerte.
E cosi questa terra, ospite io vidi.
Eumèo, rispose il paziente Ulisse,
Molto a me TiUma commovesti in petto
Narrando i casi tuoi. Ma Giove almeno
Vicin tosto ti pose al male il bene,
Poiché venisti ad un signor cortese
Che quanto a rallegrar, non che a serbare,
La vita è d'uopo, non ti niega. Ed io
Sol dopo lunghi e incomodi viaggi
Di terra in terra, a queste rive approdo.
Tali fra lor correan parole alterne.
Dormirò al fin, ma non un lungo sonno:
Che in seggio a comparir d'oro la bella
Già non tardò ditirosata Aurora. |
Frattanto di Telemaco i compagni
Presso alla riva raccogliean le vele.
L'albero dechinàr, lanciaro a remi
La nave in porto, l'ancore gittaro,
Ed i canapi avvinsero. Ciò fatto.
Sul lido usciano, ed allestian la cena.
Rintuzzata la fame, e spenta in loro
La sete, Voi, cosi d'Ulisse il figlio,
Alla città guidatemi la nave,
Mentre a' miei campi ed ai pastori io movo
Del cielo all'imbrunir, visti i lavori,
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(v. 627-662) LIBRO xv. _ , 287
10 pure inurberommi, e in premio a voi
Lauto domane imbandirò convito.
Ed io dove ne andrò figlio diletto?
Teoclimèno disse. A chi tra quelli,
Che nella discoscesa Itaca sono
Più potenti, offrirommi? Alla tua madre
Dritto ir dovronne, e alla magion tua bella?
11 prudente Telemaco riprese:
Io stesso in miglior tempo al mio palagio
T'invierei, dove cortese ospizio
Tu non avresti a desiare. Or male
Capiteresti: io non sarei con teco,
Né te vedria Penelope, che scevra
Dai Proci, a cui raro si mostra, tele
Nelle più alte stanze a oprare intende.
Un uom bensì t'additerò, cui franco
Puoi presentarti: Eurimaco, del saggio
Polibo il figlio, che di Nume in guisa
Onoran gì' Itacesi. Egli è il più prode ,
E il regno, più che gli altri, e la consorte
D'Ulisse affetta. Ma se, pria che questo
Maritaggio si compia, i Proci tutti
Non scenderanno ad abitar con Pluto,'
L'Olimpio il sa, benché sì alto alberghi.
Tal favellava; ed un augello a destra
Gli volò sovra il capo, uno sparviere.
Ratto nunzio d'Apollo: avea nell'ugne
Bianca colomba, e la spennava, e a terra
Fra lo stesso Telemaco e la nave
Le piume ne spargea. Teoclimèno
Ciò vide appena, che il garzon per mano
Prese, e il trasse in disparte, e sì gli disse:
Senza un Nume, o Telemaco, l'augello
Non volò a destra. Io, che di centra il vidi,
Per augurale il riconobbi. Stirpe
Più regia della tua qui non si trova,
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S88 ODISSEA (v. 663M)
Qui possente ad ognor fìa la tua casa.
Così questo, Telemaco rispose,
S'avveri, o foresti er, com* io tal pegni
Ti darei d'amistà, che te chiunque
Ti riscontrasse, chiameria beato.
Quindi si volse in cotal guisa al fido
Suo compagno Pireo: Figlio di Olito,
Tu, che le voglie mie fosti mai sempre
Tra quanti a Pilo mi seguirò, e a Sparta,
Condurmi il forestiero in tua magione
Piacciati, e usargli, finché io vengo, onore.
Per tardi, gli rispose il buon Pireo,
Che tu venissi, io ne avrò cura, e nulla
D'ospitale sarà che nel mio tetto.
Dove il condurrò tosto, ei non riceva.
Detto, salse il naviglio, e dopo lui
Gli altri salìanlo, e s'assidean su i banchi.
Telemaco s'avvinse i bei calzari
Sotto i pie molli, e la sua valid' asta
Rame appuntata, che giacca sul palco
Della nave, in man tolse; e quei le funi
Sciolsero. Si spingean su con la nave
Ver la città, come il garzone ingiunse;
Ed ei studiava il passo, in sin che innanzi
Gli s'aperse il cortile, ove le molte
S'accovacciavan setolose scrofe.
Tra cui vivea l'inclito Eumèo, che, o fosse
Nella veglia o nel sonno, i suoi padroni
Dormendo ancor, non che vegliando, amava
ed by Google
LIBRO DECIMOSESTO
ARGOMENTO
Letizia d* Eumèo air arrivo di Telemaco , che mandalo alla
città, per avvertir del suo ritorno la madre. — Minerva
appare ad Ulisse, gli restituisce le sue sembianze; e gli
comanda di scoprirsi al figliuolo. — Intanto que' Proci che
erano in agguato, accortisi del ritorno di Telemaco, escono
di quello, e si rendono in Itaca. — Eumèo . eseguito Tor-
dine, sa. riconduce alla villa, né riconosce però Ulisse , cui
Pallade novamente trasforma.
L'inclito Eumèo nel padiglione, e Ulisse,
Racceso il foco in su la prima luce,
Leggier pasto allestiano; e fuori al campo
Co* neri porci uscìan gli altri custodi.
Ma i cani latrator, non che a Telemaco
Non abbaiar, festa gli feano intorno.
S'avvide Ulisse del blandir de' cani,
E d'uom un calpestìo raccolse, e queste
Voci drizzò al pastor: Certo qua, Eumèo,
tuo compagno o conoscente, giunge:
Poiché, lontani dal gridare, i cani
Latratori car^zzanlo, ed il basso
De* suoi vicini pie strepito io sento.
Non era Ulisse al fin di questi detti,
Che neir atrio Telemaco gli apparve.
Balzò Eumèo stupefatto, e a lui di mano
1 vasi, ove mescea l'ardente vino,
Caddero: andògli incontro, e il capo, ed ambi
Gli baciò i rilucenti occhi e le mani,
E un largo pianto di dolcezza sparse.
Odissea oigtizedbyQjpogle
290 *^ ODISSEA (v. 21-56)
Come tenero padre un figlio abbratìcia,
Che il decim;' anno da remota piaggia
Ritorna, unico figlio, e tardi nato.
Per cui soffrì cento dolori, e cento;
Non altrimenti Eumèo, gittate al collo
Del leggiadro Telemaco le braccia,
Tutto bacioUo, quasi allora uscito
Dalle branche di Morte, e lagrimando,
Telemaco, gli disse, amato lume.
Venisti adunque! Io non avea più speme
Di te veder, poiché volasti a Pilo.
Su via, diletto figlio, entrar ti piaccia.
Si oh' io goda mirarti or, che d'altronde
Nel mio soggiorno capitasti appena.
Raro i campi tu visiti, e i pastori;
Ma la città ritienti, e la funesta .
Turba de* Proci che osservar ti cale.
Kntrerò, babbo mio, quegli rispose:
Che per te, per vederti, e le tue voci
Per ascoltare, al padiglione io vegno.
Restami nel palagio ancor la madre?
O alcun de* Proci disposolla, e nudo
Di coltri e strati, e ai sozzi aragni in preda
Giace del figlio di Laerte il letto?-
Nel tuo palagio, ripigliava Eumèo,
Riman con alma intrepida la madre
Benché nel pianto a lei passino i giorni,
Passin le notti; ed ella viva indarno.
Ciò detto, Tasta dalla man gli prese,
E Telemaco il pie mettea sul marmo
Della soglia, ed entrava. Ulisse a lui
Lo scaimo, in cui sedea, cesse: ma egli
Dal lato suo non consentialo, e, Statti,
Yorestier, disse, assiso; un altro seggio
'oi troverem nella capanna nostra,
quell'uomo è lontaa, che dar mei puote.
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(v. 57-92) LIBRO XVI. 291
Ulisse, indietro fattosi, di nuovo
Sedea. Ma il saggio guardian distese
Virgulti verdi, e una vellosa pelle,
E il garzon vi adagiò. Poi le rimaste
Del giorno addietro abbrustolite carni
LàOr recò su i taglieri; e ne* canestri
Posti Tun sovra Taltro in fretta i pani,
E il rosso vino nelle tazze infuso,
Ad Ulisse di centra egli s*assise.
Sbramato della mensa ebbero appena
11 desiderio naturai, che queste
Telemaco ad Eumèo drizzò parole:
Babbo, d'onde quest'ospite? In che guisa
E quai nocchieri ad Itaca il menare?
Certo a piedi su l'onda ei qua non venne.
E tu così gli rispondesti, Eumèo:
Nulla, fìgliuol, ti celerò. Natio
Dell'ampia Creta egli si vanta, e dice
Molti paesi errando aver trascorsi
Per volontà d'un Nume avverso. Al fine
Si calò giù da una Tesprozia nave,
E al mio tugurio trasse. Io tei consegno.
Quel che tu vuoi, ne fa'; sol ti rammenta
Ch'ei di tuo supplicante ambisce il nome.
Grave al mio cor, Telemaco riprese,
Parola, Eumèo, tu proferisti. Come
L'ospite ricettar nella paterna
Magion poss' io? Troppo io son verde ancora,
Né rispinger da lui con questo braccio
Chi primo l'assalisse, io mi confido.
La madre sta fra due, se, rispettando
La comun voce e il maritai suo letto,
; Viva col figlio, e la magion governi,
O a quel s'unisca degli Achei, che doni
Le pFesenta più ricchi, ed è più prode.
Bensì al tuo forestier tunica e manto,
. Digitizedby Google
292 ODISSEA (v.^93-128)
E una spada a due tagli, bei calzari
Dar voglio, e là inviarlo, ov'ei desia.
Che se a te piace ritenerlo,' e cura
Prenderne, io vesti, e d'ogni sorta cibi, .
Perchè te non consumi, e i tuoi compagni.
Qua manderò. Ma ch*ei s'accosti ai Proci,
Che d'ingiurie il feriscano, e d'oltraggi
Con dolor mio, non sarà mai ch'io soffra.
Che potria contro a tanti e si valenti
Nemici un sol, benché animoso e forte?
Nobile amico, così allora Ulisse,
Se anco a me favellare or si concede.
Il cor nel petto mi si rode, udendo
La indegnitade in tua magion de' Proci,
Mentre di tal sembiante io pur ti veggo.
Cedi tu volontario? O in odio forse
Per l'oracol d'un Dio t'ha la cittade?
i fratelli abbandonanti, cui tanto
S'affida l'uom nelle più dure imprese?
Perchè con questo cor l'età mia prima
Non ho? Perchè non son d'Ulisse il figlio?
Perchè Ulisse non son? Vorrei che tronco
Per mano estrana mi cadesse il capo,
S'io, nella reggia penetrando, tutti
Non mandassi in rovina. E quando ancora
Me soverchiasse l'infinita turba.
Perir terrei nella mia reggia ucciso
Pria che mirar tuttora opre si turpi,
Gli ospiti mal menati, violate
Ahi colpa! le fantesche, ed inghiottito
A caso, indarno, e senza fine frutto.
Quanto si miete ogni anno e si vendemmia.
Straniero, eccoti il ver, ratto rispose
Il prudente Telemaco: non tutti
M'odiano i cittadin, né de' fratelli.
Cui tanto l'uom nelle più dubbie imprese
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(v. 129-164) LIBRO xvi; 293
Suole appoggiarsi, richiamarmi io posso.
Volle il Saturnio che di nostra stirpe
D'età in età spuntasse un sol rampollo.
Arcesio generò Laerte solo,
Laerte il solo Ulisse, e poscia Ulisse
Me lasciò nel palagio, unico figlio,
Di cui poco godè: quindi piantossi
Nemica gente al nostro albergo in seno.
Quanti ha Dulichio e Same, e la selvosa
Zacinto, e la pietrosa Itaca prenci,
Ciascun la destra della madre agogna.
Ella né rigettar può, né fermare
Lo inamabili nozze. Intanto i Proci
Cuoprono i deschi con le pingui membra
Delle sgozzate vittime, e gli averi
Mi struggon tutti; né andrà molto forse,
Che più grata sarò vittima io stesso.
Ma ciò ^e'Numi su i ginocchi posa.
Babbo, tu vanne rapido, e alla madre
Narra che salvo io le tornai da Pilo.
Così «narralo a lei, che alcun non t*oda
Degli Achivi, e qua riedi, ov'io m'arresto.
Ben sai che molti del mio sangue han sete.
E tu in risposta gli dicesti, Eumèo:
Conosco, veggo, ad uom che intende, parli.
Ma non vorrai che messo all'infelice
Laerte ancor per la via stessa io vada?
Ei, pensoso d'Ulisse un tempo e tristo.
Pur dei campi ai lavor guardava intento,
E, dove brama nel pungesse, in casa
Pasteggiava co' servi. Ed oggi è fama
Che da quel dì che navigasti a Pilo,
Né pasteggiò co' servi, né de' campi
Più ai lavori guardò; ma sospirando
Siede, e piangendo, e alle scarne ossa intanto
S'affigge, ohimè! l'inaridita cute.
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294 ODISSEA _ (v. 165-200)
Gran pietade! Telemaco riprese.
Ma lasciamolo ancor per brevi istanti
Nella sua doglia. Se in man nostra tutto
Fosse, il ritorno a procurar del padre
Non si rivolgerebbe ogni mia cura?
Esponi adunque 1* imbasciata, e riedi,
Né a lui pe' campi divertir; ma solo
Priega la madre, che in tua vece al vecchio
Secreta imbasciatrice e frettolosa
La veneranda economa destini.
Detto così, eccitollo; ed ei con mano
Presi i calzari, e avvintiseli ai piedi.
Subitamente alla città tendea.
Non partì dalla stalla il buon custode,
Che l'armigera Dea non se ne addesse.
Scese dal cielo, e somigliante in vista
A bella e grande, e de* più bei lavori
Femmina esperta, si fermò alla porta
Del padiglion di centra, e a Ulisse apparve.
Telemaco non videla: che a tutti
Non si mostran gì* Iddìi. Videla il padre,
E i mastini la videro, che a lei
Non abbaiar, ma del cortil nel fondo
Trepidi si celare e guaiolanti.
Ella accennò co' sopraccigli, e il padre
La intese, ed uscì fuori, e innanzi stette
Nella corte alla Dea, che sì gli disse:
Laerziade generoso e accorto,
Tempo è che al tuo figliuol tu ti palesi,
Onde, sterminio meditando ai Proci,
Moviate uniti alla città. Vicina,
Ed accinta a pugnar, tosto m'avrete.
Tacque Minerva, e della verga 'd*oro
Toccollo. Ed ecco circondargli a un tratto
Belle vesti le membra, e il corpo farsi
Più grande e più robusto; ecco le guanoe
.fligitizedbyGoOQle
(v. 201-236) LIBRO xvT. 295
Stendersi, e già ricolorarsì in bruno,
E all'azzurro tirar su per lo mento
I peli, che. parean d'argento in prima.
La dea sparì, rientrò Ulisse; e il figlio,
Da maraviglia preso e da terrore,
Chinò gli sguardi, e poscia. Ospite, disse,
Altro da quel di prima or mi ti mostri,
Altri panni tu vesti, ed a te stesso .
Più non somigli. Alcun per fermo sei
Degli abitanti dell'Olimpo. Amico
Guardane, acciò per noi vittime grate,
Grati s'offrano a te doni nell'oro
Con arte sculti: ma tu a noi perdona.
Non sono alcun degl' Immortali, Ulisse
Gli rispondea. Perchè agli Dei m' agguagli?
Tuo padre io son: quel per cui tante soffri
Nella tua fresca età sciagure ed onte.
Così dicendo^ baciò il figlio, e al pianto,
Che dentro gii ocelli avea costantemente
Ritenuto sin qui, l'uscita aperse.
Telemaco d'aver su gli occhi il padre
Credere ancor non sa. No, replicava,
Ulisse tu, tu il genitor non sei,
Ma per maggior mia pena un Dio m' inganna.
Tai cose oprar non vale uom da sé stesso,
Ed è mestier che a suo talento il voglia
Ringiovanire, od invecchiarlo, un Nume.
Bianco i capei testé, turpe le vesti
Eri, ed ora un Celicela pareggi.
Telemaco, riprese il saggio eroe.
Poco per veritade a te s'addice,
Mentre possiedi il caro padre, solo
Maraviglia da lui trarre e spavento:
Che un altro Ulisse aspetteresti indarno.
Sì, quello io son, che dopo tanti affanni
Durati e tanti, nel vigesim'anno
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296 - ODISSEA (v. 237-272;
La mia Piatria Tividi. Opra fti questa
Della Tritonia bellicosa Diva
Che qual piti aggrada a lei, tale mi forma,
Ora un canuto mendicante, e quando
Giovane con bei panni al corpo intorno:
Però che alzare un de' mortali al cielo,
negli abissi porlo, è lieve ai Numi.
Cosi detto, s*assise. Il figlio allora
Del genitor s'abbandonò sul collo.
In lagrime scoppiando ed in singhiozzi.
Ambi un vivo desir sentian del pianto:
Né di voci sì flebili e stridenti
Risonar s'ode il saccheggiato nido
D'aquila o d'avvoltoio, a cui pastore
Rubò i figliuoli non ancor pennuti,
Come de' pianti loro e delle grida
Miseramente il padiglion sonava.
E già piagnenti e sospirosi ancora
Lasciati avriali, tramontando, il Sole,
Se il figlio al padre non dicea: Qual nave.
Padre, qua ti condusse, e quai nocchieri?
Certo in Itaca il piò non ti portava.
Celerò il vero a te? l'eroe rispose.
1 Feaci sul mar dotti, e di quanti
Giungono errando alle lor piagge, industri
Riconduttori, me su ratta nave
Dormendo per le salse onde guidaro,
E in Itaca deposero. Mi fero
Di bronzo in oltre e d'oro, e intesti panni.
Bei doni, e molti, che in profonde grotte
Per consiglio divin giaccionmi ascosi.
Ed io qua venni al fin, teco de' Proci
Nostri nemici a divisar la strage.
Con l'avviso di Pallade. Su, via.
Contali a me, sì eh' io conosca, quanti
Uomini sono, e quali, e nella mente
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(v. 273-308) ' - LiBRp XVI. 297
Libri, Sé contrà lor combatter i^oli,
O in aiuto chiamape altri convegna.
O padre mio, -Telemaco riprese.
Io sempre udia te celebrar la fama
Bellicoso di man, di mente accorto:
Ma' tu cosa dicesti or gigantesca
Cotanto, che alta maraviglia tiemmi.
Due soli battagliar con molti e forti?
Non pensar che a una decade, o a due sole ,
Montin: sono assai più. Cinquantadue
Giovani eletti da Dulichio uscirò,
S sei donzelli li seguiauo. Venti
Ne mandò Same, e quattro; e abbandonaro
Venti Zacinto. Itaca stessa danne
Dodici, e tutti prodi; e v'ha con essi
Medonte araldo, ed il cantor divino,
E due nell'arte loro incliti scalchi.
Ci affronterem con questa turba intera.
Che la nostra magion possiede a forza?
Temo che allegra non ne avrem vendetta.
Se rinvenir si può chi a noi soccorra
Con pronto braccio e cor, dunque tu pensa.
Chi a noi soccorra? rispondeagli Ulisse.
Giudicar lascio a te, figlio diletto.
Se Pallade a noi basti, e basti Giove,
O cercar d'altri, che ci aiuti, io deggia.
E il prudente Telemaco:' Quantunque
Siedan lungi da noi su l'alte nubi,
Nessun ci può meglio aiutar di loro.
Che su i mortali imperano, e §\i i Divi.
Non sederan da noi lungi gran tempo,
Il saggio Ulisse ripigliava, quando
Sarà della gran lite arbitro Marte.
Ma tu il palagio su l'aprir dell'alba
Trova e t'aggira tra i superbi Proci.
Me poi simile in vista ad un mendico,
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29S ODISSEA ' X^' 30ap'344^
Dispregevole vecchio il fido Eumèo
Nella cittade condurrà. Se oltraggio
Mi verrà fatto tra le nostre mura,
Soffrilo; e dove ancor tu mi vedessi
Trar per li pie fuor della soglia, o segno
D*acerbi colpi far, lo sdegno affrena.
Sol di cessar dalle follie gli esorta,
Parole usando di mèle consperse.
A cui non baderan: però che pende
L'ultimo sovra lor giorno fatale.
Altro dirotti, e tu fedel conserva
Nel tuo petto ne fa'. Sei tu mio figlio?
Scorre per le tue vene il sangue mio?
Non oda alcun eh' è in sua magione Ulisse;
E né a Laerte pur, né al fido Eumèo,
Né alla stessa Penelope, ne venga.
Noi soli spierera, tu ed io. l'ingegno^
Dell'ancelle e de* servi; e vedrem noi,
Qual ci rispetti, e nel suo cor ci tema, ^
O quale a me non guardi, e te non curi.
Benché fuor dell'infanzia, e non da ieri.
Padre, riprese il giovinetto illustre,
Spero che me conoscerai tra poco,
E ch'io né ignavo ti parrò, né folle.
Ma troppo utile a noi questa ricerca.
Credo, non fora; e ciò pesar ti stringo.
Vagar dovresti lungamente, e indarno.
Visitando i lavori, e ciascun servo
Tentando; e intanto i Proci entro il palagio
Ogni sostanza tua struggon tranquilli.
Ben tastar puoi delle fantesche l'alma,
Qual colpevole sia, quale innocente:
Ma de' famigli a investigar pe' campi
Soprastare io vorrei, se di vittoria
Segno ti die l'egidarmato Giove.
Mentre si fean da lor queste parole,
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(v. 345-380) " LIBRO XVI. 25
La nate, che Telemaco e i compagni
Condotti avea da Pilo, alla cittade
Giunse, e nel porto entrò. Tirare in secco
Gli abili servi, e disarmare il legno,
E di Olito alla casa i preziosi
Doni rcQaro dell' Atride. In oltre
Mosse un araldo alla magion d'Ulisse
Nunziando a Penelope che il figlio
Ne* campi suoi si trattenea, perch'ella,
Visto entrar senza lui nel porto il legno,
Di nuovo pianto non bagnasse il volto.
L'araldo ed il pastor dier Tun nell'altro
Con la stessa imbasciata entro i lor petti.
Nò pria varcar della magion la soglia,
Che il banditor gridò tra le fantesche:
Reina, è giunto il tuo diletto figlio.
Ma il pastore a lei sola, ed all'orecchio.
Ciò tutto espose, che versato in core
Telemaco gli avea: quindi alle mandre
Ritornare affrettavasi, l'eccelse
Case lasciando, e gli steccati a tergo.
Ma tristezza e dolor l'animo invase
De* Proci. Uscirò del palagio, il vasto
Cortile attraversare, ed alle porte
Sedean davanti. Amici, in cotal guisa
Eurimaco a parlar tra lor fa il primo:
Ebben, che dite voi di questo, a cui
Fede si poca ciaschedun prestava,
Viaggio di Telemaco? Gran cosa
Certo, e condotta audacemente a fine.
Convien nave mandar delle migliori
Con buoni remiganti, acciocché torni
Quella di botto, che agli agguati stava.
Proflferte non avea l'ultime voci.
Che Anfinomo, rivolti al lido gli occhi,
Un legno scorse nel profondo porto,
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800 ' ODISSEA, ~ ,(v. 381-416;
Ed altri intesi a ripiegar le vele.
Altri i remi a deporre, e, dolcemente
Ridendo, non s'invi! messaggio alcuno,
Disse, già. dentro sono: o un Nume accorti
Li fece, o trapassar videro, e indarno
Giunger tentare del garzon la nave.
Sorsero, e al lito andare. Il negro legno
Fa tratto in secco, e disarmato ; e tutti
Per consultar si radunare i Proci.
Né con lor permettean che altri sedesse,
Giovane o vecchio; e così Antinoo disse:
Poh! come a tempo il dilivraro i Numi!
L'intero dì su le ventose cime.
A vicenda sedean gli esploratori:
Poi, dato volta il Sol, la notte a terra
Mai non passammo, ma su ratta nave
Stancavam l'onde sino ai primi arbori,
Tendendo insidie al giovane, e Testremo
Preparandogli eccidio. E non pertanto
Nella sua patria il ricondusse un Dio.
Consultiam dunque, come certa morte
Dare al giovane qui. Speriamo indarno
La nostra impresa maturar, a'ei vive:
Che non gli falla il senno, e a favor nostro
La gente, come un dì, più non inchina.
Non aspettiam che a parlamento ei chiami
Gli Achivi tutti, né crediam che lento
Si mostri, e molle troppo. Arder di sdegno
Veggolo, e, sorto in pie , dir che ruina
Noi gli ordivamo, e che andò il colpo a vóto.
Prevenirlo è mestieri, e o su la via
Della cittads spegnerlo, o ne* campi.
Non piace forse a voi la mia favella,
E bramate ch*ei viva, e del paterno
Retaggio goda interamente ? Adunque
Noi dal fruirlo ritiriamci, Tuno
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[^. 417-452) LIBRO xvi. 301
Disgiungasi dall'altro, e al proprio albergo
Si renda: indi Penelope richieda,
E quel cui sceglie il fato, e che offre a lei
Più ricchi doni, la Regina impalmi.
Tutti ammutirò a cotai voci. Al fine
Sorse trar lor dell'Arezlade Niso
La regia prole, Anfìnomo, che, duce
Di quei competitor che dal ferace
Dulichio uscirò, e di più sana mente
Tra i rivali dotato, alla Regina
Men, che ogni altro, sgradia co' detti suoi.
Amici, disse, troppo forte impresa
Struggere affatto un real germe. I numi
Domandiamone in pria. Sarà di Giove
Questo il voler? Vibrerò il colpo io stesso,
Non che gli altri animar; dov'ei decreti
Diversamente, io vi consiglio starvi.
Così d'Arezio il figlio, e non indarno.
S'alzare, e rientrar nell'ampia sala,
E sopra i seggi nitidi posare.
Ma la casta Penelope, che udito
Avea per bocca del fedel Medonte
11 mortai rischio del figliuol, consiglio
Prese di comparire ai tracotanti
Proci davante. La divina donna
Uscì dell'erma stanza; e con le ancelle
Sul limitar della Dedalea sala
Giunta, e adombrando co* sottili veli.
Che le pendean dal capo, ambo le guance ^
Antinoo rampognava in questi accenti:
Antinoo, alma oltraggiosa, e di sciagure
Macchinator; nella città v'ha dunque
Chi tra gli eguali tuoi primo vantarti
Pef saggezza osi, e per facondia? Tale
Giammai non fosti. Insano I e al par che insano,
Empio, che di Telemaco alla vita
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302 \ ODISSÈA ' (V. 453-48S;
Miri, e non curi i supplici, per cui
Giove dairalto si dichiara. Ignoto
Forse ti fu sin qui, che fuggitivo
Qua riparava, e sbigottito un giorno
li padre tuo, che de* Tesproti a danno
Co' Tafì predator s* era congiunto ?
Nostri amici eran quelli, e porlo a morte
Voleano, il cor volean trargli del petto.
Non che i suoi campi disertar : ma Ulisse
Si levò, si frammise; e, benché ardenti,
Li ritenea. Tu di quest*uom la casa
Ruini e disonori ; la consorte
Ne ambisci, uccidi il figlio, e me nel fondo
Sommergi delle cure. Ah! cessa, e agli altri
Cessare ancor, quanto è da te, comanda.
Figlia illustre d'Icario, a lei rispose
Eurimaco di Pòlibo, fa' core,
E si tristi pensier da te discaccia.
Non è, non fu, non sarà mai ehi ardisca
Contra il figlio d'Ulisse alzar la mano.
Me vivo, e con questi occhi in fronte aperti.
Di cotestui, cosa non dubbia, il nero
Sangue scorreria giù per la mia lancia.
Me il distruttor delle cittadi Ulisse
Tolse non rado sovra i suoi ginocchi,
Le incotte carni nella man mi pose.
L'almo licer m'ofi'ri. Quindi uom più caro
Io non ho di Telemaco, e non voglio
Che la morte dai Proci egli paventi.
Se la mandan gli Dei, chi può scamparne?
Cosi dicea, lei confortando, e intanto
L'eccidio pel figliuol gli stava in core.
Ma ella salse alle sue stanze, dove
A lagrimar si dava il suo consorte,
Finché, per tregua a tanti affanni, un dolce
Sonno invìoUe l'occhiglauca Palla,
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(v. 489-524) ; libro xvi, : ^ 303
Con la notte comparve il fido Eumèo
Ad Ulisse e a Telemaco, che, pingue
Sacrificato ai Numi adulto porco.
Lauta se ne allestian cena in quel punto.
Se non che Palla al Laerziade appresso
Fecesi, e, lui della sua verga tocco,
Nella vecchiezza il ritornò di prima,
E ne* primi suoi cenci ; onde il pastore
Noi ravvisasse in faccia, e, mai potendo
Premer nel cor la subitana gioia,
Con r annunzio a Penelope non gisse.
Ben venga il buon pastor 1 così primiero
Telemaco parlò. Qual corre grido
Per la città? Vi rientraro i Proci?
O mi tendon sul mare insidie ancora?
E tu così gli rispondesti, Eumèo:
La mente a questo io non avea, passando
Fra i cittadini : che portar ravviso,
E di botto redir, fu sol mia cura.
Bensì m'avvenni al bandi t or, che primo
Corse parlando alla Regina. Un'altra
Cosa dirò, quando la vidi io stesso.
Prendendo il monte che a Mercurio sorge,
E la cittade signoreggia, vidi
Rapidamente scendere nel porto
Nave d'uomini piena, e d'aste acute
Carca, e di scudi. Sospettai che il legno
Fosse de' Proci; né più avanti io seppi.
A tai voci Telemaco sorrise.
Pur sogguardando il padre, e gli occhi a un tempo
Del custode schivando. A questo modo.
Fornita ogni opra, e già parati i cibi.
D'una egual parte in questi ognun godea.
Ma come il lor desio più non richiese,
Si corcaro alfin tutti, ed il salubre
Dono del sonno ricettar nel petto,
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LIBRO' DECIMOSETTIMO
ARGOMENTO
Arrivo prima di Telemaco alla città , e poi d' Ulisse accom-
pagnato da Bumèo. — • Ulisse ò insultato dal caprtùo Me-
lanzio . e riconosciuto alle porte del palaszo dal yecchio
cane Argo, che ne muore di gioia. — Bntrato nella sala io
forma di vecchio mendico, va intorno accattando ; a Anti-
noo lo scaccia superbamente da sé. e uno sgabello gli lan-
cia contro. — Penelope gli fa saper per Bumèo, che desi-
dera di parlargli. — Risposta d'Ulisse.
Tosto che aperse del mattin la figlia
Con rosea man Teteree porte al Sole ,
Telemaco, d'Ulisse il caro germe.
Che inurbarsi yolea« sotto le piante
S'avvinse i bei calzari, e la nodosa
Lancia, che in man ben gli scattava, tolse,
E queste al suo pastor drizzò parole:
Babbo, a cittade io vo, perchè la madre
Veggami, e cessi il doloroso pianto.
Che altramente cessar, credo, non puote.
Tu r infelice forestier la vita
Guidavi a mendicar: d'un pan, d*un colmo
Nappo non mancherà chi lo consoli.
Nello stato in eh' io sono, a me non lice
Sostener tutti. Monteranno in ira?
Non farà che il suo male. Io dal mio lato
Parlerò sempre con diletto il vero.
Amico, disse allora il saggio Ulisse,
Partire intendo anch'io. Più ohe ne'caippi,
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(V. 20-55) LIBRO xvn. è05
Nella cittade accattar giova ; un frusto,
Chi Torrà, porgerammi. Io più d'etade
Non sono a rimaner presso le stalle,
E obbedire un padron, checché m'imponga.
Tu vanne: a me quest'uom sarà per guida,
Come tu ingiungi, sol che prima il foco
Mi scaldi alquanto, e più s* innalzi il Sole.
Triste, qual vedi, ho vestimenta, e guardia
Prender degg'io dal mattutino freddo.
Che sul cammiu che alla città conduce.
Ed è, sento, non breve, offender puommi.
Telemaco senz'altro in via si pose.
Mutando i passi con prestezza, e mali
Nella sua mente seminando ai Proci.
Come fu giunto al ben fondato albergo.
Portò Tasta, e appoggioUa ad una lunga
Colonna, e in casa, la marmorea soglia
Varcando, penetrò. Primiera il vide
La nutrice Euriclèa, che le polite
Pelli stendea su i variati seggi,
E a lui diritta, lagrimando accorse:
Poi tutte gli accorrean l'altre d'Ulisse
Fantesche intorno, e tra le braccia stretto
Sulle spalle il baciavano, e sul capo.
Frattanto uscia della secreta stanza.
Pari a Diana, e all'aurea Vener pari.
La prudente Penelope, che al caro
Figlio gettò le man, piangendo al collo,
E la fronte baciògli , ed ambo gli occhi
Stellanti ; e non restandosi dal pianto,
Telemaco, gli disse, amata luce.
Veniste adunque! lo non credea più i lumi
Fissare in te, dacché una ratta nave ,
Contra ogni mio desir, dietro alla fama
Del genitor furtivamente a Pilo
T'addusse. Pària: quale incontro avesti?
O'ilf Ma Digitized by GoÒ^e
30& - ODISSEA (v. 5^-91)
Madre^ del grave rischio oiid'io campai.
Replicava Telemaco, il dolore
Non rinnovarmi in petto, e lo spavento.
Ma in alto sali con le ancelle : quivi
Lavata, e cinta d*una pura veste
Le membra delicate, a tutti 1 Numi
Ecatombe legittime prometti,
Se mi consente il vendicarrni Giove.
10 per un degno forestier, che venne
Meco da Pilo, andrò alla piazza. Innanù
Co' miei fidi compagni io lo spedii,
E commisi a Pireo, che in sua magione
L'introducesse, e sino al mio ritorno
Con onore il trattasse, e con affetto.
Non indarno ei parlò. Lavata e cinta
Di veste pura il delicato corpo,
Penelope d' intègre a tutti i Numi
Ecatombe votavasi, ove al figlio
11 vendicarsi consentisse Giove.
Né Telemaco a uscir fuor del palagio
Molto tardò: l'asta gli empiea la mano,
E due bianchi il seguian cani fedeli.
Stupia ciascun, mentr'ei mutava il passo:
Tal grazia sovra lui Palla diffuse.
Gli alteri Proci stavangli da questo
Lato, e da quel, voci parlando amiche,
Ma nel profondo cor fraudi covando.
Se non ch'ei tosto si sciogliea da essi;
E là, dove sedea Mentore, dove
Antifo ed Aliterse, che paterni
Gli eran compagni dalla prima etade,
A posar s'avviò: quei d'ogni cosa
L'addi mandare. Sopraggiunse intanto
Pireo, lancia famosa, il qQal nel fòro
Per la cittade il forestier menava,
A cui 8'alzò Telemaco, e s'offerse.
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(v. 92-127) LIBRO xviL 307
E oosì primo favellò Pireo:
Telemaco, farai che al mio soggiorno
Vengan le donne tue per que* superbi
Doni, onde Menelao ti fu cortese.
E il prudente Telemaco: Pireo,
Ignoto è ancor di queste cose il fine.
Se i Proci, me secretamente anciso,
Tutto divideransi ik mio retaggio,
Prima, che alcun di loro,* io di que* doni
Vo*che tu goda. E dove io lor dia morte,
A me lieto recar li potrai lieto.
Disse, e guidò nella sua bella casa
L' ospite sventurato. Ivi, deposte
Sovra i troni le clamidi vellute,
Sceser nel bagno; e come astersi ed unti
Per le servili man furo, e di manto
Vago e di vaga tunica vestiti,
Su i ricchi seggi a collocarsi andare.
E qui l'ancella da bell'aureo vaso
Purissim*acqua nel bacil d'argento
Versava, e stendea loro un liscio desco
Su cui la saggia dispensiera i bianchi
Pani venne ad imporre, e non già poche
Belle dapi non fresche, ond' è custode.
Penelope sedea di fronte al caro
Figlio, e non lungi dalle porte; e fini
Velli purpurei, a una polita sede
Poggiandosi, torcea. Que' due la destra
Stendeano ai cibi; né fu pria repressa
La fame loro, e la lor sete spenta,
Che in tai voci la madre i labbri apriva:
lo, figlio, premerò, salita in alto.
Quel che divenne a me lugubre letto,
Dappoi che Ulisse inalberò le vele
Co' figliuoli d'Atrèo : lugubre letto,
Ch'io- da quel giorno del mio pianto aspergo.
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308 ODISSEA {v. 128-163;
Noa vorrai dunque tu, prima che i Proci
Entrino alla raagion, dirgli, se nulla
Del ritorno del padre udir t'avvenne?
Il prudente Telemaco a rincontro:
Madre il tutto io dirò. Pilo trovammo,
Ed il pastor de' popoli Nestorre.
Qual padre accoglie con carezze un figlio
Dopo lunga stagion d'altronde giunto,
Tal me in sua reggia, e tra l'illustre prole,
La bianca testa di Nestorre accolse.
Ma diceami, che nulla udì d'Ulisse,
vivo fosse, fatto polve ed ombra.
Quindi al pugnace Menelao mandommi
Con buon cocchio e destrieri; ed io là vidi
L'argiva Elèna, per cui Teucri & Greci,
Cosi piacque agli Dei, tanto sudaro.
Il bellicoso Menelao repente
Chiedeami, qual bisogno alla divina
Sparta m'avesse addotto. Io non gli tacqui
Nulla, e l'Atride: Ohimè! d'un eroe dunque
Volean giacer nel letto uomini imbelli?
Siccome allor che malaccorta cerva,
1 cerbiatti suoi teneri e lattanti
Deposti in tana di leon feroce.
Cerca, pascendo, i gioghi erti e l'erbose
Valli profonde ; e quello alla sua cava
Riede frattanto, e cruda morte ai figli
Porta, e alla madre ancor: non altrimenti
Porterà cruda morte ai Proci Ulisse. ^
Ed oh piacesse a Giove, a Febo e a Palla,
Che qual si levò un dì centra Taltero
Filomelide nella forte Lesbo,
E tra le lodi degli Achivi a terra
Con mano invitta, lotteggiando, il pose,
Tal costoro affrontasse! Amare nozze
Fòran le loro, e la lor vita un punto.
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(v, 164-199). LIBRO xviL , 309
Qaanto^alla tua domanda, il Re soggiunse,
Ciò raccontarti senza fraude intendo,
Che un oràcol verace, il marin vecchio
Proteo, svelommi. Asseverava il Nume,
Che molte e molte lagrime dagli occhi
Spargere il vide in solitario scoglio ,
Soggiorno di Calipso, inclita Ninfa,
Che rimandarlo niega ; ond'ei, cui solo
Non avanza un naviglio, e non compagni
Che il careggiu del mar su Tampio dorso,
Star gli convien della sua Patria in bando.
Ciò in Isparta raccolto, io ne partii;
E un vento in poppa m' inviare i Numi,
Che rattissimo ad Itaca mi spinse.
Con tal voci Telemaco alla madre
Li* anima in petto scompigliava. Insorse
Taoclimèno allora: veneranda
Della -gran prole di Laerte donna,
Tutto ei già non conobbe. Odi i miei detti.
Yero e integro sarà Toracol mio.
Primo tra i Numi in testimonio Giove,
E la mensa ospitai chiamo, ed il sacro
Del grande Ulisse limitar, cui venni :
Lo s^oso tuo nella sua patria terra
Siede, o cammina, le male opre ascolta,
E morte a tutti gii orgogliosi Proci
Nella sua mente semina. Mei disse
Chiaro dal cielo un volator ch'io scorsi,
E al tuo figlio mostrai, sedendo in nave.
E la saggia Penelope : Deh questo,
Ospite, accada 1 Tali e tanti avresti
Del mio sincero amor pegni, che ognuno
Ti chiameria, scontrandoti, beato.
Mentre così parlando, e rispondendo
Di dentro ivan la madre, il figlio e il vate,
Gli alteri Proci alla magion davante
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310 ' ODISSEA (v. 20O-g35)
Dischi lancìavan per diletto, e dardi
Sul pavimento lavorato e terso,
Della baldanza lor solito arringo.
Ma, giunta V ora della mensa, e addotte
Le vittime da tutti intorno i campi,
Medonte che nel genio ai Proci dava
Più che altro in fra gli araldi, e ai lor banchetti
Sempre assistea, Giovani, disse, quando
Godeste ornai de* giochi, entrar v'aggradi,
Sì che il convivio s'imbandisca. Ingrata
Cosa non parmi il convivare al tempo,
Sursero immantinente ed alle voci
Del banditor non repugnaro. Entrati,
Deposer sulle sedie i manti loro.
Pingui capre scannavansi, e i più grandi
Montoni, e grossi porci, e una buessa
Di branco; e il prandio s'apprestava. E intanto
Dai campi alla cittade andar d' un passo
Preparavasi Ulisse ed il pastore.
Pria favellava Eumèo d'uomini capo:
Stranier, se il mio piacere io far potessi,
Tu delle stalle rimarresti a guardia.
Ma, poiché partir brami, e ciò pur vuoisi
Dal mio signor, le cui rampogne io temo.
Però che gravi son Tire de' Grandi,
Moviam : già vedi che scemato è il giorno ,
E infredderà più l'aere in vèr la sera.
Tai cose ad uom, che non le ignora, insegni,
Ripigliò il Laerziade. Ebben, moviamo:
Ma vammi innanzi, e da', se da una pianta
Il recidesti, un ferte legno, a cui
Per la via, che malvagia odo, io mi regga.
Disse, e agli omeri suoi per una torta.
Corda il suo rotto e vii zaino sospese,
E il bramato baston porsegli Eumèo.
Quindi le stalle abbandonar, di cui^
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[■(v. 286-271) LIBRO xvii. ^ ^Sll
iJRimaneano i famigli a guai^dia, e'i cani,
' Cosi vèr la città sotto le forme
D'un infelice mendicante e vecchio,
E curvo sul bastoDo, è con le membra
Nelle vesti più turpi, il suo Re stesso
L'amoroso pastore allor guidava.
Già, vinto il sentiero aspro, alla cittade
Si fean vicini, ed apparia la bella,
Donde attignea ciascun, fonte artefatta,
Che una pura tra Terbe onda volvea.
Construsaerla tre regi: Itaco prima,
Poi Nerito e Polittore. Rotondo
D'anni acquidosi lo cerchiava un bosco.
Fredda cadea Tonda da un sasso, e sopra
Un aitar vi sorgea sacro alle Ninfe,
Dove offria preci il viandante, e doni.
Qui di Dolio il figlinol, Melanzio, in loro
S'incontrò; conducea le capre, il fiore
Del gregge, ai Proci; e il seguiandue pastori.
Li vide appena, che bravoUi, e indegne
Saettò in loro, e temerarie voci,
Che tutto commovean d'Ulisse il core.
Or si, dicea, che un tristo a un tristo è guida.
Giove li forma, indi gli accoppia. Dove
Meni tu quel ghiottone, o buon porcaio,
Quel mendico importuno, e delle mense
Pèste, che a molte signorili porte
Logorerassi gli omeri, di pane
Frusti chiedendo, non treppiedi, o conche?
Se tu le stalle a cu>9todir mei dessi,
E a purgarmi la corte, e a' miei capretti
La frasca molle ad arrecar, di solo
Bevuto siere ingrosseria ne' fianchi.
Ma, poiché solo alle tristi opre intese.
Travagliar non vorrà, vorrà più ptesto^
Di porta in porta domandando, un ventre
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312 X , ODISSEA / (y. 272-i
Pascere insaziabile. Ma senti
Cosa che certo avvenir dee. Se all'alta
Magion s'accosterà del grande Ulisse,
Molti sgabelli di man d' uom lanciati
Alla sua testa voleranno intorno,
E le coste trarrannogli disloco.
Ciò disse, ed appressollo, e nella coscia
Gli die d'un calcio, come stolto ch'era.
Nò dalla via punto lo smosse: fermo
Restava Ulisse, e in sé volgea, se l'alma
Col nodoso baston torgli dovesse,
O in alto sollevarlo, e su la nuda
Terra gettarlo capovolto. Ei l'ira
Contenne e sopportò. Se non ch'Eumèo
À.1 caprar si converse, e ìmproverollo,
E, levate le man, molto pregava:
belle figlie dell'Egioco, Ninfe
Naiadi, se il mio Re v'arse giammai
D'agnelli e di capretti i pingui lombi,
Empiete il voto mio. Rieda, ed un Nume
La via gli mostri. Ti cadria, capraio,
Quella superbia dalle ardite ciglia,
Con cui vieni oltraggioso, e si frequente,
Dai campi alla città. Quindi per colpa
De' cattivi pastori a mal va il gregge.
Oh, oh, Melanzio ripigliò di botto,
Che mi latra oggi quello scaltro cane.
Che un giorno io spedirò sovra una bruna
Nave dalla serena Itaca lunge, -
Perchè a me in copia vettovaglia trovi?
Cosi il Dio dal sonante arco d'argento
Telemaco uccidesse oggi, e dai Proci
Domo fosse il garzon, come ad Ulisse
Non sorgerà della tornata il giorno!
Ciò detto, ivi lascioUi ambo, che lento
Moveano il piede, e» suo cammin seguendo.
Digifeed byCjOOQlC
(v. 308r343) LIBRO XVII. < 813
D'Ulisse alla magion ratto pervenne.
Subito entrava, e §*assidea tra i Proci
Di rimpetto ad Eurimaco, che tutto
Era il suo amore; né i 'donzelli accorti,
£ la solerte dispensiera, innanzi
Un solo istante s'indugiaro a porgli
Quei parte delle carni, e i pani questa.
Ulisse ed il pastore al regio albergo
Giungeano intanto. S'arrestaro, udita
L'armonia dolce della cava cetra:
Che l'usata canzon Femio intonava.
Tale ad Eumèo, che per man prese, allora
Favellò il Laerziade: Eumèo, d' Ulisse
La bella casa ecco per certo. Fora,
Benché tra molte, il ravvisarla lieve.
L'un pian su l'altro monta, è di muraglia
Cinto il cortile, e di steccati, doppie
Sono e salde le porte. Or chi espugnarla
Potria? Gran prandio vi si tiene, io credo,
Poiché Todor delle vivande sale,
E risuona la cetera, cui fida
VoUer compagna de' conviti i Numi.
E tu così gli rispondesti, Eumèo:
Facile a te, che lungo mai dal segno
Non vai, fu il riconoscerla. Su, via.
Ciò pensiam, che dee farsi. tu primiero
Entra, e ai Proci ti mesci, ed io qui resto ;
O tu rimani, e metterommi io dentro.
Ma troppo a bada non istar: che forse,
Te veggendo di fuor, potrebbe alcuno
Percuoterti, o scacciarti. Il tutto pesa.
Quel veggio anch'io, che alla tua mente splen-
Gli replicava il paziente Ulisse. (de,
Dentro mettiti adunque: io rimarrommi.
Nuovo ai colpi non sono e alle ferite,
E la costanza m'insegnare i molti
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314 ODISSEA {v. 344^379]
Tra Tarmi e in mar danni sofferti, a cui
Questo s'aggiungerà. Tanto comanda
La forza invitta dell'ingordo ventre,
Per cui cotante Tuom dura fatiche,
E navi arma talor, che guerra altrui
Deir infecondo mar portan su i campi.
Cosi dicean tra lor, quando Argo, il cane,
Ch'ivi giacca, del paziente Ulisse,
La testa, ed ambo sollevò gli orecchi.
Nutrillo un giorno di sua man l'eroe.
Ma cèrne, spinto dal suo fato a Troia,
Poco frutto potè. Bensì condurlo
Centra i lepri, ed i cervi, e le silvestri
Capre solca la gioventù robusta.
Negletto allor giacca nel molto fimo
Di muli e buoi sparso alle porte innanzi,
Finché, i poderi a fecondar d'Ulisse,
Nel togliessero i servi. Ivi il buon cane,
Di turpi zecche pien, corcato stava;
Com'egli vide il suo signor più presso,
E, benché tra que' cenci, il riconobbe,
Squassò ia coda festeggiando, ed ambe
Le orecchie, che drizzate avea da prima,
Cader lasciò: ma incontro al suo signore
Muover, siccome un dì, gli fu disdetto,
Ulisse, riguardatolo, s'asterse
Con man furtiva dalla guancia il pianto,
Celandosi da Eumèo, cui disse tosto:
Eumòo, quale stupori Nel fimo giace
Cotesto, che a me par cane si bello.
Ma non so, se del pari ci fu veloce,
nulla valse, come quei da mensa.
Cui nutron per bellezza i lor padroni.
E tu cosi gli rispondesti, Eumèo:
Del mio Re lungi morto è questo il cane.
Se tal fosse di corpo e d'atti, quale
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(v, 38a-415) LIBRO xvjj. 315
Lasciollo, a Troia veleggiando, Ulisse,
Sì veloce a vederlo e si gagliardo,
Gran maraviglia ne trarresti: fiera
Non adocchiava, che del folto bosco
Gli fuggisse nel fondo, e la cui traccia
Perdesse mai. Or rinfortunio ei sente.
Peri d'Itaca lungo il suo padrone,
Né più curan di lui le pigre ancelle;
Che pochi dì stanno in cervello i servi.
Quando il padrone lor più non impera.
L* onniveggente di Saturno figlio
Mezza toglie ad un uom la sua virtude,
Come sopra gli giunga il dì servile.
Ciò detto, il pie nel sontuoso albergo
Mise, e avviossi drittamente ai Proci;
Ed Argo, il fido can, poscia che visto
Ebbe dopo dieci anni e dieci Ulisse,
Gli occhi nel sonno della morte chiuse.
Ma l'egregio Telemaco fu il primo
Che scorgesse il pì^stor nella superba
Sala passato; e a sé il chiamò d'un cenno,
Ed ei, rivolto d'ogni intorno il guardo,
Levò uno scanno ivi giacente, dove
Seder solea lo scalco, e le infinite
Carni partire ai banchettanti Proci.
Levollo, ed a Telemaco di centra
Il piantò presso il desco, e vi s* assise;
E delle carni a lui pose davanti
Lo scalco, e pani dal canestro tolti.
Ulisse ivi a non molto anch' egli entrava
Simil ne* cenci e nel baston nodoso.
Su cui piegava il tergo, a un infelice
Paltonier d'anni carco. Entrato appena,
Sopra il frassineo limitar sedea^
Con le spalle appoggiandosi ad un saldo
Stipite cipressin, cui già perito
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316 owssEA (v, 416451;
Fabbro alzò a piombo, e ripoli con arte,
Telemaco il pastor chiama, e togliendo
Quanto avea pane il bel canestro, e quanta
Carne nelle sue man capir potea,
Questo, gli dice, all'ospite tu reca,
E gli comanda che a ciascun de* Proci
S'accosti mendicando. A cui nel fondo
Dell'inopia cascò, nuoce il pudore.
Andò il pastor repente, e, allo straniero
Soffermandosi in faccia. Ospite, disse,
Ciò ti manda Telemaco, e t'ingiunge
Che mendicando ti presenti a ognuno
De' Proci in giro. A cui nel fondo, ei dice,
Dell'inopia cascò, nuoce il pudore.
E il Laerziade rispondea; Re Giove,
Telemaco dal ciel con occhio guarda
Benigno sì, eh' ei nulla brami indarno.
Detto ciò solo, prese ad ambe mani
Ulisse il tutto, e colà innanzi ai piedi
Su la bisaccia ignobile sei pose.
Finché il diyin Demodoco cantava,
Cibavasi 1' uom saggio : al tempo stesso
L'un dal cibo cessò, l'altro dal canto.
Strepitavano i Proci entro la sala:
Ma Palla, al figlio di Laerte apparsa,
L'esortò i pani ad accattar dai Proci,
Tastando chi più asconda o men tristezza,
Benché a tutti la Dea scempio destini.
Ei volse a destra, e ad accattar da tutti
Gio, stendendo la man, come se mai
Esercitato non avesse altr'arte.
Mossi a pietade il soccorreano, e forte
Stupiano, e domandavansi a vicenda.
Chi fosse, e donde il forestier venisse.
E qui Melanzio, Udite, o dell'illustre
Penelope, dicea, vagheggiatori.
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(v. 452-487) LIBRO xvii. 3Ì7
L'ospite io vidi, a cui la via mostrava
De* porci il guardian: ma da qtial chiara
Stirpe disceso egli si vanti, ignoro.
Guardian famosissimo, Antinoo
Così Eumèo rimbrottò, perchè costui
Guidasti alla città? Ci mancan forse
Vagabondanti paltonieri infesti,
Delle mense flagello? 0, che d'Ulisse
Qui si nutra ciascun, poco ti cale,
Che questo ancor, donde io non so, chiamasti ?
E tal risposta tu gli festi, Eumèo:
Prode, Antinoo, sei tu, ma ben non parli.
Chi un forestiero a invitar mai d* altronde
Va, dove tal non sia che al mondo giovi.
Come profeta, o sanator di morbi,
O fabbro industre in legno, o nobil vate,
Che le nostr'alme di dolcezza inondi?
Questi invitansi ognor, non un mendico
Glie ci consumi, e non diletti, o serva.
Ma tu 1 ministri del mio Re lontano
Più, che ogni altro de* Proci e de* ministri
Me più, che ogni altro, tormentar non cessi,
Npn men curo io però, finché la saggia
Penelope e Telemaco^ deiforme
Vivono a me nella magion d'Ulisse.
Ma Telemaco a lui: Taci, parole
Non cangiar molte con Antinoo. È usanza
Di costui 1* assalir con aspri detti
Chi non 1* offende, e incitar gli altri ancora.
Poi converso a quel tristo; In ver, soggiunse
Cura dt me, qual padre, Antinoo prendi
Tu che 1* ospite vuoi sì duramente
Quinci sbandire. Ah noi consenta Giove!
Dagline: io, non che oppormi, anzi l'esigo.
La madre d'annoiare o alcun de* servi
Bel padre mio, tu non temer per questo.
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318 ODISSEA (v. 488-5^
Ma cosa tal non è da te, cui solo
La propria gola soddisfar talenta.
alto di favella e d'alma indomo,
D'Eupite disse incontanente il figlio,
Che parlasti, Telemaco? Se i Proci
Quel don, eh* io serbo a lui, gli fesser tutti.
Starsi almeno ei dovria tre lune in casa
Da noi lontano; e, lo sgabello preso,
Su cui tenea beendo i molli piedi.
Alto in aria il mostrò. Gli altri cortesi
Gli eran pur d* alcun che, sì eh' ei trovossi
Di carni e pani la bisaccia colma.
Mentre alla soglia, degli Achivi i doni
Per gustar, ritornava, ad Antinoo
Si fermò innanzi, e disse : Amico, nulla
Dunque mi porgi? Degli Achivi il primo
Mi sembri, come quei che a Re somiglia.
Quindi piti ancor, che agli altri, a te s'addice
Largo mostrarti: io le tuo lodi, il giuro,
Per tutta spargerò l'immensa terra.
Tempo già fu ch'io, di te al par felice,
Belle case abitava, e ad un ramingo,
Qual fosse, e in quale stato a me venisse.
Del mìo largia: molti avea servi, e nuli*
Di ciò falliami, onde gioiscon quelli
Che ricchi e fortunati il mondo chrama.
Giove, il perchè ei ne sa, strugger mi volle
Ei, che in Egitto per mio mal mi spinse
Con ladroni moitivaghi: viaggio
Lungo a funesto. Nell'Egitto fiume
Fermai le ratte navi, ed ai compagni
Restarne a guardia ingiunsi, e quell'ignota
Terra ire alcuni ad esplorar dall'alto.
Ma questi da un ardir folle e da un cieco
Desio portati, a saccheggiar le belle
Campagne dagli Egizi, a via menarne
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(v. 524-559) LiBìio xviL 319
Le donne e i figli non parlanti, i grami
Coltivatori a uccidere. Volonne
Tosto il romore alla città: né prima
L'alba s'imporporò, che i cittadini
Vennero, e pieno di cavalli e fanti
Fu tutto il campo, e del fulgor dell'armi.
Cotale allora il Fulminante pose
Desio di fuga de' compagni in petto,
Che un sol far testa non osava: uccisi
Fur parte, e parte presi, e ad opre dure
Sforzati; e ovunque rivolgeansi gli occhi,
Un disastro apparia. Me consegnaro
A Demetore Jaside, che in quelle
Parti era giunto, e dominava in Cipro,
Dond'io, carco di mali, al fin qua venni.
£ di novo cosi d'Eupite il figlio:
Qual Genio avverso una si fatta lue.
Le nostre mense a conturbar, ci addusse?
Ti enti nel mezzo, e dal mio desco lunge,
Se un'altra Egitto amara e un'altra Cipro
Trovar non brami in Itaca. Io mendico
Mai non conobbi più impudente e audace.
T'offri a ciascun l'un dopo l'altro e allarga
Ciascun par te la man senza consiglio:
Che rotto cade ogni ritegno, dove
Regna la copia, e dell'altrui si dona.
Poh! replicava il Laerziade, indietro
Ritirandosi alquanto, alla sembianza
Poco l'animo adunque in te risponde.
Chi mai creder potria che pur di sale
A supplicante tu daresti un grano
Balla tua mensa, tu che un frusto darmi
Dall'altrui non sapesti, e così ricca?
Montò Antinoo in più furia, e, torve in lui
Fissando le pupille. Ora io non penso
Che uscirai quinci con le membra sane,
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320 ODISSEA (v. S60-^5)
Poscia che all'onte ne venisti. Disse,
E afferrò lo sgabello, ed avventollo,
E in su la punta de la destra spalla
Percosse il forestiero. Ulisse fermo
Stette, qual rupe, né d'Antinoo il colpo
Smosselo: bensì tacito la testa
Crollò, agitando la vendetta in core.
Indi sul limitar sedea di nuovo.
Deposto il zaino tutto pieno, e ai Proci
Favellava cosi: Competitori
Dell* illustre Reina, udir vi piaccia
Ciò che il cor dirvi mi comanda. Dove
Pe* campi, per la greggia o per Tarmento
Pugnando è Tuom ferito, il porta in pace.
Me per la trista ed importuna fame,
Gran fonte di disastri, Antinoo offese.
Ma se ha propizi i Dei, se ha Furie nitrici,
Chi non ha nulla, della morte il giorno
Pria, che quel delle nozze, Antinoo colga.
E d*Eupite il fìgliuol: Tranquillo e assiso,
Cibati, o forestiere, o quinci sgombra,
Acciò gli schiavi, poiché si favelli.
Per li piedi e le man te del palagio
Non traggan fuori, e tu ne vada in pezzi.
Tutti d'ira s'accesero, ed alcuno,
Mal, disse, fosti, Eupltide, un tapino
Viandante a ferir. Sciaurato! S'egli
Degli abitanti deirOlimpo fosse?
Spesso d' estrano pellegrino in forma
Per le cittadi si raggira un Nume,
Vestendo ogni sembianza, e alle malvage -
De' mortali opre, ed alle giuste guarda.
Tai voci Antinoo dispregiava. Intanto
Della percossa rea gran duol nel petto
Telemaco nodria. Non però a terra
Dalle ciglia una lagrima gli cadde.
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(v. 596.631) , LIBRO XVII. ' 321
Sol crollò anch' ei tacitamente il capo,
Itnminando nel cor l'alta vendetta.
Ma la saggia Penelope, cui giunse
L'annunzio in alto dell'indegno colpo,
Tra le ancelle proruppe in questi accenti:
Deh cosi lui d'un de* suoi dardi il Nume
Dal famoso d'argento arco ferisca!
Ed Eurinome a lei: Se gl'Immortali
Fesser pieni i miei voti, a un sol de* Proci
Non mostreriasi la nuov'alba in cielo.
Nutrice mia. Penelope riprese.
Mi spiaccion tutti, perchè tutti ingiusti:
Ma del par che la morte Antinoo abborro.
Move per casa un ospite infelice
Dalla sua fame a mendicar costretto;
Ciascun gli dà, tal eh* ei n' ha il zaino colmo :
E d'Eupite il figliuol d'uno sgabello
Nella punta dell'omero il percuote.
Cotesti accenti tra le ancelle assisa
Liberò dalle labbra; e in quella Ulisse
Il suo prandio compiea. Ma la Regina,
Eumèo chiamato a sé. Va', gli dicea.
De* pastori il più egregio, ed a me invia
Quel forestiere, onde in colloquio io seco
Mi restringa, e richiedagli, se mai
D'Ulisse udì, se il vide mai con gli occhi,
Ei, che di gran viaggi uom mi rassembra.
E tu cosi le rispondesti, Eumèo:
Oh volesser gli Achei per te, Regina,
Tacersi alcuni istanti! Ei tal favella.
Che somma in cor ti verseria dohìezza.
Io tre giorni, appo mie l'ebbi, e tre notti,
Che fuggito era da un' odiata nave:
Né però tutti mi narrò i suoi guai.
Qual racceso dai Numi illustre vate
Voce si grata agli ascoltanti innalza,
322 ODISSEA (v, 632-667]
Che r orecchio fisgando in lui le ciglia,
Se dal canto riman, tendono ancora:
Tal mi beava nella mia capanna.
Bissemi che di padre in figlio a Ulisse
Dell'ospitalità stringealo il nodo:
Che nativo di Creta era, dei- grande
Minosse culla; e che di là, cadendo
D'un mal sempre nell'altro, a* tuoi ginocchi
Venia di gramo supplicante in atto.
M'affermò che d'Ulisse avea tra i ricchi
Tesproti udito, che vive anco, e molti
All'avita magion teso^ri adduce.
La prudente Penelope a rincontro:
Vanne, ed a me l'invia, sì ch'io l'ascolti.
Gli altri fuor delle porte o nel palagio
Trastullili pur, poscia che han lieto il core.
Crescono i monti delle lor sostanze.
Di cui solo una parte i servi loro
Toccano; ed essi qui l'intero giorno
Banchettan lautamente, e il fior del gregge
Struggendo e dell'armento, e le ricolme
Della miglior vendemmia urne votando.
Fanno una strage: né v'ha un altro Ulisse.
Che atto a fermarla sia. Ma l'eroe giunga,
E piena con Telemaco di tanti
Barbari oltraggi prenderà vendetta-
Finito non avea, che il figlio ruppe
In un alto starnuto, onde la casa
Risonò tutta. La Regina rise,
E, va', disse ad Eumèo., corri, e il mendico
Mandami. Starnutare alle mie voci i
Non udisti Telemaco? Maturo
De' Proci è il tato, né alcun fia che scampi. |
Ciò senti ancora, e in mente il serba. Quando i
Verace in tutto ei mi riesca, i cenci |
Gli cangerò di botto in vesti belle. j
Digitizedby Google I
(v. 668.T03) ; libro xvii. 323
Corse il fido pastore, e allo straniero,
Standogli presso, ospite padre, disse.
Te la saggia Penelope, la madre
Di Telemaco, vuole: il cor la spinge
D'Ulisse a ricercar, benché sol dato
Le abbian sin qui le sue ricerche duolo.
Quando yerace ti conosca, i cenci
Ti cangerà di botto in vesti belle.
Cibo non mancherà chi ti largisca.
Se tu l'andrai per la città chiedendo,
Eumèo, rispose il paziente Ulisse,
Alla figlia d'Icario, alla prudente
Penelope, da me nulla del vero
Si celerà. So le vicende appieno
D'Ulisse, con cui sorte io m'ebbi eguale:
Ma la turba difficile de' Proci,
Di cui del ciel sino alla ferrea volta
Monta l'audace tracotanza, io temo.
Pur testé, mentr' io già lungo la sala,
Nulla oprando di mal, percosso io fui;
E non prevenne il doloroso insulto
Telemaco, non che altri. Il Sol cadente
Ad aspettar nelle sue stanze adunque
Tu la conforta. Mi domandi allora
Del ritorno d'Ulisse innanzi al foco:
Poiché il vestito mio mal mi difende.
Tu il sai, cui prima supplicante io venni.
Die volta, udito questo, il buon pastóre;
E Penelope a lui, che già la soglia
Col pie varcava: Non mei guidi, Eumèo?
Che pensa il forestier? Tema de* Proci,
vergogna di sé, forse occupollo?
Guai quel mendico cui ritien vergognai
Ma tu cosi le rispondesti, Euméo:
Ei, come altri farebbe in pari stato,
De' superbi schivar l'onte desia, ,,,,;,^Goo§le
324 . ODissr>A ^' (v. 704-727)
Bensì t'esorta sostener, Regina,
Finché il dì cada. Cosi meglio voi
Potrete ragionar sola con solo.
Gran senno in lai, chiunque sia, dimora,
Ella riprese: che sì audaci e ingiusti
Non ha l'intero mondo uomini altrove.
Eumèo ritorno ai Proci, e di" Telemaco
Parlando, onde altri non potesse udirlo,
All'orecchia vicin. Caro, gli disse.
Lo mandre, tua ricchezza e mio sostegno,
A custodire io vo. Tu su le cose
Qui veglia, e piU sovra te stesso, e pensa
Che i giorni passi tra una gente ostile,
Cui prima, ch'ella noi. Giove disperda.
Sì, babho mio, Telemaco rispose.
Parti, ma dopo il cibo, e al di novello
Torna, e vittime pingui adduci teco. :
Tacque; ed Eumèo sovra il polito scanno
Novamente sedea. Cibato, ai campi
Ire affrettossi, gli steccati addietro
Lasciando, e la magion d'uomini piena
Gozzoviglianti, cui jpiacere il ballo
£)ra, e il canto piacer, mentre spiegava
L^ali sue nere sovra lor la Notte.
dby Google
LIBRO DECIMOTTAVO
ARGOMENTO
Combattimento tra Irò ed Ulisse, che riman» al di sopra. ^
Penelope si presenta ai Proci, e si lagna che insultino gli
ospiti, e che, aspirando alle nozze di lei. in vece di offe-
rirle i doni secondo il costume, divorino le sue sostanze. —
Doni de* Proci a Penelope. —Sopravvenuta la notte, Ulisse
è insaltato novamento, prima con parole dair ancella Me-
lanto, e poi da Burimaco, chd uno sgabello, come gièk fece
Antinoo, lanciagli contro.
Un accattante pubblico sorvenne,
Di mendicar per la cìttade usato,
Famoso Yorator, che mai non disse
Per molto cibo, e per vin molto, Basta.
E gigante a vederlo, ancor che poco
Di forza e cuore in si gran corpo fosse.
• Egli avea nome Arneo: così chiamoUo,
Nel dì che nacque, la diletta madre.
Ma dai giovani tutti Irò nomato
Ej^a, come colui che le imbasciate
Portar solca, qual gliene desse il carco.
Giunto fu appena, che scacciava Ulisse
Balla sua casa, ed il mordea co* detti:
Vecchio, via dal vestibolo, se vuoi
Ch*io non ti tragga fuor per un de* piedi.
Non vedi l'ammiccar, perch'io ti tragga,
Di tutti a me? Pur m'arrossisco, e stommi.
Ma levati, o alle prese io con te vegno.
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à2Ó ,' ODISSEA \ (t. 19-54
Bieco Ulisse guatoUo, e Siciagurato,
, Rispose, in opra io Bon t'offendo, o in voce,
Né che alcuno a te doni, anco a man piene.
T'invidio io punto. Questa soglia entrambi
Ci capirà. Tu non dovresti noia
Del mio bene sentir, tu, che un mendico
Mi sembri al par di me. Dispensatori
Delle ricchezze all'uom sono i Celesti.
Invitarmi a pugnar non ti consiglio.
Onde infiammato, benché vecchio, d'ira
Le labbra io non t* insanguini, ed il petto.
Più assai tranquillo io ne sarei domane;
Che alla magion del figlio di Laerte
Ritorno far tu non potresti, io credo.
Poh, sdegnato il pezzente Irò riprese.
Più volubili i detti a questo ghiotto
Corrono, e ratti più, che non a vecchia
Che sempre al tbcolar s'aggira intorno.
S' io queste man pongogli addosso, tutti
Dalle mascelle, come a ingordo porco
Entrato fra le biade, i denti io schianto.
Or bene, un cinto senza più ti cuopra ,
E questi ci conoscano alla pugna.
Che tosto avremo. Io veder voglio, come
Con uom combatterai tanto più verde.
Così sul liscio limitar dell'alte
Porte garrian d'ingiuriosi motti.
Avvisossene Antinoo, e, dolcemente
Ridendo, sciolse tai parole: Amici,
Nulla di sì giocondo a questi alberghi
Gli abitator dell'etra unqua mandaro.
Si bisticcian tra lor l'ospite ed Irò,
E già le man frammischiano. Su, via.
Meglio alla zuffa raccendiamli ancora.
Tutti s'alzare, nelle risa dando,
E ai due straccioni s'affollaro intorno,
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. .... I ,
l^v. 5S90) LIBRO XVIII. 327
2d Àntinoo così; Nobili Proci,
mentitemi pensier mio. Di que' ventrigli
>i capre, che di sangue e grasso empiuti
ESul foco stan per la futura cena,
Scelga qual più vorrà chi vince, e quindi
\ D'ogni nostro convito a parte sia;
Né più tra noi s'aggiri altro cencioso.
Ciò piacque a tutti. Ma l'accorto eroe.
Cui non fallian le astuzie. Amici, disse.
Ad uom dagli anni e dai disastri rotto
Con giovane pugnar non parmi bello.
E pur botte a ricevere e ferite
La rea mi spinge imperiosa fame.
Ma voi giurate almen che nessuno, Irò
Per favorir, me della man gagliarda
Percoterà, male adoprando: troppo
Mi tornerebbe allor duro il cimento.
Giurare. E di Telemaco in tal guisa
La sacra possa favellò; Straniero,
Di respinger costui ti detta il core?
Respingilo ; nò alcun temer de* Proci.
Chi t'oserà percuotere, con molti
A combattere avrà. Gli ospiti io curo,
E tal favella non condannan certo
Eurimaco ed Antinoo, ambo prudenti.
Disse; e ciascuno approvò il dettò. Ulisse
Si spogliò tosto, e de* suoi panni un cinto
Formossi, e nudi i lati omeri, nudo
Mostrò il gran petto e le robuste braccia,
E i magni fianchi discoprì: Minerva,
Che per lui scese dall'Olimpo, tutte
De* popoli al pastor le membra crebbe.
Stupirò i Proci fieramente, e alcuno .
Cosi dicea, volgendosi ai vicino:
Irò, già non più Iro> in su la testa
S'avrà tratto egli stesso il suo malanno,
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328. ODISSEA.. (v. 91-126)
Tai Ranchi ostenta e tali braccia il veglio 1
A queste voci malamente d'Irò
L'animo eommoveasi. E non pertanto
Col cinto ai lombi, e pallido la faccia.
Gli schiavi a forza il conducean: su Tossa
Tremavangli le carni. Antinoo allora
Prsndealo a rimbrottar: Millantatore,
Perchè or non muorilo a che nascesti un giorno,
Tu, che si temi, e tremi, uom dagli affanni,
Non men che dall'età, snervato e domo?
Ma odi (^uel che di te fìa. Se a terra
Con vincitrice man colui ti mette.
Io te gettato in una ratta nave
Manderò nell'Epiro al rege Echeto,
Flagello de' mortali, il qual ti mozzi
Gli orecchi e il naso con acerbo ferro,
E, da stracciarsi crudi, a un can vorace
Butti gli svelti genitali in preda.
Un tremor gli entrò in corpo ancor più forte:
Ma il condusser nel mezzo. I due campioni
Le mani alzare: dubitava Ulisse,
Se del pugno così dar gli dovesse,
Che lui caduto abbandonasse l'alma»
atterrarlo, e non piti, con minor colpo.
Questo partito scelse, onde agli Achivi.
Celarsi meglio. Irò la destra spalla
Ad Ulisse colpi; ma Ulisse in guisa
Sotto l'orecchia l'investì nel collo,
Che l'ossa fracassógli; usciagli il rosso
Sangue fuor per la bocca, ed ei mugghiando
Cascò, digrignò i denti, e il pavimento
Calcitrando battè. Gli amanti a quella
Vista, levate le lor braccia in alto,
Scoppiavan delle risa. Intanto Ulisse^
L'un de' piedi afferratogli il traea
Pel vestibolo fuor sino alla corte,
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(v. 127-162) , LiRRO xviu. 329
E all'entrata del portico. Ciò fcitto,
Col dosso al muro Tappoggiò, gli pose
Bastone in mano-, e> Qui, gli disse, or siedi,
E scaccia, dal palagio i cani e i ciacchi;
Né più arrogarti, così vii, qual sei,
Su gli ospiti dominio, e su i mendichi:
Che un'altra volta non t* incontri peggio.
Così dicendo, si gittava intorno
Alle spalle il suo zaino, e al limitare
Ritornava, e sedeavi. Rientrare
Con dolce riso in su le labbra i Proci,
Ed a lui blande rivolgean parole:
Ospite, Giove a te con gli altri Numi
Quanto più brami, e t' è più caro, invii,
A te, che la città smorbasti a un tratta
Di questo insaziabile accattone.
Che ad Echeto, degli uomini flagello,
Tra poco andrà su gli Epiroti lidi.
Così parlaro; e dell'augurio Ulisse
Godea nell'alma; e Antinoo un gran ventriglio
Di sangue e di pinguedine ripieno
Gli recò innanzi. Ma il valente Anfinomo
Due presenlògli dal canestro tolti
Candidissimi pani, e, propinando
Con aurea tazza, Salve, disse, o padre,
Porestier, salve : se infelice or vivi,
Lieti scorranti almeno i dì futuri.
Anfinomo, l'eroe scaltro rispose.
D'intendimento e di ragion dotato,
Mi sembri, e in questa tu ritrai dal padre,
Da Niso Dulichiense, ond'io la fama
Sonare udia, buono del par, che ricco.
Da cui diconti nato ; e fede ancora
Ne fa il tuo senno, e le parole e gli atti.
A te dunque io favello, e tu i miei detti
Ricevi, e serba in te. Sai tu di quanto
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330 ^ , ODISSEA * (v. 163Ì9S
Spira, e passeggia su la terra, o serpe,
Ciò che al mondo avvi dì più infermo ? È ruomo.
Finché stato felice i Dei gli danno,
E il suo ginocchio di vigor fiorisce,
Non crede che venir debhagli sopra
L'infortunio giammai. Sopra gli viene?
Con ripugnante alma iudegnata il soflPre:
Ohe quali i giorni son, che foschi o chiari
De' mortali il gran padre e de' Celesti
D'alto gli manda, tal dell'uomo è il cuore.
Vissi anch' io vita fortunata e illustre,
E," secondando la mia forza, e troppo
Nel genitor fidando e ne' germani,
Non giuste, vaglia il vero, opre io commisi.
Ma ciascuno a ben far dee por l'ingegno,
E quel, che dai Numi ha, fruir tranquillo:
Ne costoro imitar, che iniquamente
Struggono i beni, e la pudica donna
Oltraggian d'un eroe, che lungo tempo
Dalla sua patria e dagli amici, io credo.
Lontano ancor non rimarrà: che a questi
Luogi anzi è assai vicino. Al tuo ' ricetto
Quindi ppssa guidarti un Dio pietoso,
E tòrti agli occhi suoi, com' egli appaia:
Poiché decisa senza molto sangue.
Messo ch'egli abbia in sua magione il piede,
Non fla tra i Proci e lui l'alta contesa.
Libò, ciò detto, e accostò ai labbri il nappo,
E tornello ad Anfìnomo. Costui
Per la sala iva, conturbato il core,
E squassando la testa, ed il suo male
Divinando, ma invan: fuggir non puote;
Legato anch'ei da Palla, onde cadesse
Per Tasta di Telemaco. Nel seggio.
Donde sorto era, si ripose intanto.
Ma d'Icario alla figlia, alla prudente
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(v. 199.S34) ^ LIBRO xvirì..^ à31
Penelope, la Dea dai glauchi lumi
Spirò il disegno di mostrarsi ai Proci,
Perchè lor s'allargasse il core in petto
Di nuova speme; ed in onor più grande
Presso il consorte e il figlio ella salisse.
Diede, né hen sa come, in un gran riso,
E tai detti formò : sento un desire
Non prìa sentito di mostrarmi ai Proci,
Eurinome, bench'io tutti gli abborra.
Utile avviso in lor presenza io bramo
A Telemaco dare, il qual troppo usa
Con que' superbi giovani, che accenti
Ti drizzan blandi, e insìdianti da tergo.
Saggio è il consiglio, Eurìnome rispose.
Va', figlia, dunque, ed il tuo nato assenna.
Ma pria ti lava, e su le guance poni
L'usato unguento. Apparir vuoi con fticcia
Dalle lagrime tue solcata e guasta?
Quel pianger sempre, e dall'un giorno all'altro
Nulla divario far, poco s'addice,
(xià venne il figlio nell'età fiorita,
In cui vederlo con l'onor del mento
Sì ardentemente supplicavi ai Numi.
Per zelo che di me l'alma ti scaldi,
Replicava Penelope, di bagni,
Eurinome, o di lisci or non parlarmi.
Il dì che Ulisse s' imbarcò per Troia,
Tolsermi ogni beltà dal volto i Numi.
Bensì Autonoe mi chiama, e Ippodamia,
Che da lato mi stieno. Ai Proci sola
Non offrirommi : che pudor mei vieta.
Tacque ; e la vecchia Eurìnome le donne
A chiamar tosto, e ad affrettarle, uscio.
Ma, l'occhiazzura Dea, nuovo pensiero
Formando nella mente, alla pudica
Figlia d'Icario un molle sonno infuse.
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332 ' * ' .Oi>issBA "(v. 235-270)
Mentro glacea sovra U suo seggio, e tutte
Il molle sonno le sciogliea le jnembra.
Palla Minerva di celesti doni
La rifornìa, perchè di lei più sempre
Invaghisser gli Achei. Pria su le guance
Quella, che tien dalla bellezza il nome.
Sparse divina essenza, onde si lustra
La inghirlandata d'or Vener, se mai
Va delle Grazie al dilettoso ballo :
Poi di corpo la crebbe, e ricolmolla
Nel volto, e tal su lei candor distese,
Che l'avorio tagliato allora allora
Ceder doveale al paragon. La Diva
Risalì deir Olimpo in su le cime.
Venner le ancelle strepitando, e ratto.
Si riscosse Penelope dal sonno,
E con man gli occhi stropicciossi e disse:
Qual dolce sonno della sua fosc'ombra
Me infelice coprì? Deh così dolce
Morte subitamente in me la casta
Artemide scoccasse; ed io Tetade
Piti non avessi a consumar nel pianto.
Sospirando il valor sommo, infinito
D*un eroe, cui non sorse in Grecia il pari.
Così detto, scendea dalle superne
Lucide stanze al basso, e non già sola.
Ma con Autonoe e Ippodamia da tergo.
Sul limitar della Dedàlèa sala.
Ove i Proci sedean trovasi appena,
Che arresta il pie tra Tuna e l'altra ancella
L'ottima delle donne, e co'sottili
Veli del capo ambe le guance adombra.
Senza forza restaro e senza moto:
L'alma più inteneria, si raddoppiava
Delle nozze il desire in ogni petto.
Ella queste a Telemaco parole:
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(v. 271-306) - LIBRO xvni. ' 333
Figlio, io te più non riconosco. Sensi
Nutrivi in mente più maturi e scorti
Nella tua fanciullezza; ed or che grande
Ti veggio, e in un'età più ferma entrato,
Or che stranier, che a riguardar si fesse
La tua statura e la heltà, te prole
D' uom beato dirla, più non dimostri
Giustizia o senno. Tollerar sì indegno
Trattamento d'un ospite in tua reggia 1
Oltraggio sì crudel, che vendicato
Non siagli, puote a un forestier qui usarsi.
Che su te non ne cada eterno scorno?
Il prudente Telemaco rispose:
Madre, perchè ti crucci, io non mi sdegno.
Meglio, che pria ch*io di fanciullo uscissi,
Lo umane cose, il pur mi credi, intendo, .
E tra lor non confondo il torto e il dritto.
Ma tutto oprare, o antiveder, non valgo.
Circondato qual sono e insidiato
Da fiera gente, e d'assistenti solo.
Quanto alla lotta tra l'estranio ed Irò,
Parte i Proci non v'ebbero, e del primo
Fa la vittoria. Ed oh ! piacesse al padre
Giove, e alla Diva Pallade, e ad Apollo,
Che. tentennasse a cotestor già domi
La testa, e si sfasciassero le membra,
Nel vestibolo agli uni, e agli altri in sala
Come a quell'Ire, che alle porte or siede
Dell'atrio, il capo qua e là piegando.
D'un ebbro in guisa, e che su i piedi starsi
Non può, né a casa ricondursi: tanto
Le membra riportonne afflitte e péste.
Cosi la madre e il figlio. Indi tai voci
Eurìmaco a Penelope drizzava:
Figlia d'Icario, se te vista tutti
Avesser per l'Iasio Argo gli Achivi,
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334 ODISSEA. . (v. 307-342;
Turba qui di rivali assai più folta
Banchetteria dallo spuntar dell'alba :
Che non v'ha donna che per gran sembiante,
Per bellezza e per senno a te s* agguagli.
E la nobile a lui. d'Icario figlia :
Eurìmaco, Tirtù, sembianza, tutto
Mi rapirò gli Dei, quando gli Argivi
Sciolser per Troia, e con gli Argivi Ulisse.
S'egli, riposto in sua magione il piede,
A reggere il mio stato ancor prendesse.
Ciò mia gloria sarebbe, e beltà mia.
Ora io m'angoscio: tanti a me sul capo
Mali piombare. Ei, d'imbarcarsi in atto,
Prese la mia con la sua destra, e, Donna,
Disse, non credo io già che i forti Achei
Da Troia tutti riederanno illesi:
Poiché sento pugnaci essere i Teucri,
Gran sagittari, e cavalieri egregi.
Che pel campo agitar sanno i destrieri
Rapidamente; quel che in breve il fato
Delle guerre terribili decide.
Quindi, se me ricondurran gli Eterni,
O Troia riterrà morto, o cattivo,
Sposa, io non so. Tu sovra tutto veglia.
Rispetta il padre mio, la madre onora,
Come oggi, od ognor più, fì.nch*io son luuge.
E allor che del suo pel vedrai vestito
Del figlio il mento, a qual ti fia più in grado,
Lasciando la magion, vanne consorte.
Tal favellava; ed ecco giunto il tempo.
L'infausta notte apparirà, che dee
Portare a me queste odiose nozze,
A me, cui Giove ogni letizia spense.
Ma ciò la mia tristizia oggi più aggrava,
Che gli usi antichi non si guardan punto.
Color, cho donn£k illustre e d'uom possente
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{v. 343^378) xiBBO xvau 335
Figlia uà di ambiano, e contentieaa tra loro,
Belle conducean vittime, gli amici
Per convitar della bramata donna,
E doni aqTiesta offrian: non già raitrui
Struggeano impunemente a mensa assisi.
Disse, e l'eroe gioì ch'ella in tal modo
De' Proci i doni procurasse, e loro
Molcesse il petto con parole blande,
Mentre in fondo del core altro volgea.
Ma cosi Antinoo allor: Nobil d'Icario
Figlia, saggia Penelope, ricevi
I doni che gli Achei già per offrirti
Sono, e cui fora il ricusar stoltezza;
Ma noi di qua non ci torrem, se un prima
De' pi il illustri fra noi te non acquista.
Piacquero i detti ; e alla sua casa ognuno
Per li doni spedi. L'araldo un grande
Recò ad Antinoo, e variò, e assai bel peplo,
Che avea dodici d'or fibbie lampanti.
Con ardiglioni ben ricurvi attate.
Eurimaco un monile addur si fece.
D'oro, e intrecciato d'ambra, opra da insigne
Mastro sudata, che splendea qual sole.
Due serventi portare a Euridamante
Finissimi orecchini a tre pupille.
Donde grazia infinita uscia di raggi.
Pregio non fu men prezioso il vezzo.
Che re Pisandro, di Polittor figlio.
Dalle mani d'un servo ebbe ; e non meno
Belli d'ogni altro Acheo parvero i doni.
La divina Penelope, seguita
Dall'ancelle, co' doni alle superne
Stanze montava; e i Proci al ballo e al canto,
Finché, a romper nel mezzo i lor diletti,
L' pmbra notturna sovra lor cadesse.
Caduta sovra lor l'ombra notturna,
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336 ODISSEA (v. 379-414)
Trtì gran bracièri saettanti luoa,-
Cui legne secche e dure, e fesse appena,
Nodrìano, i servi collocar nel mezzo;
E allumar qua e là più faci ancora.
Cura di questi fuochi aveano alterna
Le donne del palagio. A. queste feo
Tai detti il ricco di consigli Ulisse:
Schiave d'Ulisse, del Re vostro assente
Per sì luDga stagion, la veneranda
Regina vostra a ritrovar salite.
Fusi rotando, o pettinando lane,
Sedetele vicino, e ne* suoi mali
La confortate. Mio pensier frattanto
Sarà, che ai Proci non fallisca il lume.
Quando attendere ancor volesser Falba,
Me non istancheran: che molto io sono
Da molto tempo a tollerare avvezzo.
Questi detti lor feo. Riser le ancelle,
E a vicenda guardavansi, e schernirlo
Con villane parole una Melante,
Bella guancia, s' ardìa. Dolio costei
Generò, ma Penelope nutrilla.
Siccome figlia, nulla mai di quanto
Lusinga le fanciulle a lei negando:
Né s'afflisse per ciò con la Regina
Melante mai, che anzi tradiala, e s'era
A Eurimaco d'amor turpe congiunta.
Costei pungea villanamente Ulisse:
Ospite miserabile, tu sei
Un uomo, io credo, di cervello uscito,
Tu, che in vece d'andar nell'officina
D'un fabbro a coricarti, o in vii taverna,
Qui tra una schiera te ne stai di prenci ,
Lungo cianciando, e intrepido. Alla mente
Ti sali senza forse il molto vino,
d'un briaco hai tu la mente, e quindi
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(v. 415-450) LifeRo xviii. ' S37
Senza costrutto parli. esulti tanto,
Perchè il ramingo Irò vincesti? Bada,
Non alcun qui senza indugiare, insorga ,
Che» d'Irò assai miglior^ te nella testa
Con le robuste man pesti, e t'insozzi
Tutto di sangue, e del palagio scacci.
Bieco guatolla, e le rispose Ulisse:
Cagna, io ratto a Telemaco i tuoi sensi,
Perch'ei ti tagli qui medesmo in pezzi,
A riportare andrò. Cosi dicendo.
Le femmine atterrì, che per la casa
Mosser veloci; benché a tutte forte
Le ginocchia tremassero: si presso
Ciò ch'ei lor detto avea, credeano al vero.
Ei si fermò presso i bracieri ardenti,
La luce ravvivandone, e tenendo
Gli occhi ne' Proci ognor, mentre nemiche
Cose agitava, e non indarno, in petto.
Minerva intanto non lasciava i Proci
Rimanersi dall' onte, acciò in Ulisse
Crescer dovesse col dolor lo 'sdegno.
Eurimaco di Pòlibo parlava
Primo, l'eroe mordendo, e a nuovo riso
Provocando i compagni: Udite« amanti
Deir inclita Regina, un mio pensiero.
Che tacer non poss'io. Non senza un Nume
Venne costui nella magion d' Ulisse.
Splender gli veggo come face, il capo,
Sovra cui non ìspunta un sol capello.
Quindi, al rovesciator delle munite
Città converso, Forestier, soggiunse,
Vorrestù a me servir, s'io ti pigliassi
Per assestar nel mio poder le siepi,
E gli alberi piantar? Buona mercede
Tu ne otterresti: cotidiano vitto,
E vestinienti al dosso, e ai piò calzari.
DigitizedbyVjQDQlC
338 " ODISSEA (V.-451-48C
Ma perchè sol fosti di vizi a scuola.
Anzi che faticar, pittocar vuoi,
Onde, se t*è possibile, sfamarti.
Eurlmaco, rispose il saggio Ulisse ,
Se tra noi gara di lavor sorgesse
A primavera, quando il giorno allunga,
E con adunche in man falci taglienti
Ci ritenesse un prato ambo digiuni
Sino alla notte, e non mancasse Terba;
O fosser da guidare ad ambo dati
Grandi, rossi, gagliardi, e d'erba sazi
Taurì d'etade e di virtude uguali,
E date quattro da spezzar sul campo
Sode bubulce col pesante aratro,
Vedresti il mio vigor, vedresti, come
Aprir saprei dritto e profondo il solco!
Poni ancor, che il Saturnio un'aspra guerra
Da qualche parte ci volgesse addosso.
Ed io scudo e due lance, ed alle tempie
Salda celata di metallo avessi,
Misto ai primi guerrier mi scorgeresti
Nella battaglia, e Y importuna fame
Oittare a me non oseresti in faccia.
Or protervo è il tuo labbro, e duro il core,
E forte in certa guisa, e grande sembri,
Perche con poca gente usi, e non brava:
Ma Ulisse giunga, o appressi almeno, e queste
Porte, benché assai larghe, a te già vòlto
Negli amari, cred'io, passi di fuga
Deh come a un tratto sembreriano anguste!
Eurimaco in maggior collera salse,
E, guardandolo bieco. Ah ! doloroso,
Disse, vuoi tu ch'io ti diserti? Ardisci
Cosi gracchiar fra tanti , e nulla temi ?
O il vin t'ingombra, o tu nascesti pazzo,
O quel vinto Irò ti cavò di senno.
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(v. 487-522> LIBRO xviii. 539
Ciò detto, prese lo sgabel: ma Ulisse
S'abbassava d'Anfìnomo ai ginocchi,
Per cannarsi da Eorimaco, che in vece
Nella^man destra del coppier percosse.
Cascata rimbombò la coppa in terra,
E il pincerna ululando andò riverso.
Strepitavano i Proci entro la sala
Dall'ombre cinta della notte; e alcuno,
Mirando il suo vicin, Morto, dicea.
Prima che giunto qua, l'ospite fosse!
Portato non ci avria questo sì grave
Tumulto. Or si battaglia, e per chi dunque?
Per un mendico: e già svanì de' nostri
Prandi il diletto, ed il più vii trionfa,
E Telemaco allor: Che insania è questa,
Miseri, a cui non cai piti della mensa ?
Certo vi turba e vi commuove un Dio.
Su, via, poiché de' cibi e de* licori
Tacerà il desiderio in tutti voi.
Ite a corcarvi, se vel detta il core.
Ne* vostri alberghi: che nessuno io scaccio.
Tutti, mordendo il labbro, alle sicure
Parole di Telemaco stupirò.
Ma tra lor sorse Anfinomo, l'illustre
Fìgliuol di Niso: Amici, a chi ben parla
Sinistro più non si risponda, o acerbo,
Né l'ospite s'oltraggi, o alcun de' servi,
Che in corte son del rinomato Ulisse.
Muova il coppiere in giro, e poscia, fatti
I libamenti, nelle nostre case,
Le membra al sonno per offrir, si vada
E si lasci a Telemaco la cura
Dello stranier, quando al suo tetto ei venne.
Disse, e non fu, cui non piacesse il detto.
L'inclito Mulio, il Dulichiense araldo
D'Anffnomo, versò dall'urna il vino,
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S40 ODISSEA (v. 623.528)
E a tutti in giro^^ nelle tazze il porse :
Ed i Proci libaroj e del licore
Dolce, qual mèle, s' inondare il petto.
Ma com'ebber libato, e a piena voglia
Bevuto, ognun, per dar le membra al sonno,
Affrettò di ritrarsi al proprio albergo.
LIBRO DECIMONONO
ARGOMENTO
Partiti ì Proci, trasportano Ulisse e Telemaco Tanm nelle
stanze superiori. -^ Telemaco va a coricarsi ; e Pendope
scende per favellar con Ulisse, che solo è rimasto. ~ Questi
finge ana storia, che la Reginii ode con grande commozion
d* animo. --< La nutrice Euricléa riconosce , lavandolo ,
Ulisse. *« Penelope gli narra on sogno, e gli palesa il
cimento che intende proporre ai Proci, come condìzion delle
nozze alle quali non può oramai più sottrarsi.
Nell'ampia sala sì rimanea l'eroe,
Strage con Palla macchinando ai ProcL
Subito al figlio si converse, e disse:
Telemaco, levar di questi luoghi
L'armi conviene, e trasportarle in alto.
Se le bell'armi chiederanno i Proci y
Con parolette a lusingarli vólto,
Io, lor dirai, dal fumo atro le tolsi.
Perchè non eran più quali lasciolle
Ulisse il giorno che per Troia sciolse ;
Ma deturpate, scolorate , ovunque
Il bruno le toccò vapor del foco.
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(v/ 13^48) LIBRO XIX. 341
Sovra tutto io temei, né senza un Nume
Destossi in me questo timor, non forse
Dopo molto votar di dolci tazze
Tra voi sorgesse un' improvvisa lite ,
E Tun l'altro ferisse, ed il convito
Contaminaste, e gli sponsali. Grande
Allettamento è alFuom lo stesso ferro.
Telemaco seguì del suo diletto
Padre il comando, e alla nutrice, cui
Tosto a sé dimandò. Mamma , dicea ,
Sa, via, ritieni nelle stanze loro
Le femmine rinchiuse, in sin ch'io Tarmi,
Che qui nella mia infanzia, e nell' asi^enza
Del padre, mi guastò neglette il fumo,
Trasporti in alto. Collocarle io voglio,
Dove del foco non le attinga il vampo.
Ed Euriclèa; Figlio, rispose, in petto
Deh ti s'annidi al fin senno cotanto.
Che regger possi la tua casa, e intatti
Serbar gli averi tuoi! Ma chi la strada
Ti schiarerà? Quando non vuoi che innanzi
Con le fiaccole in man vadan le ancelle.
Il forestier, Telemaco riprese.
Chi si nutre del mio, benché venuto
Di lunge, io mai non patiroUo inerte.
Tanto bastò a colei, perché ogni porta
Del ben construtto ginecèo fermasse.
Ulisse incontanente e il caro figlio
Corréano ad allogar gli elmi chiomati.
Gli umbilicati scudi e l'aste acute;
E avanti ad ambo TAtenea Minerva,
Tenendo in mano una lucèrna d' oro.
Chiarissimo spargea lume d'intorno.
E Telemaco al padre : padre , quale
Portento ! Le pareti ed i bei palchi,
E le travi d' abete e le sublimi
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342 ODISSEA ■ ^ (v. 4d-84)
Colonne a me rifolgorare io veggio.
Scese, io credo, qua dentro alcun de' Numi.
Taci, rispose Ulisse: i tuoi pensieri
Rinserra in te, né cercare oltre. Usanza
Degli abitanti dell'Olimpo è questa.
Or tu vanne a corcarti; io qui rimango
Le ancelle a spiar meglio, e della saggia
Madre le inchieste a provocar, che molte
Certo, ed al pianto miste, udire avviso.
Disse ; e il figliuolo indi spiccossi, e al vivo
Delle faci splendor nella remota
Cella si ritirò de' suoi riposi ,
L'aurora ad aspettar: ma nella sala.
Strage con Palla agli orgogliosi Proci,
Architettando, rimanea 1' eroe.
La prudente Reina intanto uscìa
Pari a Diana, e all'aurea Vener pari,
Della stanza secreta. Al foco appresso
L'usato seggio di gran pelle steso,
E cui d'Icmalio l'ingegnosa mano
Tutto d'avori e argenti avea commesso,
Le collocare: sostenea le piante
Un polito sgabello. In questa sede
La madre di Telemaco posava.
Venner le ancelle dalle bianche braccia
A tor via dalle mense il pan rimasto,
E i vóti nappi, onde bevean gli amanti.
Poi dai bracieri il mezzospento foco
Scorsero a terra, e nuove legna, e molte,
Sopra vi accatastar, perchè schiarata
La sala fosse, e riscaldata a un tempo.
Melante allor per la seconda volta
Ulisse rampognava: Ospite, adunque
La notte ancor t'avvolgerai molesto
Per questa casa, e addocchierai le donne?
Fuori, sciagurato, esci, e del convito,
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(v. ^.120) ^ LIBRO XIX. 343
Che ingoiasti, t'appaga, o ver, percosso
Da questo tizzo, salterai la soglia.
Con torvo sguardo le rispose Ulisse :
Malvagia, perchè a me guerra sì atroce?
Perchè la faccia mia forse non lustra?
Perch' io mal vesto, e, dal bisogno astretto,
Qaal tapino uomo, e viandante, accatto?
Felice un giorno anch' io splendidi ostelli
Tra le genti abitava, e ad un ramingo,
Qual fosse, o in quale stato a me s'offrisse,
Bel mio largia; molti avea servi, e nulla
Di ciò mi venia meno ond'è chiamato
Ricco, e beata l'uom vita conduce.
Ma Giove, il figlio di Saturno, e nota
La cagione n'è a lui, disfar mi volle.
Guarda però, non tutta un giorno cada.
Donna, dal viso tuo quella beltade,
Di cui fra l'altre ancelle or vai superba:
Gaarda, non monti in ira, e ti punisca
La tua. padrona ; o non ritorni Ulisse ,
Come speme ne' petti ancor ne vive.
E s'eiperì, tal per favor d'Apollo
Fuor venne il figlio dall'acerba etade.
Che femmina, di cui sien turpi i fatti,
Mal potria nel palagio a lui celarsi.
Udì tutto Penelope, e l'ancella
Sgridò repente : O temerario petto ,
Cagna sfacciata, io pur nelle 4ue colpe.
Che in testa ricadrannoti, ti colgo;
Sapevi ben, poiché da me l'udisti.
Ch'io lo straniero interrogar volea,
Un conforto cercando in tanta doglia.
Dopo questo, ad Eurinome si volse
Con tali accenti: Eurinome, uno scanno
Reca, e una pelle, ove, sedendo, m'oda
L'ospite favellargli, e mi risponda.
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344 "^ ODISSEA ' (v. 121«1d6)
Disse ; e la dispensiera un liscio scanno
Recò in fretta, e giìr pose, e d'una deiisa
Pelle il coprì. Vi s'adagiava il molto
Dai casi afflitto^ e non naai domo, Ulisse,
Cui Penelope a dir così prendea:
Ospite, io questo chiederotti in prima.
Chi? di che loco? e di che stirpe sei?
E Ulisse, che piti là d* ogni uomo seppe:
Donna, esser può giammai pel mondo tutto
Chi la lingua snodare osi in tuo biasmo?
La gloria tua sino alle stelle sale,
Qual di Re sommo, che sembiante a un Nume,
E su molti imperando uomini, e forti,
Sostiene il dritto: la ferace terra
Di folti gli biondeggia orzi e frumenti.
Gli arbor di frutti aggravansi, robuste
Figlian le pecorelle, il mar dà pesci
Sotto il prudente reggimento, e giorni .
L'intera nazion mena felici.
Ma pria, che della Patria e del linguaggio,
Di tutt'altro mi chiedi, acciò non cresca
Di tai memorie il dolor mio più ancora.
Un infelice io son, né mi conTiene .
Seder, piagnendo, nella tua magione:
Che i suoi confini ha il pianto, e ai luoghi vuoisi
Mirare, e ai tempi. Se non tu, sdegnarsi
Ben potria contro a me delle serventi
Tue donne alcuna, e dire ancor, che quello,
Che fuor m'esce degli occhi, è il molto vino.
E la saggia Penelope a rincontro :
Ospite, a me virtù, sembianza, tutto
Rapito fu deigli immortali, quando
Co' Greci ad Ilio navigava Ulisse.
S'ei rientrando negli alberghi aviti,
A reggere il mio stato ancor togliesse,
Ciò mia gloria sarebbe, e beltà mia,
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(V. 157-1192) LiBEo XIX. ' 345
Or le Gure m'opprimono, ehe molte
Manderò a me gli abitator d'Olimpo.
Qaanti lia Dulichio e Same , e la selvosa
Zacinta, e la serena Itaca prenci,
Mi ambiseon ripugnante ; e sottosopra
Volgoa cosi la reggia mia, che poco
Agli ospiti ornai fommi, e ai supplicanti
Veder, né troppo degli araldi io curo.
Io mi consumo, sospirando Ulisse.
Quei m'affrettano intanto all'abborrito
Passo, ed io centra lor d'inganni m'armo,
Pria grande a oprar tela sottile, immensa,
Nelle mie stanze, come un Dio spirommi.
Mi diedi, e ai Proci incontanente io dissi:
Griovani, amanti miei, tanto vi piaccia,
Quando già Ulisse tra i defunti scese,
Le mie nozze indugiar , eh' io questo possa
Lugubre ammanto por l'eroe Laerte,
Acciocché a me non péra il vano stame
Prima fornir, che T inclemente Parca
Di lunghi sonni apportatrice il colga.
Non vo'xjhe alcuna delle Achèe mi morda,
Se ad uom, che tanto avea d'arredi vivo.
Fallisse un drappo, in cui giacersi estinto*
A questi detti s'acchetaro. Intanto
Io, finché il dì splendea, l' insigne tela
Tesseva, e poi la distessea la notte
Di mute faci alla propizia fiamma.
Un triennio cosi l'accorgimento
Sfuggii degli Achei tutti, e fede ottenni.
Ma, giuntomi il quarto anno, e le stagioni
Tornate in sé con lo scader de' mesi,
E de' celeri di compiuto il giro.
Colta dai Proci, per viltà di donne
Nulla di me curanti, alla sprovvista,
E gravemente improverata, il drappo
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346 ' . ODISSEA (v. 193-228)
Condurre al termia suo dovei per forza.
Ora io né declinar le odiate nozze
So, né trovare altro compenso. A quelle
M'esortano i parenti, e non comporta
Che la sua casa gli si strugga, il figlio.
Che omai tutto conosce, e al suo retaggio
Intender può, qual cui dà gloria Giove.
Ad ogni modo la tua Patria dimmi,
Dimmi la stirpe: d*un pietra certo
Tu non uscisti, o d'una quercia, <;oma
Suona d'altri nel mondo antica fama.
veneranda, le rispose Ulisse,
Donna del Laerziade, il mio lignaggio^
Saper vuoi dunque? Io te l'insegno. È vero
Che augumento ne avran gli affanni miei,
Naturai senso di chiunque visse
Misero pellegrin molt'anni e molti
Dalla Patria lontan: ma tu non cessi
D'interrogarmi, e satisfarti io voglio.
Bella e feconda sovra il negro mare
Giace una terra che s* appella Creta,
Dalle salse onde d'ogni parte attinta.
Gli abitanti v'abbondano, e novanta.
Contien cittadi, e la favella ò mista:
Poiché vi son gli Achei, sonvi i natii
Magnanimi Cretesi ed i Cidonii,
E i Dorii in tre divisi, e i buon Pelasgi.
Gnosso vi sorge, città vasta, in cui
Quel Minosse regnò, che dal Tonante
Ogni nono anno era agli arcani ammesso.
Ei generò Deucalione, ond'io
Cui nascendo d'Etón fu posto il nome.
Nacqui, e nacque il mio frate Idomenéo
Di popoli pastor, che di virtute
Primo, non che d'età, co' degni Atridi
Ad Ilio andò su le rostrate navi,
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(v. 229-264) LIBRO xix. 347
Là» vidi Ulisse, ed ospitali doni
Gli feci. A Creta spinto avealo un forte
Vento, che, mentr'ei pur vèr la superba
Troia tendea, dalle Malee lo svolse,
E il fermò neirAmniso, ove lo speco
D' Ilitia s'apre in disastrosa piaggia.
Sì che scampò dalle burrasche appesa.
Entrato alla città, d'Idomenèo,
Ohe venerando e caro egli chiamava
Ospite suo, cercò: se non che il giorno
Correa decimo, o undecime, che a Troia
Passato il mio fratello era sul mare.
Ma io l'addussi nel palagio, a cui
Nulla d'agi mancava, e dove io stesso
QaeH'onor gli rendei, ch'io seppi meglio.
E fu per opra mia che la cittade
Bianco pan, dolce vino, e buoi da mazza,
I suoi compagni a rallegrar, gli diede.
Dodici dì nell'isola restaro.
Perchè levato da un avverso Nume
Imperversava un Aquilou sì fiero.
Che a stento si reggea l'uomo su i piedi.
Quello il di terzodecimo al fin cadde;
E solcavan gli Achei l'onde tranquille.
Cosi fingea, menzogne molte al vero
Simili profferendo: ella, in udirle,
Pianto versava, e distruggeasi tutta.
E come neve che su gli alti monti
Subito vento d'Occidente sparse,
Scioglieasi d'Euro all'improvviso fiato.
Sì che gonfiati al mar corrono fiumi:
Tal si stemprava in lagrime, piangendo
L'uom suo diletto, che sedeale al fianco.
Della consorte lagrimosa Ulisse
Pietà nell'alma risentia: ma gli occhi
Stavangli, quasi corno o ferro fos^e,
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348 ODISSEA (V. 265-300)
Nelle palpebre immoti, e gli stagnava
Nel' petto ad arte il ritenuto pianto.
Ella, poiché di lagrime fu sazia.
Così ripigliò i detti: Ospite, io voglio
Far prova ora di te, se qual racconti,
Ulisse, e i suoi, tu ricettasti in Creta.
Dimmi: quai panni rivestianlo? e quale
Di lui, de' suoi compagni era 1* aspetto?
Rispose il ricco di consigli Ulisse:
Vigesim'anno è omai ch'egli da Creta
Si drizzò a Troia, e il favellare, o donna,
Di sì antica stagion duro mi sembra.
Io tutta volta ubbidirò, per quanto
Potrà sovra di sé tornar la mente.
Un folto Ulisse avea manto velloso
Di porpora, cui doppio urna sul petto
Fermaglio d'oro, e nel dinanzi ornava
Mirabile ricamo: un can da caccia
Tenea co' piedi anteriori stretto
Vaio cerbiatto, e con aperta bocca
Sovra lui, che tremavane, pendea:
E stupia il mondo a rimirarli in oro
Effigiati ambo così, che l'uno
Soffoca l'altro, e già l'addenta, e l'altro
Fuggir si sforza, e palpita ne' piedi.
In dosso ancora io gli osservai sì molle
Tunica, e fina si, qual di cipolla
Vidi talor l'inaridita spoglia,
E splendea, come il Sol ; tal che di .molte
Donne, che l'adocchiar, fu maraviglia.
Ma io non so, se in Itaca gli stessi
Vestiti usasse, o alcun di quei che seco
Partirò su la nave, o in lor magioni
Viaggiante l'accolsero, donati
Gli avesse a lui: che ben voluto egli era.
E pochi ragguagliare in Grecia eroi.
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(v. 301*386) LIBRO XIX. " 349
So che una spada del più fìno rame,
E un bel manto purpureo, e una talare
Vesta in dono io gli porsi, e ali* impalcata
Nave il guidai di riverenza in segno.
Araldo, che d*età, poco il vincea,
L'accompagnava: alto di spalle, e grosso,
X>oVio rappresentarlo a te dovessi,
Nero la cute, ed i capelli crespo,
E chiamavasi Euribate. Fra tutti
I suoi compagni l'apprezzava Ulisse,
Come più di pensieri a sé conforme.
A queste voci maggior voglia in lei
Surse di pianto, conosciuti i segni.
Che sì chiari e distinti esporsi udiva.
Fermato il lagrimare, Ospite, disse,
Di pietà mi sembrasti, e d*ora innanzi
Di grazia mi parrai degno, e d'onore.
Io stessa gli recai dalla secreta
Stanza piegate le da te descritte
Vesti leggiadre, io nel purpureo manto
La sfavillante d'or fìbbia gli affìssi.
Or né vederlo più, né accorlo in questa
Sua dolce terra sperar posso. Ahi crudo
Destin ben fu, che alla malvagia Troia,
Nome abborrito, su per Tonda il trasse!
D'Ulisse, egli riprese, inclita donna.
Al bel corpo, che struggi, omai perdona,
Né più volerti macerar nell'alma,
L* uom tuo piangendo. Non già ch'io tenbiasmi :
Che ognuna spento quell'uom piange, a cui
Vergine si congiunse, e diede infante.
Benché diverso nel valor da Ulisse,
Ohe agli Dei somigliar canta la fama.
Ma resta dalle lagrime, e l'orecchio
Porgi al mio dir, che sarà vero e integro.
Io de'Tesproti tra la ricca gente^
•• ' Digitizedby Google
350 ' -.ODISSEA (v, 337-372)
Ch'ei viTe, intesi, e già ritorna, e molti,
Tesor, che qua e là raccolse, adduce.
É ver che perde il legno e i suoi compagni,
Della Triuacria abbandonando i lidi,
Per la giusta di Giove ira, e del Sole,
Di cui morto que' folli avean Farmento.
Il mar, che tutti gì' inghiotti, sospinse
Lui su gli avanzi delia nave infranta
Al caro degli Dei popol Feace.
Costor di cuore il riverian, qual Nume^
Colmavanlo di doni, e in Patria salvo
Ricondurre il volean : se non che. nuove
Terre veder pellegrinando, e molti
Tesori radunar, più saggio avviso
Parve all'eroe d'accorgimenti mastro,
E cui non v'ha chi di saver non ceda.
Così a me de'Tesproti il re Fidone
Disse, e giurava, in sua magion libando,
Che varata la barca era» e parati
Color che deon ripatrì'arlo. Quindi
Mi congedò: che, per Dulichio a sorte,
Le vele alzava una Tesprozia nave.
Ma ei mostrommi in pria« quanto avea Ulisse
Raccolto errando, e che una casa intera
Per dieci etadi a sostener bastava.
Poi soggiungeami, che a Dodona ir volle,
Giove per consultare, e udir dall'alta
Quercia indovina, se ridursi ai dolci
Campi d'Itaca sua dopo si lunga
Stagion dovesse alla scoperta, o ignoto.
Salvo, è dunque, e vicin; né dagli amici
^Disgiunto, e schiuso dalle avite mura
Gran tempo rimarrà? Vuoi tu ch'io giuri?
Prima il Saturnio in testimonio io chiamo.
Sommo tra i Numi, ed ottimo, e d'Uhase
Poscia il sacrato focolar, cui venni;
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(v. 373-408) LiSRa xixr , ^ ' B5l
Tatto, qual dico, seguir dee. Quest'anno,
Li* ano uscenda de' mesi, o entrando Taltro,
Varcherà Ulisse le paterne soglie.
Ob s' avveri T Penelope rispose.
Tal dell'affetto mio pegni tu avresti,
Che quale, o forestiero, in te con gli occhi
Desse, dina: Vedi mortai beato!
Ma altro io penso, e quel ch'io penso fia:
Né riederà il consorte, né tu scorta
Impetrerai; che non v'ha più un Ulisse
Qai, se pur v'era un giorno, e non fu sogno,
Un Ulisse non v'ha, che i venerandi
Ospiti ancor nel suo real palagio
Sappia, ed accomiatarli. Or voi, mie donne,
Liavate i piedi allo straniero, e un denso
I>i coltri e vesti e splendidi mantelli
Letto gli apparecchiate, ov'ei corcato
Tutta notte si scaldi in sino all'alba.
L'alba comparsa in Oriente appena.
Voi tergetelo e ungetelo; ed ei mangi
Seduto in casa col mio figlio, e guai
De' servi a quel che ingiuriarlo ardisse !
UMcio più non gli sarà commesso.
Per cruccio ch'ei mostrassene. Deh come
Sapresti, o forestier, eh* io l'altre donne
Vinco, se vinco, di boutade e senno,
Mentre di cenci e di squallor coverto
Pasteggiar ti lasciassi entro l'albergo?
Cose brevi son gli uomini. Chi nacque
Con alma dura, e duri sensi nutre,
Le sventure a lui vivo il mondo prega,
£ il maledice morto. Ma se alcuno
Ciò, che v'ha di più bello, ama, ed in alto
Poggia con l'intelletto, in ogni dove
Gli òspiti portan la sua gloria, e volt
Eterno il nome suo dì bocca in bocca.
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352 omssEi (v. 409-444;
Saggia del figlio di Laerte dònna,
Ripigliò^ Ulisse, le vellose vesti
Cadeanmi in odio, «d i superbi manti,
Da quel dì che su nave a lunghi remi
Lasciai di Creta i nevicosi monti.^
Io giacerò, qual pur solea, passando
Le intere notti insonne. Oh quante notti
Giacqui in sordido letto, e dell'aurora
Mal corcato affrettai la sacra lucei
Né a me de' piedi la lavanda piace:
Né delle donne, che ne' tuoi servigi
Spendonsi, alcuna toccherà il mio piede.
Se non è qualche annosa e onesta vecchia,
Che al par di me sofferto abbia a* suoi giorni.
A questa il pie non disdirei toccarmi.
E l'egregia Penelope di nuovo:
Ospite caro, pellegrin di senno
Non capitò qua mai, che di te al core
Mi s'accostasse piti, di te, che in modo
Leggiadro esprimi ogni prudente senso.
Una vecchia ho molto avvisata e scorta,
Che nelle braccia sue quell'infelice
Raccolse uscito del materno grembo,
E buon latte gli dava, ed il crescea.
Ella, benché di vita un soffio in lei
Rimanga sol, ti laverà le piante.
Via, fedele Euriclèa, sorgi, e a chi d'anni
Pareggia il tuo signor, le piante lava.
Tal ne* piedi vederlo, e nelle mani
Parmi in qualche da noi lontana parte:
Che ratto l'uom tra le sciagure invecchia.
Euriclèa con le man coperse il volto,
E versò calde lagrime, e dolenti
Parole articolò: Me sventurata,
Figlio,*^er amor tuo! Più, che altri al mondo,
^Te, che noi morti, odia il Saturnio padre.
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(^. 445-480) _ LIBRO XIX. . 353
Tanti non gli arse alciini floridi lombi,
Tante ecatombe non gli offerse, come
Ta, di giunger pregandolo a tranquilla
Vecchiezza, e un prode allevar figlio; ed ecco
Che del ritorno il di Giove ti spense.
O buon vegliardo, allor che a un altro albergo
D'alcun signor lontano ei pellegrino
S'appresserà, Tinsulteran le donne,
Qual te insultare tutte queste serpi,
Da cui. Tonte schivandone e gli oltraggi,
Venir tocco ricusi; ed a me quindi
La Sglia saggia del possente Icario
Tal ministero impon, che non mi grava.
10 dunque il compierò, si per amore
Della Reina, e si per tuo: che forte
Commossa dentro il sen l'alma io mi sento.
Ma tu ricevi un de' miei detti ancora:
Fra molti grami forestier, che a questa
Magion s'avvicinare, un sol, che Ulisse
Nella voce, ne' piedi, in tutto il corpo,
Somigliasse cotanto, io mai noi vidi.
Vecchia, rispose lo scaltrito eroe,
Cosi chiunque ambo ci scorse, afferma:
Correr tra Ulisse e me, qual tu ben dici,
Somiglianza cotal, che l'un par l'altro.
L'ottima vecchia una lucente conca
Prese, e molta fredd* acqua entro versovvi,
E su vi sparse la bollente, Ulisse,
Che al focolar sedea, vèr l'ombra tutto
Si girò per timor, non Euriclèa
Scorgesse, brancicandolo, l'antica
Margine ch'ei portava in su la coscia,
E alla sua fraudo si togliesse il velo.
Euriclèa nondimen, che già da presso
Fatta gli s'era, ed il suo re lavava,
11 segno ravvisò della ferita
Odissea ^ » ,
DigitizedbyCjOOgle
354 ODISSEA ' (V; 481<816)
Dal bianco dente d'un cinghiale impressa
Sul monte di Parnaso; e ciò fu, quando
Della sua madre al genitor famoso
Garzone andò, ad Autòlico, che tutti
Del rapir vinse, e del giurar nell'arti,
Per favor di Mercurio, a cui si grate
Cosce d'agnelli ardeva, e di capretti.
Che ogni suo passo accompagnava il Nume
Autòlica un di venne all'Itacese
Popolo in mezzo, e alla città, che nato
Era di poco alla sua f glia un figlio.
Questo Euriclèa su le ginocchia all'avo
Dopo il convito pose, e feo tai detti:
Autòlico, tu stesso il nome or trova
Da imporre in fronte al grazioso parto,
Pei* cui stancasti co' tuoi voti i Numi.
E prontamente Autòlico in risposta:
Genero, e figlia mia, quel gì' imporrete
Nome, ch'io vi dirò. D'uomini e donne
Su l'altrice di molti immensa terra
Spavento io fui: dunque si chiami Ulisse.
10 poi, se, di bambin fatto garzone.
Nel superbo verrà materno albergo
Sovra il Parnaso, ove ho le mie ricchezze,
Doni gli porgerò per cui più lieto
Discenderà da me, che a me non salse.
A ricevere Ulisse andò tai doni,
E Autòlico l'accolse^ ed i suoi figli.
Con amiche parole, e aperte braccia;
E Tavola Anfitòa, strettolo al petto,
11 capo, ed ambi gli baciò i begli occhi.
Ai figli il padre comandò, nò indarno,
La mensa: un bue di cinque anni menaro.
Lo scoiar, l'acconciar, tutto il partirò;
E i brani, che ne fur con arte fatti.
Negli schidoni infissero, e ugualmente
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(y. 517-552)' libro xix. 355
Li dispensar, domi che gli ebbe il foco.
Così tutto' quel dì d'ugual per tutti
Prandio godean sino airOccaso. Il Sole
Caduto, e apparsa della notte l'ombra,
La dolcezza provar, cui reca il sonno.
Ma come figlia del mattin l'Aurora
Si mofitrò in ciel ditirosata e bella,
I figliuoli d'Autòlico ed Ulisse
Con molti cani a una gran caccia uscirò.
La Testita di boschi alta montagna
Salgono, e in breve tra i ventosi gioghi
Veggonsi di Parnaso. Il Sol recente,
Dalle placide sorte acque profonde
DeirOceàn, su i rugiadosi campi
Saettava i suoi raggi, e i cacciatori
Scendeano in una valle: innanzi i cani
Ivan, fiutando le selvatic' orme,
E co' figli d'Autòlico, pallando
Una lancia, che lunga ombra gittava,
Tra i cani e i cacciatori andava Ulisse.
Smisurato cinghiale in così folta
Macchia giacca, che né di venti acquosi
Forza, nò raggio mai d'acuto Sole
La percoteva, né le piogge affatto
V'entravano: copri'a di secche foglie
Gran dovizia la terra. Il cinghiai fiero,
Che al calpestio, che gli sonava intorno,
Appressare ognor più sentia la caccia^
Sbucò del suo ricetto, e orribilmente
Rizzando i peli della sua cervice,
E con pregni di foco occhi guatando.
Stette di centra. Ulisse il primo, l'asta
Tenendo éoprammano, impeto fece
In lui, ch'ei d'impiagare ardea di voglia:
Ma la fera prevennelo, ed il colse
Sovra il ginocchio con un colpo obliquo
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' 356 ODISSEA ' (y. 553-588)
Della gran sauna, e ne rapi assai carùe;
Né però della coscia airosso- aggiunse.
Ferilla Ulisse allor nelFomer destro,
Dove il colpo assestò; scese profonda
L'aguzza punta della fulgid*asta;
E il mostro su la polvere cade.
Mettendo un grido, e ne volò via l'alma.
Ma d'Autòlico i f gli a Ulisse tutti
Travagliavansi intorno: acconciamente
Fasciar la piaga, e con possente incanto
Il sangue ne arrestare, e dell'amato
Padre all'albergo il trasportare in fretta.
Sanato appieno, e di bei doni carco,
Contenti alla cara Itaca contento
Lo rimandare. Il padre suo Laerte
E la madre Anticlèa gioian pur troppo
Del suo ritorno, e il richiedean di tutto,
E più della ferita; ed ei narrava,
Come, invitato a una silvestre guerra
Da* figliuoli dell' avo, il bianco dente
Piai^ollo d*un cinghiai sovra il Parnaso.
Tal cicatrice l'amorosa vecchia
Conobbe, brancicandola, ed il piede
Lasciò andar giù: la gamba nella conca
Cadde, ne rimbombò il concavo rame,
E piegò tutto da ima banda, e in terra
L'acqua si sparse. Gaudio a un'ora e duolo
La prese, e gli occhi le s'empier di pianto,
E in uscir le tornò la voce indietro.
Proruppe al fin, prendendolo pel mento:
Caro figlio, tu sei per certo Ulisse,
Né io, né io ti ravvisai, che tutto
Pria non avessi il mio signor tastato.
Tacque; e guardò Penelope, volendo
Mostrar che l'amor suo lungi non era.
Ma la Reina né veder di centra
Digitized^yGópgle
(v. 589-624) LIBRO xix. 357
Proteo, uè mente por :. che Palla il core
Le torse altrove. Ulisse intanto strinse
Oon la man destra ad Euriclèa la gola,
E a so tirella con la manca, e disse:
Nutrice, vuoi tu perdermi? Tu stessa,
Si, mi tenesti alla tua poppa un giorno,
E nell'anno ventesimo, sofferte
Pene infinite, alla mia Patria io venni.
IMa, poiché mi scopristi, e un Dio si volle,
Taci, e di me qui dentro altri non sappia:
Però ch'io giuro, e non invan, che s'io
Con l'aiuto de' Numi 1 Proci spegno.
Né da te pur, benché mia balia, il braccio,
Che l'altre donne ucciderà, ritengo.
Figlio, qual mai dal core osò parola
Salirti in su le labbra? ella riprese.
Non mi conosci tu nel petto un'alma
Ferma ed inespugnabile? Il segreto
10 serberò, qual dura selce, o bronzo.
Ciò senti ancora, e tei rammenta: dove
Spengan gli Dei per la tua mano i Proci,
Delle donne in palagio ad una ad una
Qual t'ingiuria, io dirotti, e qual t'onora.
Nutrice, del tuo indizio uopo non havvi.
Ripigliò Ulisse. Io per me stesso tutte
Le osserverò, conoscerólle: solo
Tu a tacer pensa, e lascia il resto ai Numi.
La vecchia tosto per nuov' acqua uscio,
Sparsa tutta la prima. Asterso ch'ebbe
Ulisse, ed unto, ei novamente al foco,
Calde aure a trarne, s'accostò col seggio,
E co' panni la margine coverse.
E Penelope allor: Brevi parole,
Ospite, ancora. Già de' dolci sonni
11 tempo è giunto per color, cui lieve /^*
Doglia consente il ricettarli in petto :-^^®
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358 omss&A ~ (v. 625-660)
Ma doglia a me non lieve i Numi diero.
Finché riluce il di, solo ne* pianti
Piacere io trovo, e ne' sospiri, mentre
.Guardo ai lavori deirancelle, e a* miei.
La notte poi, quando ciascun s' addorme,
Che vai corcarmi, se le molte cure
Crudele intorno al cor muovonmi guerra?
Come allor che di Pàndaro la figlia
Ne' giorni primi del rosato aprile,
La fìoriscente Filomela, assisa
Degli arbor suoi tra le più dense fronde,
Canta soavemente, e in cento spezza
Suoni diversi la instancabil voce,
'Iti, che a Zelo partorì, piangendo,
Iti caro, che poi barbara uccise
Per insania, onde più sé non conobbe:
Non altrimenti io piango, e l'alma incerta
In questa or piega, ed ora in quella parte,
S'io stia col figlio, e integro serbi il tutto
Le sostanze, le serve, e gli alti tetti,
Del mio consorte rispettando il letto,
E del popol le voci; o quello io siegua
Degli Achei tra i miglior, che alle mie nozze,
Doni infiniti presentando, aspira.
Sino a tanto che il figlio era di senno.
Come d'età, fanciullo ancor, lasciata
Questa io mai non avrei per altra casa:
Ma or ch'ei crebbe, e della pubertade
Già la soglia toccò, men priega ei stesso,
Non potendo mirar lo strazio indegno.
Che di lui fan gli Achivi. Or tu, su, via,
^'f>iegami un sogno, ch'io narrarti intendo.
^®^ti nella mia corte oche io nutrisco,
E ^^ qualche diletto emmi il vederje
Cogiti» (ia limpid* acqua il biondo grano.
Menti» ìq Iq osservo, ecco dall'alto monte
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(v. 661-606) LIBRO XIX. 359
Orande aquila calar curvorostrata,
P* Tangere a tutte la cervice, tutte
L*una su Taltra riversarle spente,
E risalii vèr T etere divino.
Io mettea lai, benché nel sogno, e strida,
E le no>ili Achee dal crin ricciuto
Veniano a me, che miserabilmente
L'oche plorava dall'aguglia morte,
E a me intorno affoUavansi. Ma quella,
Rivolando dal ciel, su lo sporgente
Tetto sedeasi, e con umana voce.
Ti raccheta, diceami, e spera, o figlia
Del glorioso Icario: un vano sogno
Questo non è, ma vision verace
Di ciò che seguirà. Nell'oche i Proci
Havvisa, e in queste d' aquila sembianze
Il tuo consorte, che al fln venne, e tutti
Stenderà nel lor sangue a terra i Proci.
Tacquesi; e il sonno abbandonommi, ed io,
Gittando gli occhi per la corte, vidi
Le oche mie, che nel trogolo, qual prima,
I graditi frumenti ivan beccando.
Donna, rispose di Laerte il figlio,
Altramente da quel che Ulisse feo
Non lice il sonno interpretar: l'eccidio
Di tutti i Proci manifesto appare.
E la saggia Penelope: Non tutti.
Ospite, i sogni investigar si ponno.
Scuro parlano e ambiguo, e non risponde
L'effetto sempre. Degli aerei sogni
Son due le porte, una di corno, e l'altra
D'avorio. Dall'avorio escono ì falsi,
E fantasmi con sé fallaci e vani
Portano : i veri dal* polito corno,
E questi mai 1* uom non iscorge indarno.
Ah! creder non poss'io che quinci uscisse
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360 ODissBJL (v. 697-732)
L'immagin fiera d'un evento, donde
Tanta verrebbe a me gioia, e al mio figlio.
Ma odi attento i detti miei. Già Talba,
Che rimuover mi dee da questi alberghi.
Ad apparir non tarderà. Che farmi?
Un giuoco io propor vo*. Dodici pali,
Quai puntelli di nave, intorno a cui
Va del fabbro la man, piantava Ulisse
L'un dietro all'altro con anelli in cima;
Ed ei, lungo tenendosi, spingea
Per ogni anello la pennuta freccia.
Io tal cimento proporrò. Chi meglio
Tender l'arco saprà fra tutti i Proci,
E d'anello in anello andar col dardo,
Lui seguir non ricuso, abbandonando
Questa si bella, e ben fornita, e ricca
Magion de' miei verd'anni, ond* anche in sogno
Dovermi spesso ricordare io penso.
veneranda, ripigliava Ulisse,
Donna del Laerzìade, una tal prova
Punto non diflferir : pria che un de' Proci
Questo maneggi arco lucente, e il nervo
Ne tenda, e passi pe' ritondi ferri,
Ti s'offrirà davante il tuo consorte.
E Penelope al fine: Ospite, quando.
Vicino a me sedendoti, il diletto
Protrar della tua voce a me volessi,
Non mi cadrebbe su le ciglia il sonno.
Ma non può sempre l'uom vivere insonne:
Che legge a tutto stabilirò, e meta
Su la terra fruttifera gli Eterni.
Io, nelle stanze alte salita, un letto
Premerò, che divenne a me lugubre
Dal dì che Ulisse il can^e funesto
Per la nemica sciolse infanda Troia.
Tu nel palagio ti riposa, e a terra
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(v, 733-739) - LIBRO XIX.. • 3jBl^
Sdraiati, o, se ti piace, a té le mie
I>oxine apparecchieran, dove corcarti.
La Regina, ciò detto, alle superne
^lontò sue stanze, e non già sola; ed ivi
Sino a tanto piangea Tamato Ulisse,
Ctie un dolce sonno sovra lei spargesse
La cilestra negli occhi augusta Diva.
LIBRO VENTESIMO
ARGOMENTO
Ulisse si sdraia neiratrio, e osserva la disonestà deirancelle.
— C.liiede a Giove qualche segno favorevole ; ed 6 esaudito.
— Temeritìk di Melanzio* e accoglienza amorevole di File-
zio. — Ctesippo lancia contro ad Ulisse un pie di bue : ma
noi coglie. — Vaticinio di Teoclimeno. — I Proci se ne
fan beffe ; e scherniscono Ulisse ancora e Telemaco.
Il magnanino^o figlio di Laerte
Giaoea nell* atrio. Una recent;e pelle -
Steso aveasi di bue con altre molte
Di pingui agnello dagl'ingordi Achei
Sagrifìcate; e d'un velloso manto
Lui già corcato Eurinome coverse.
Qui co* pensieri suoi l'eroe vegliava,
Sventure ai Proci divisando. Intanto
Le ancelle, che solcano ai Proci darsi.
Uscirò di lor camere, in gran riso
Prorompendo tra loro, e in turpe gioia.
Ei forte l'alma sì sentia commossa,
E bilanciava, se avventarsi, e tutte
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362 omssBAr (v. 14'4'j
Porle a morte^ dovesse in un istante,
consentir che per l' estrema volta
Delinquesser le tristi; e in sé fremea.
E come alior che ai cagnolini intorno
Gira la madre, e, se un ignoto spunta,
Latra, e brama pugnar; non altrimenti
Egli, che mai patia l'opre nefande,
Alto fremea nel generoso petto.
Pur, battendosi Tanca, e rampognando
Egli stesso il suo cor, Soffri, gli disse,
Tu, che assai peggior male allor soffristi,
Che il Ciclope fortissimo gli amici
Mi divorava. Tollerar sapesti,
Finché me fuor dell'antro il senno trasse,
Quand'io già della vita era in su l'orlo.
Ei cosi i moti reprimea del core.
Che ne' recinti suoi cheto si stette.
Non lasciava però su l'un de' fianchi
Di voltarsi, o su l'altro, a quella guisa
Che pien di sangue e d'adipe ventriglio
Uom, che si strugge di vederlo incotto.
D'un gran foco all'arder volg^ e rivolge.
Su questo ei si voltava, o su quel fianco,
Meditando fra sé, come potesse
Scagliarsi al fin contra i malnati prenci,
Contra molti egli solo; ed ecco, scesa
Di cielo, a lui manifestarsi in forma
D'una mortale l'Atenéa Minerva.
Stettegli sovra il capo, e tai parole
Gli volse: degli umani il piti infelice.
Perché i conforti rifiutar del sonno?
Sei pur nel tuo palagio, appo la fida
Tua donna, e al fianco d'un figliuolo, acuì
Vorriano aver l'uguale i padri tutti. I
Il ver parlasti, o Dea, rispose Ulisse:
Se non che meco io mi consiglio, come
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V. &Cr.85) LIBRO XX. 363
Scagliarmi ai Proci svergognati incontro,
Mentre in foUa ognor son quelli, ed io solo.
la oltre io penso, e ciò più ancor mi turba,
Che, quando col favore anco m'avvenga
Del Tonante, e col tuo, cacciarli a Dite,
Non so dove sottrarmi a quella turba
Che vengiarli vorrà. Tu questo libra.
Tristo! riprese la negli occhi azzurra,
L'uomo a un compagno suo crede, a un mortale
Peggior di sé talvolta, e meno esperto,
El tu non a me Diva, e a me, che in ogni
Travaglio tuo sempre ti guardo? Sappi,
Che se cinquanta d'uomini parlanti
Fosserci intorno pugnatrici schiere.
Sparsi por la campagna i greggi loro.
Tua preda diverriano, e i loro armenti.
Chetati, e il sonno nel tuo asn ricevi:
Che vegliando passar la notte in guardia
Troppo é molesto. Uscirai fuor tra poco
Da tutti senza dubbio i mali tuoi.
Disse, e un sopor dolcissimo gl'infuse:
Né pria le membra tutte quante sciolte
Gli vide, e sgombra d'ogni affanno l'alma
Che all'Olimpo tornò l'inclita Diva.
Ma il sonno sen fuggì dagli occhi a un tratto
Della Reina, che già sovra il molle
Letto sedeasi, e ricadea nel pianto.
Come sazia ne fu, calde a Dì'ana
Preghiere alzò la sconsolata donna:
O del Saturnio figlia, augusta Dea,
Deh! nel mio seno un de* tuoi dardi scocca,
E ratto poni in libertà quest'alma,
O mi rapisca il turbine, e trasporti
Per l'aria, e nelle rapide correnti
DeirOceàn retrogrado mi getti
Così già le Pandaridi sparirò,
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364 ODISSEA (v. 86-12],
Che per voler de' Numi alla lor madre
Crucciati, e al padre, nella mesta casa
Orfanello rimaste erano, e sole.
Venere le nutrì di dolce mèle,
Di vin soave e di rappreso latte:
Senno e beltade sovra ogni altra, donna
Giuno compartì loro, Artemi un'alta
Statura, ed ai lavori i più leggiadri
Mano e intelletto la gran Dea d'Atene.
Già Venere d'Olimpo i gioghi eccelsi
Montato avea, per dimandar le nozze
Delle fanciulle al fulminante Giove,
Che nulla ignora, e i tristi eventi e i lieti
Conosce de' mortali; e quelle intanto
Dalle veloci Arpie furo rapite,
E in balia date alle odiose Erinni.
Cosi d'Itaca me tolgano i Numi,
d'un de* dardi suoi l'oricrinita
Diana mi ferisca; ond'io ritrovi,
Benché ne* regni della morte, Ulisse,
E del mio maritaggio uom non rallegri, |
Che di lui fia tanto minore. Ahi lassa!
Ben regger puossi la piti ria sventura,
Quando, passati lagrimando i giorni,
Le notti almen ci riconforta il sonno,
Che su i beni l'oblio sparge, e su i mali.
Ma sogni a me fallaci un Nume invia:
E questa notte ancor mi si corcava i
Da presso il mio consorte in quel sembiante |
Che avea nel di che su la nave ascese.
Tacque; e sul trono d'or l'Aurora apparve.
Ulisse udì le lagrimose voci.
Ed in sospetto entrò, che fatta accorta
Di lui si fosse, e già pareagli al capo
Vedersela vicina, AIzosìjì, e il manto
E i cuoi, tra cui giacca, raccolse, e pose
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V. 122-157) LiBRO^ XX. 365
?ovra una sedia, e la bovina pelle
Fuor portò del palagio. ladi, levate
Le mani, a Giove supplicava: O Giove
Pildre, e Dei tutti, che per terra e mare
Me dopo tanti affanni al patrio nido
Ricondaceste, un lieto augurio in bocca
Mettete ad un di quei che nel!' interno
Vegghiano ; e all'aria aperta un tuo prodigio,
Giove, mi mostra. Cosi, orando, disse.
U di Ilo il sommo Giove, e incontanente
Dal sublime tonò lucido Olimpo,
E l'eroe giubbilonne. Al tempo stesso
Donna che il grano macinava, detti
Presaghi gli mandò, donde non lungi
Del pastor delle genti eran le mole.
Dodici donne con assidua cura
Gir avan' ciascun di dodici mole,
E in bianca polve que* frumenti ed orzi
Riducean, che deiruom son forza e vita.
Le altre dormian dopo il travaglio grave:
Ma quella, cui reggean manco le braccia^
Compiuto non l'avea. Costei la mola
Fermò di botto, e feo volar tai voci.
Che segnale al Re furo: padre Giove,
Degli uomini signore e degli Dei,
Forte tonasti dall'eterea volta,
E non v'ha nube. Tal portento è al certo
Per alcun de' mortali. Ah! le preghiere
Anco di me infelice adempì, o padre,
Cessi quest'oggi nella bella sala
Il disonesto pasteggiar de' Proci,
Che di fatica m'hanno, e di tristezza
Presso un grave macigno omai consunta.
L'ultimo sia de'lor banchetti questo.
Della voce allegravasi, e del tuono
L'illustre figlio di Laerte, e l'alta
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366 ODISSEA.. (v. 158-103
Già in pugno si tenea giusta vendetta.
L'altre fantesche raecoglieansi intanto,
E un foco raccendean vivo e perenne.
Ma il deiforme Telemaco di letto
Surse, vestì le giovanili membra.
L'acuto brando all'omero sospese,
Legò sotto i pie molli i bei calzari,
E una valida strinse asta nodosa
Con fino rame luminoso in punta.
Giunto alla soglia, s'arrestò col piede,
E ad Euriclea parlò: Cara nutrice,
Il trattaste voi ben di cibo e letto
L'ospite? forse non curato giacque?
Anco la madre mia, benché sì saggia.
Sfallisce in questo: chi è men degno ^ onora,
E non cura onorar chi più sei merta.
Ed Euriclea: Pigliuol, non incolparmi
La innocente tua madre. A suo piacere
Bevea l'ospite assiso; e quanto all'esca,
Domandato da lei, disse, mestieri
Non ne aver più. Come appressava l'ora
Del riposo e del sonno, apparecchiargli
C'impose un letto: ma i tappeti molli
Rifiutò, qual chi vive ai mali in grembo.
Corcossi nel vestibolo su fresca
Pelle di tauro, e cuoi d'agnello: noi
D'una vellosa clamide il coprimmo.
Telemaco, ciò udito, uscia dell'alte
Stanze, al foro per ir, con l'asta in mano;
E due seguianlo pieveloci cani.
Colà gli Achei dagli schinieri egregi
Raccolti l'attendean: mentre l'antica
D'Opi di Pisenòr figlia, le ancelle
Stimolando, Affrettatevi, dlcea,
Parte a nettar la sala, e ad inaffiarla,
E le purpuree su i ben fatti seggi
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(v. 194^29) ^ LIBRO XX. . 367
Coverte a dispiegar; parte le mense
Con le umide a lavar forate spugne,
E i vasi a ripolire, è i lavorati
Nappi rìtondi; ed al profondo fonte
Parte andate per l'acqua, e nel palagio
Recatela di fretta. I Proci molto
Non tarderan: sollecitar li dee
Questo dì, che festivo a tutti splende.
Tutte ascoltare, ed ubbidirò. Venti
Al fonte s'avviar dalle nere acque:
L'altre gli altri compieano interni uffici.
Vennero i servi degli Achivi, e secche
Legna con arte dividean; le donne
Venner dal fonte; venne Eumèo, guidando
Tre, della mandra fior, nitidi verri.
Che nel vasto cortil pascer lasciava.
Quindi, fermate nel suo Re le ciglia,
Vecchio, imparare a rispettarti forse,
0, disse, a t* oltraggiar seguon gli Achei?
Euméo, rispose il Re, piacesse ai Numi
Questa gente punir, che nell'altrui
Magion rei fatti, ingiuriando, pensa,
E dramma di pudor non serba in petto !
Così tra lor dicean, quando il capraio
Co' più bei della greggia eletti corpi.
L'avido ventre a riempir de' Proci,
Giunse Melanzio, e seco due pastori.
Ei le capre legò sotto il sonante
Portico, e morse nuovamente Ulisse:
Stranier, molesto ci sarai tu ancora,
Mendicando da ognun? Fuori una volta
Non uscirai? Difficilmente, io credo.
Noi ci dividerem, che l'un dell'altro
Assaggiate le man non abbia in prima:
Però che tu villanamente accatti.
Altra mensa in città dunque non fuma?
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368' ODISSEA (v..230-26u
Nulla l'offeso eroe; ma sol crollava
Tacitamente il capo, e la risposta.
Che farà con la man, tra sé volgea.
Filezio in quella sopraggiunse terzo,
Grassa vacca menando, e pingui capre,
Cui traghettò su passeggiera barca
Gente di mar, che à questa cura intende.
Le avvinse sotto il portico, e vicino
Fattosi a Eumèo, 1* interrogava : Eumèo,
Chi è quello stranier che ai nostri alberghi
Testé arrivò? Quali esser dice, e dove
La sua terra nativa, e i padri suoi?
Lasso! un Monarca egli mi sembra in vista.
Certo piace agli Dei metter nel fondo
Delle sventure i viandanti, quando
Si destina da loro ai Re tal sorte.
Disse, e appressando il forestiero* e a lui
La man porgendo. Ospite padre, salve.
Soggiunse: almen, se nella doglia or vivi,
Sorganti più sereni i giorni estremi!
Giove, quàl mai di te Nume più crudo.
Che alla fatica, e all'infortunio in preda
Lasci i mortali, cui la vita desti?
Freddo sudor bagnommi, e mi s'empierò
Gli occhi di pianto, immaginando Ulisse,
Cui veder parmi con tai panni in dosso
Tra gli uomini vagar, se qualche terra
Sostienlo ancora, e gli risplende il Sole.
Sventurato di me! L'inclito Ulisse
A me fanciullo delle sue giovenche
La cura die ne' Cefaleni campi;
Ed io si le guardai, che in infinito
L'armento crebbe dalle larghe fronti
Questo sul mare trasportar per esca
Deggio a una turba di signori estrani.
Che nò guarda al figliuol, né gli Dei teme:
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(v. 2è6*301) tiBRo ix. 369
Mentre d©' beni del mio Sir lontano
La parte, cui fìnor perdonò il dente,
Con gli occhi ella divora, e col desìo.
Ora io stommi fra due: perchè rea cosa
Certo saria, vivo il figliuolo, a un'altra
Gente con l'armento ir ; ma d'altra pB,ttB
Pesami fieramente appo una mandra
E^star, che a me divenne omai straniera.
E se non fosse la non morta speme,
Che quel misero rieda, e sperda i Proci,
Io di qualche magnanimo padrone
Cria nella corte riparato avrei:
Che tai cose durar più non si ponno.
E l'eroe sì gli rispondea: Pastore,
Poiché malvagio non mi sembri, e stolto,
E senno anche dimostri, odi i miei detti,
E il giuramento che su questi siede.
10 pria tra i Numi in testimonio Giove,
E la mensa ospitai chiamo, e d'Ulisse
11 venerando focolar, cui venni :
Giungerà il figlio di Laerte, e all'Orco
Precipitar gli usurpatori Proci
Vedranlo, se tu vuoi, gli occhi tuoi stessi.
Ospite, questo il Saturnide adempia,
Keplicò il guardian: vedresti, come
Intrepido seguir del mio signore
La giusta ira io saprei. Tacque; ed Eumèo
S'unia con esso, e agl'Immortali tutti
Pel ritorno del Re preghiere fea.
Morte intanto a Telemaco s'ordia
Dai Proci. É ver, che alla sinistra loro
Un'aquila comparve altovolante.
Che avea colomba trepida tra Tugne.
Tosto Anfìnomo sorse, e, Amici, disse,
Lasciam da un lato la cruenta tramta.
Cui più, che invan, si pensa; ed il convito
. DigitizedbyCjOOgle
370 . (ODISSEA ' {v. 302-3^
Ci soTvenga più presto. B il detto piacque.
I Proci entraro nel palagio, e i manti
Soyra i seggi deposero: le pingui
Capre e i montoni s'inamolaro, corse
De* verri il sangue, e la buessa, onore
Bell'armento, cade. Faro spartite
Le abbrustolate viscere, e mesciuto
Nell'urne il rosso vino, Eumèo le tazze,
Filezio i pani dispensò ne* vaghi
Canestri: ma dall'arne il buon licore
Melanzio nelle ciotole versava.
E già i Prenci volgeano all'apprestate
Mense il pensier, quando d'Ulisse il figlio,
Non senza un suo perchè, seder fé il padre
Presso il marmoreo limitar su rozzo
Scanno, ed a picciol desco; e qui una parte
GÌ' imbandì delle viscere, e gl'infuse
Vermiglio vino in tazza d'oro, e tale
Parlò: Tu pur siedi co' Preci, e bevi.
Io dalle lingue audaci e dalie mani
Ti schermirò: che non è questo albergo
Pubblico, ma d'Ulisse, ed a me solo
Egli acquistoUo. E voi frenate, o Proci,
Le man, non che le lingue, onde contesa
Qui non s'accenda, e subitana rissa.
• Strinser le labbra, ed inarcar le ciglia.
Ed Antinoo cosi: La minacciosa,
Compagni, di Telemaco favella,
Per molesta che sìa, durarla vuoisi.
Giove il protegge: che altramente imposto,
Benché canoro arringator, gli avremmo
Silenzio eterno da gran tempo. Disse:
E il dispregiò Telemaco, e si tenne.
Già i banditori l'ecatombe sacra
Degli Dei conducean per la cittade,
E raccoglieansi i capelluti Schivi
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(v. S3à-373) LIBRO xx/ 371
Sotto il ì)osco frondifero d'Apollo,
Di cui per cotanto aere il dardo vola.
E al tempo stesso, incotte ornai le carni,
Nel palagio d'Ulisse, e dagli acuti
Schidòni tratte, e poi divise in brani.
L'alto vi si tenea prandio solenne.
Parte uguale con gli altri anco ad Ulisse
Fu posta innanzi dai ministri, come
Volle il caro fìgliuol: né degli oltraggi
Però Minerva consentia che i Proci
Rimettessero punto, acciocché al Rege
L'ira più addentro penetrasse in petto.
V'era tra loro un malvagio uom, che avea
Nome Ctesippo, e dimorava in Same.>
Costui, fidando ne' tesor paterni ,
La consorte del Re con gli altri amhiva.
Surse, e tal favellò: Proci, ascoltate.
Il forestier, qual conveniasi, ottenne
Parte uguale con noi. Chi mai vorria
Dì Telemaco un ospite fraudarne,
Chiunque fosse? Ora io di fargli intendo
Un nobil don, ch'egli potrà in mercede
Bar poscia o al bagnaiuolp, o a qual tra i servi
Gli piacerà dell'immortale Ulisse.
Così dicendo, una bovina zampa
Levò su da un canestro, e con gagliarda
Mano avventolla* L' inconcusso eroe
Sfuggilla, il capo declinando alquanto,
Ed in quell'atto d'un cotal suo riso
Sardonico ridendo, e il pie del bue
A percuotere andò nella parete.
Meglio d'assai per te, che noi cogliesti,
Sì Telemaco allora il tracotante
Ctesippo rabbuffò: meglio, che il colpo
L'oste schivasse; però ch'io nel mezzo
Del cor sen2' alcun dubbi un'asta acuta
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872 ' , ODISSEA, (v. 374^9)
T'avrei piantata, e delle nozze in Tece
Celebrate t'avria l'esequie il padre.
Fine dunque agl'insulti. Io piti fanciullo
Non son, tutto m'è noto, ed i confini
Segnar del retto, e del non retto, io valgo.
Credete voi ch'io soffrirei tal piaga
Nelle sostanze mie, se forte troppo
Non fosse impresa il frenar molti a un solo?
Su, via, cessate dall'offese, o dove
Sete del sangue mio l'alme vi punga.
Prendetevi il mio sangue. Io ciò pria voglio,
Che veder ciascun giorno opre si indegne,
I forestieri dileggiati, e spesso
Battuti, e nello splendido palagio
Contaminate, oh reità 1 le ancelle.
Tutti ammutirò, e sol, ma tardi molto.
Favellò il Damastoride Agelao:
Nobili amici, a chi parlò con senno.
Nessun risponda ingiurioso e avverso;
Né forestier piti si percuota, o altr'uomo
Che in corte serva del divino Ulisse.
Io poi darò a Telemaco e alla madre
Util consiglio con parole blande.
Se in cor loro entrerà. Finché speranza j
Del ritorno d'Ulisse a voi fioriva ,
Gl'indugi perdonare, ed i pretesti
Vi si poteano, e il trarre in lungo i Proci; j
Che, quando apparsa la sua faccia fosse,
Di prudenza lodati avriavi il mondo.
Ma chiaro parmi che più in man d'Ulisse
II ritorno non è. Trova la madre
Dunque, e la pressa tu, che a quel de* Proci,
Che ha piti virtude, e più doni offre, vada: j
Onde tu rientrar ne' beni tutti
Del padre possi, e alla tua mensa in gioia , i
Non ohe in pace seder, mentre la madre
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J
(v. 410-445) LIBRO XX. 373
Del nuovo sposo $.llegrerà le mura.
E il prudente Telemaco, Per Giove,
Rispose, e per li guai del padre tnio,
Ch* erra, o perì, dalia sua patria lunge,
Ti protesto, Agelao, eh* io della madre
Non indugio le nozze, anzi la esorto
Quello a seguir che più le aggrada, ed offre
Doni in copia maggior: ma i Dii beati
Tolgan che involontaria io la sbandisca
Da queste soglie con severi accenti.
Disse, e Minerva inestinguibil riso
Destò ne* Proci, e ne travolse il senno.
Ma il riso era stranier su quelle guance:
Ma sanguigne inghiottìan delle sgozzate
Bestie le carni; e poi dagli occhi a un tratto
Sgorgava loro un improvviso pianto,
E di previsa disventura il duolo
Ne' lor petti regnava. E qui levossi
Teoclimèno, il gran profeta, e disse:
Ah miseri, che veggio? E qual v'incontra
Caso funesto? Al corpo intorno, intorno
D'atra notte vi gira al capo un nembo.
Urlo fiero scoppiò; bagnansi i volti
D' involontarie lagrime ; di sangue
Tingonsi le pareti ed i bei palchi;
L'atrio s'empie e ilcortil d'Ombre, che in fretta
Giù discendon nell'Efebo; disparve
Dal cielo il Sole, e degli aerei campi
Una densa caligine indonnossi.
Tutti beffarsi del profeta, e queste
Voci Eurimaco sciolse: Il forestiero,
Che qua venne testé non so da dove.
Vaneggia, io penso. Giovani, su, vìa,
Mettetel fuori, acciocché in piazza ei vada,
Poscia che qui per notte il giorno prende.
E Tindovino, Eurimaco, rispose,
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374 oì)jssBA (v. 446-481)
Coteste guide, che vuoi darmi, tienti.
Occhi ho in testa, ed orecchi, e due pie sotto ,
E di tempra non vile un'alma in petto .
Con tai soccorsi io sgombrerò, scorgendo
Il mal che sopra voi pende, e a cui torsi
Non potrà un sol di voi, che gli stranieri
Oltraggiate, e studiate iniquitadi
Nella magion del pari ai Numi Ulisse.
Ciò detto, uscì da loro, ed a Pireo,
Che di buon grado il ricevè, s'addusse.
Ma i Proci, riguardandosi a vicenda,
E beffe d'ambo i forestier facendo,
Provocavan Telemaco. Non havvi,
Talun dicea, chi ad ospiti stia peggio,
Telemaco, di te. L'uno è un mendico
Errante, ornai di fame e sete morto,
Senza prodezza, senza industria, peso
Disutil della terra; e l'altro un pazzo.
Che, per far del profeta, in pie si leva.
Vuoi tu questo seguir, ch'io ti propongo.
Sano partito? Ambo gittiamli in nave,
E li mandiam della Sicilia ai lidi.
Più gioveranno a te, se tu li vendi.
Telemaco di lui nulla curava.
Ma levati tenea tacito gli occhi
Nel genitor, sempre aspettando il punto
Ch'ei fatto centra i Proci impeto avrebbe.
In faccia della sala, e in su la porta
Del ginecèo, da un suo lucente seggio
Tutti i lor detti la Regina udìa.
E quei, ridendo, il più soave e lauto,
Però che molte avean vittime uccise,
Convito celebrar : ma più ingioconda
Cena di quella non fu mai, che ai Proci,
Degna mercè della nequizia loro,
®+^van per imbandir Palla ed Ulisse.
—.==;; — sigitized by Google
LIBRO VENTESIMOPRIMO
ARGOMENTO
Penelope per ispiraMon di Minerva, propone il cimento del-
Tax'Co, presta a quello sposare tra i Proci, che saprk ten-
derlo e spinger secondo la imposta legge lo strale* — Te-
lemaco apparecchia il giuoco, ed egli stesso pruovasi il
primo, pensando di ritenere in casa, se il giuoco gli riesce,
la madre: ma in sul più bello il padre gli comanda di
starsi. — Si pruovano alcuni Proci , ed inutilmente. —
Bscono intanto Filezìo ed Eumòo ; e Ulisse li siegue, si
scuopre, e dà loro gli ordini più opportuni. — Nuovi ed
inutili tentativi, dopo i quali Àutinoo suggerisce di diffe-
rire al giorno appresso il cimento. -^ Ulisse anch*egU vuol
cimentarsi, e i Proci t'oppongono indarno. -^ Egli esamina
I-arco, il tende cOn molta facilità, e spinge la freccia se^
condo il rito felicissimamente.
Ma Palla, occhio azzurrino, alla prudente
Figlia d'Icario eatro lo spirto mise
Di propór Tarco ai Proci, e i ferrei anelli»
Nella pasa d*Ulisse: acerbo gioco,
E di strage principio, e di Yendetta.
La donna salse alla magion più alta,
E deirabii sua man la bella e ad arte
Curvata «biave di metallo prese
Pel manubrio di candido elefante.
Ciò fatto, andò con le fedeli ancelle
Nella stanza più interna, ove i tesori
Serbavansi del Re: rame, oro e ferro
Ben travagliato. E (jui giacca par l'arco
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376 ' ODiàSBA (t. 1449
Ritorto, e il sagittifero turcasso,
Cile molte dentro a sé frecce chiudea
Dolorifere : doni, che ad Ulisse,
Cai s'abbattè nella Laoonia un giorno,
Feo TEuritide Ifito ai Numi eguale.
S'incoutraro gli eroi nella magione
D'Orsiloco in Messenia. Di Messeni
Una masnada pecore trecento
Co'lor custodi su le lunghe navi
Rapito area dagl'Itacesi paschi;
E a richiedere il padre, e gli altri vecchi,
Giovane ambasciator per lunga strada.
Mandare Ulisse. D'altra parte Ifito
In traccia sen venia delle perdute
Sue dodici cavalle, e delle forti
Alla lor mamma pazienti mule,
Donde ruina derivògli, e morte:
Però che Alcide, il gran fìgliuol di Giove,
D'opere grandi fabbro, a lui, che accolto
Nel suo palagio avea, non paventando
Nò la giustizia degli Dei, né quella
Mensa ospitai che gli avea posta innanzi,
Tolse iniquo la vita, e le giumente
Dalla forte unghia in sua balìa ritenne.
Queste cercando, s'abbattè ad Ulisse,
E l'arco gli donò, che il chiaro Eurito
Portava, e in man del suo diletto figlio
Poi^e morendo negli eccelsi alberghi.
E il Laerziade un' affilata spada
Diede, e una lancia noderosa a Ifito,
D'un'amistà non lunga unico pegno:
Che di mensa conoscersi a vicenda
Lor non fu dato, ed il fìgliuol di Giove
L'Euritide divino innanzi uccise.
Quest'arco Ulisse, allorché in negra nave
Alle dure traea belliche prove,
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(v- 50-85) LIBRO XXI. 377
Noi togliea mai; ma per memoria eterna
Del caro amico alla parete appeso
Lasciar solealo, e sol gravarne il dosso
Neir isola natia gli era diletto.
Come pervenne alla secreta stanza
Li'egregia donna, e il limitar di quercia
Salì construtto a squadra e ripolito
Da fabbro industre, che adattovvi ancora
Le imposte ferme e le lucenti porte,
Tosto la fune dell'anello sciolse,
E introdusse la chiave, ed i serrami
Respinse: un rimugghiar, come di tauro,
Che di rauco boato empie la valle,
S*udì, quando le porte a lei s'aprirò.
Blla montò su l'elevato palco.
Dove gi accano alle bell'arche in grembo
Le profumate vesti, e, distendendo
Quindi la man, dalla cavicchia l'arco
Con tutta distaccò la luminosa
Vagina, entro cui stava. Indi s'assise;
. E, quel posato su le sue ginocchia.
Ne' pianti dava, e ne' lamenti : al fine
Dalla custodia sua l'arco fuor trasse.
Ma poiché fu di lai sazia e di pianti.
Scese, e de' Proci nel cospetto venne.
Quello in man sostenendo, e la farètra
Gravida di mortifere saette:
Mentre le ancelle la seguian con cesta
Del ferro piena, che leggiadro a Ulisse
Di forza esercizio era, e di destrezza.
Giunta ove quei sedean, fermava il piede .
Della sala dedalea in su la soglia
Tra l'una e l'altra ancella, e co* sottili
Veli del crine ambo le guance ombrava.
Poi sciogliea tali accenti : voi, che in questa
Gasa, lontano Ulisse, a forza entraste,
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378 ODISSEA (v. 86-121)
GÌ* interi giorni a consumar tra i Bappi,
Nò di tal reità miglior difesa
Sapeste addur, che le mie nozze, udite.
Quando sorse il gran dì, che la mia mano
Ritener più non deggio, ècco d'Ulisse
L'arco, càie per certame io vi propongo.
Chi tenderallo, e passerà per tutti
Con la freccia volante i ferrei cerchi,
Lui seguir non ricuso, abbandonata
Questa si bella, e di ricchezze colma
Magion de* miei verd' anni, ond'anche in sogno
Dovermi spesso ricordare io penso.
Disse; e, chiamato Eumèo, recare ai Proci
L*arco gì' ingiunse, e degli anelli il ferro,
Ei lagrimando il prese, e nella sala
Deposelo; e Filezio in altra parte.
Visto Tarma del Re, pianto versava.
Ma sgrida vali Antinoo in tai parole:
Sciocchi villani, la cui mente inferma
Oltra il presente di mai non si stende.
Perchè tal piagnistèo? Perchè alia donna
L'alma nel petto commovete, quasi
Per sé stessa non dolgasi abbastanza
Del perduto consorte? qui sedete
Taciti a bere, o a singhiozzare uscite,
E lasciate a noi Tarco, impresa molto ,
Vaglia il ver, forte per noi tutti, e a gabbo
Da non pigliar: che non avvi uom tra noi
Pari ad Ulisse per curvarlo. Il vidi
Negli anni miei più teneri, ed impressa
Me ne sta in mente da quel dì 1* imago.
Così d'Eupite il figlio; e non pertanto
Il nervo confìdavasi piegarne,
E d'anello in anel mandar lo strale.
Ma dovea prima l'infaUibil freccia
Gustare in vece dall'eroe scoccata,
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i(v. 122-157) LIBRO XXI. 379
Cui poc'anzi oltragg^iava , e incontro a cui
Aizzava i compagni a mensa assiso.
Qui tra i Proci parlò la sacra forza
Di Telemaco: Oh Dei! Me Giove al certo
Cavò di senno. La diletta madre
Dice un altro consorte, abbandonando
Queste mura, seguir, benché si saggia,
E folle io rido, e a sollazzarmi attendo.
Su, via, poiché a voi donna in premio s'offre,
Cui non l'Acaica terra, e non fé sacra
Pilo, ed Argo, Micene, Itaca stessa
Vanta l'eguale, e la feconda Epiro;
E il sapete voi ben, né, ch'io vi lodi
La genitrice, oggi è mestier; su, via,
Con vane scuse non tirate in lungo
Questo certame, e non rifugga indietro
Dalla tesa dell'arco il vostro braccio.
Cimenterommi anch'io. S'io tenderoUo,
E ne* ferri entrerò con la mia freccia.
Me qui lasciar per nuove nozze in duolo
La genitrice non vorrà, fuggire
Non vorrà da un figliuolo, che ne' paterni
Giochi la palma riportar già vale.
Surse, ciò detto, ed il purpureo manto
Dagli omeri deposto e il brando acuto,
Scavò, la prima cosa, un lungo fosso.
Le colonnette con gli anelli in cima
Piantovvi, a squadra dirizzoUe, e intorno
La terra vi calcò. Stupiano i Proci
Vedendole piantare a lui si bene,
Bench'egli a nessun pria viste le avesse.
Ciò fatto, delle porte andò alla soglia,
E, fermatovi il pie, l'arco tentava.
Tre fiate trar volle il nervo al petto.
Tre dalla man gli scappò il nervo. Pure
Non disperava che la quarta prova
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"380 ODISSEA (v, 158-193)
Più felice non fosse. E già, la corda
Traendo al petto per la quarta volta',
Teso avria Tarco: ma il vietava Ulisse
D'un cenno, e lui, che tutto ardea, frenava.
E Telemaco allor, Numil soggiunse,
debile io vivrò dunque, e dappoco
Tutto il mio tempo, o almen la poca etade
Forze da ributtar chi ad oltraggiarmi
Si scagliasse primier, non dammi ancora.
Ma voi, che siete piti gagliardi. Tarma
Tastate adunque, e si compisca il gioco.
Detto c(»sì, Tarco ei depose a terra,
E all'incollate tavole pulite
L'appoggiò della porta, e posò il dardo
Sul cerchio, che dell'arco il sommo ornava.
Poi s'assise di nuovo. E Àntinoo, il figlio
D'Eupite, favellò: Tutti, o compagni
Dalla destra per ordine v'alzate,
Cominciando ciascun, donde il vermiglio
Licor si versa. Il detto piacque, e primo
L'Enopide Leòde alzossi, ch'era
Loro indovino, e alla bell'urna sempre
Sedea più presso. Odio alla colpa ei solo
Portava, e gli altri riprendea. Costai
L'arco lunato ed il pennuto strale
Si r^cò in mano, e alla soglia ito, e fermo
Su i piedi, tentò il grave arco, e noi tese:
Che senti intorno alla ribelle corda
Prima stancarsi la man liscia e molle.
Altri, disse, sei prenda; io certo, amici,
Noi tenderò: ma credo ben, che a molti
Sarà morte quest'arco. È ver che meglio
Torna il morire, che il giù torsi vivi
Da quella speme altissima, che in queste
Mura raccolti sino a qui ci tenne.
Spera oggi alcun, non che in suo core il brami,
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iv. 194-229) LIBRO XXI. 381
La Regina impalmar: ma, come visto
Questo arnese abbia, e maneggiato , uà* altra
Chiederà deli*Achee peplo addobbate,
Nuziali presenti a lei porgendo,
E a Penelope il fato uom, che di doni
Ricolmeralia, condurrà d'altronde.
Così parlato, ei mise l'arco a terra,
E air incollate tavole polite
L'appoggiò della porta, e posò il dardo
Sul cerchio, che dell'arco il sommo ornava.
Quindi tornò al suo seggio. E Antinoo in tali
Voci proruppe: Qual molesto, acerbo
Dalla chiostra de' denti a te, Leode,
Detto sfuggì, che di furor m'infiamma?^
A igioi dunque sarà morte quest'arco?
Se tu curvar noi puoi, la madre incolpa.
Che d'archi uom non ti fece, e di saette:
Ma gli altri Proci il curveranno, io penso.
Disse, e al custode del caprino gregge
Questo precetto die: Melanzio accendi
Possente foco nella sala, e appresso
Vi poni seggio, che una pelle cuopra.
Poi di bianco e indurato adipe reca
Grande, ritonda massa, acciocché s'unga
Per noi l'arco, e si scaldi, ed in tal guisa
Questo certame si conduca a fine.
Melanzio accese un istancabil fuoco,
E con pelle di sopra un seggio pose.
Poi di bianco e indurato adipe massa
Grande e tonda recò. L'arco unto e caldo
Piegar tentare i' giovani. Che valse,
Se lor non rispondean le braccia imbelli? '
Ma dalla prova s'astenean finora
Eurimaco ed Antinoo, che de' Proci
Bràn di grado e di valore i primi.
Uscirò intanto del palagio a un tempo
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382 ODISSÈA (t. 280-265}
Il pastor deV maiali, e quel de' buoi,
E Ulisse dopo. Delle porte appena
Fuor si tre varo, e del corti J, eh' ei dolci
Parole ad ambi rivolgendo, Eumèo,
Disse, e Filezio, favellar degg*io,
i detti ritener? Di ritenerli
L*animo non mi dà. Quali sareste '
D'Ulisse a prò, se d'improvviso al vostro
Cospetto innanzi il presentasse un Nume?
Ai Proci, o a lui, soccorrereste voi?
Ciò, che nel cor vi sta, venga sul labbro.
Giove padre, esclamò allor Filezio,
Adempi il voto mio! L'eroe qua giunga,
E un Nume il guidi. Tu vedresti, o vecchio,
Quale in me 1' ardir fora, e quale il braccio.
Ed Eumèo nulla meno agli Dei tutti
Pel ritorno del Re preghiere alzava.
Ei, come certo a pien fu della mente
Sincera e fida d'ambiduo, soggiunse:
In casa eccomi io stesso, io, che, sofferte
Sventure senza numero, alla terra
Nativa giunsi nel vigesim' anno.
So che a voi solo desiato io spunto
Tra i servi miei: poiché degli altri tutti
Non udii che un bramasse il mio ritorno.
Quel ch'io farò per voi, dunque ascoltate.
Voi da me donna e robe, ove dai Numi
D'esterminar mi si conceda i Proci,
Voi case della mia non lungi estrutte
Riceverete, ed io terrovvi in conto ^
Di compagni a Telemaco, e fratelli.
Ma perchè in forse non restiate punto,
Eccovi a segno manifesto il colpo,
Che d'un fiero cinghiai la bianca sauna
M'impresse il di ch'io sul Parnaso salsi
Co' figliuoli d' Autolieo. Ciò detto,
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(v. 266:301) iiBRo XXI. , .383
DalLv gran cicatrice 1 panni tolse.
Quei, tutto visto attentamente, e tocco,
Piagnean, gittate di Laerte al figlio
Le mani intorno, ^ gli omeri e ìa testa.
Stringendo!, gli baciavano; ed Ulisse
Lop baciò similmente e mani e capo.
E già lasciati il tramontato Sole
Lagrimosi gli avria, se cosi Ulisse
!Non correggeali: Fine ai pianti. Alcuno
Potria vederli, uscendo, e riportarli
Di dentro. Udite. Nella saia il piede
Riponiam tutti, io prima, e poscia voi,
E d'un segnale ci acct)rdiamo. I Proci,
Che a me si porga la faretra e Tarco,
Non patiran: ma tu divino Eumeo,
L'uno e l'altra mi reca, e di' alle donne,
Che gli usci chiudan delle stanze loro;
E per romor nessuna, o per lamento,
Che l'orecchio a ferir le andasse a un tratto,
Mostrisi fuori, ma quell'opra siegua.
Che avrà tra mano allor, né se ne smaghi.
Raccomando a te poi, Filezio illustre.
Serrar la porta, del cortile a chiave,
E con ritorte rafforzarla in fretta.
Entrò, ciò detto, e donde pria sorto era,
S'assise; ed ivi a poco entraro i servi.
Già per le mani Euriraaco il grand'arco
Si rivolgeva, ed a'rai quinci e quindi
Della fiamma il vibrava. Inutil cura!
Meglio che gli altri non per questo il tese.
Gemè nel cor superbo, e queste voci
Tra i sospiri mandò: Lasso! un gran duolo
Di me stesso e di voi sento ad un'ora.
Né già sol piango le perdute nozze:
Che nell'ondicerchiata Itaca, e altrove.
Sul capo a molte Achèe s'increspa il crine,
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384 ' òDissBA {y. 302-337)
Piango, che, se di' forze al grande Ulisse
Tanto cediam da non curvar quest'arco,
Si rideran di noi Tetà future.
No, l'Eupitide Antinoo a lui rispose.
Ciò, Eurinaaco, non fìa: tu stesso il redi.
Sacro ad Apollo è questo dì. Chi l'arco
Te^der potrebbe? Deponiamlo, e tutti
Lasciamo star gli anelli, e non temiamo
Che alcun da dove son, rapirli ardisca.
Su, via, Tabil coppier vada co* nappi
Ricolmi in giro, e, poiché avrem libato,
Mettiam l'arco da parte. Al di novello
Melanzio a noi le più fiorenti capre
Guidi da tutti i branchi, onde, bruciati
I pingui lombi al glorioso Arciere,
Si riprenda il cimento, e a fin s'adduca.
Piacque il suo detto. I banditori tosto
L'acqua diero alle man, l'urne i donzelli
Di vino incoronaro, e il dispensare
Con le tazze, augurando, a tutti in giro.
Come libato, e a piena voglia tutti
Bevuto ebber gli amanti, il saggio Ulisse,
Che stratagemmi in cor sempre agitava,
Cosi lor favellò: Competitori
Dell'inclita Regina, udir v'aggradi
Ciò che il cor dirvi mi consiglia e sforza.
Eurimaco fra tutti e il pari a un Nume
Antinoo, che parlò si acconciamente.
L'orecchio aprire alle mie voci io priego.
Perdonate oggi all'arco, e degli Eterni
Non ostate al voler: forza domane
A cui lor piacerà, daranno i Numi:
Ma intanto a me, Proci, quell'arma: io prova
Voglio far del mio braccio, e veder s'io
Nelle membra pieghevoli l'antico
Vigor mantengo, o se i miei lunghi errori
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(v. S38-373) iiBRO XXI. 385
Disperso rhanno, e i molti miei disagi^
Rinfocolarsi a ciò forte temendo
Non il polito arco ei piegasse. E Antinoo
Lo sgridava in tal guisa: miserando
Degli ospiti, sei tu fuor di te stesso?
Non ti contenti, che tranquillo siedi
Con noi Principi a mensa, e, che a "nuU'altro
Stranier mendico si concede, vieni
Delle vivande e de 'sermoni a parte?
Certo te offende il saporoso vino.
Che tracannato a:vidamente, e senza
Modo e termine alcuno, a molti nocque.
Nocque al famoso Eurizìon Centauro,
Quando venne tra i Làpiti, e nell'alta
Casa ospitale di Piritoo immensi,
Compreso di furor, mali commise:
Molto ne dolse a quegli eroi, che incontro
Se gli avventare, e del vestibol fuori
Trasserlo, e orecchie gli mozzare e nari
Con affilato brando; ed ei, cui spento
Deirintelletto il lume avevan le tazze,
Sen già manco nel corpo e nella mente.
Quindi s^accese una cruenta pugna
Tra gli sdegnati Làpiti e i Centuari:
Ma, gravato dal vin, primo il disastro
Eurizìon portò sovra sé stesso.
Cosi te pur grave infortunio aspetta,
Se l'arco tenderai. Del popol tutto
Non fia chi s'alzi in tua difesa, e noi
Ad Echeto, degli uomini flagello,
Dalle cui man nò tu salvo uscirai,
Ti manderem su rapido naviglio.
Chetati adunque, ed il pensièro impronto
Di contender co* giovani ti spoglia.
Qui Penelope disse: Antinoo, quali
Di Telemaco mio gli ospiti sieno.
386 ODISSEA (y, 374,4CQ)
Turpe ed ingiusto è il tempestarli tanto,
Pensi tu forse, che ove lo straniero,
Fidandosi di sé, l'arco tendesse,
Me quinci condurria moglie al suo tetto?
Né lo spera egli, né turbato a mensa
Dee per questo sedere alcun di voi.
Cosa io veder non so, che men s'addica.
Ed Eurimaco a lei: D'Icario figlia, •
Non v'ha fra noi, cui nella mente cada.
Che te pigli a consorte uom che sì poco .
Degno è di te. Ma degli Achei le lingue
Temiamo, e delle Achee. La più vii bocca
Ve', grideria, quai d'un eroe la donna
Chiedono a gara giovinotti imbelli.
Che né valgon piegare il suo bell'arco,
Mentre un tapino, un vagabondo, un giunto
Testé, curvollo agevolmente, e il dardo
Per gli anelli mandò. Tal griderebbe;
E tinto andria d'infamia il nostro nome.
E cosi a lui Penelope rispose :
Eurimaco, non lice un nome illustre
Tra i popoli agognare a chi d'egregio
Signor la casa dal suo fondo schianta.
Perché tinger voi stessi il nome vostro
D'infamia? È lo stranier di gran sembiante,
Ben complesso di membra e generosa
La stirpe vanta, e non vulgare il padre.
Dategli il risplendente arco, e veggiamo.
Se il tende, e gloria gli concede Apollo,
Prometto^ e non invan, tunica bella
Vestirgli, e bella clamide, ed in oltre
Un brando a doppio taglio, e un dardo acato
Mettergli in mano, e sotto ai pie calzari;
E là inviarlo, dove il suo cor mira.
.Maitdre, disse Telemaco, a me solo
Sta in mano il dare, o no, quell'arco, io credo:
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(v. 410-445) LiBHO XXI. S8T
Né ha in lui ragione degli Achivi alcuno,
Che son neiralpestra Itaca signori,
O nell'isole prossime alla verde
Elide, chiara di cavalli altrice.
E quando farne ancor dono io volessi
Al forestier, chi 'nvid'iar mei puote?
Ma tu rientra; ed al telaio e al fuso,
Come pur suoli, con le ancelle attendi.
Cura sarà degli uomini quell'arma,
E più che d'altri, mia; che del palagio
11 governo in me sol, madre, risiede.
Attonita rimase, e del figliuolo
Con la parola, che nell'alma entroUd^
Risalì in alto tra le fide ancelle.
Quivi, aprendo alle lagrime le porfe,
"Ulisse, Ulisse a nome iva chiamando:
Finché un dolce di tanti e tanti affanni
Sopitor sonno le mandò Minerva.
L'arco Eumèo tolse intanto ; e già il portava,
E i Proci tutti nel garriano, e alcuno
Così diceva de' giovani orgogliosi:
Dove il grand' arco porti, o dissennato
Porcaio sozzo? Appo le troie in breve
Te mangeran fuor d'ogni umano aiuto
Gli stessi cani di tua man nutriti
Se Apollo è a noi propizio, e gli altri Numi.
Impaurito delle lor rampogne,
L'arco ei depose. Ma dall'altra parte
Con minacce Telemaco gridava:
Orsù, va' innanzi con quell'arco. Credi
Che l'obbedire a tutti in prò ti torni?
Pon cura ch'io con iscagliati sassi
Balla cittade non ti cacci al campo.
Io minor d'anni, ma di te più forte.
Oh così, qual di te, piti forte io fossi
De' Proci tutti che qui sono! Alcuno
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888 ODISSEA. ^ (v. 4^-481)
Tosto ne sbalzerei fuor del palagio,
Dove il tesser malanni è lor bell'arte.
Tutti scoppialo in un giocondo riso
Sul custode de' verri, e della grave
Contra il garzone ira allentaro. Eunaéo,
Traversata la sala, innanzi a Ulisse
Fermossi, ed il grande arco in man gli mise.
Poi, chiamata Euriclóa, parlò in tal forma:
Saggia Euriclóa, Telemaco le stanze
Chiuder t'ingiunge, e dell'ancelle vuole.
Che per rumor nessuna, o per lamento.
Che l'orecchia a ferir le andasse a un tratto
Mostrisi fuori, ma quell'opra siegua,
Che avrà tra mano allor, né se ne smaghi.
Non parlò al vento. La nutrice annosa
Tutte impedì le uscite, e al tempo istesso
Filezio si gettò tacitamente
Fuor del palagio, e rinserrò le porte
Del cortil ben munito. Una gran fune
D*Egizio giunco per navigli intesta
Giacca sotto la loggia; ed ei con quella
Più ancor le porte rafforzò. Ciò fatto,
Rientrava, e la sedia ond'era sorto,
Premea di nuovo, riguardando Ulisse.
Ulisse l'arco maneggiava, e attento
Per ogni parte rivoltando il giva
Qua tastandolo, e là, se 1 muti tarli
Ne avesser mai rose le corna, mentre
N'era il signor lontano. E alcun, rivolti
Gli sguardi al suo vicino; Uom, gli dicea,
Che si conosce a maraviglia d'archi,
È certo, un arco somigliante pende
A lui dalla domestica parete,
O fabbricarne un di tal fatta ei pensa :
Così questo infelice vagabondo
T l'arco tra le sue man volta e rivolta!
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(jv. 48^517) LIBRO XXI. 3à9,
E un altro ancor de* giovani protervi :
Deh così in bene gli riesca tutto,
Come teso d« lui sarà queirarco !
Ma il Laerziade, come tutto l'ebbe
Ponderato e osservato a parte a parte,
Qual perito cautor, che, le ben torte
Minuge avvinte d'una sua novella
Cetera ad ambo i lati, agevolmente
Tira, volgendo il bischero, la corda :
Tale il grande arco senza sforzo tese.
Poi saggio far volle del nervo; aperse
La mano, e il nervo mandò un suono acuto,
Qual di garrula irondine è la voce.
Gran duolo i Proci ne sentirò, e in volto
Trascolorare; e con aperti segni
Fortemente tonò Giove dall'alto.
Gioì l'eroe, che di Saturno il figlio,
Di Saturno, che obliqui ha pensamenti,
Gli dimostrasse il suo favor dal cielo;
E un aligero strai, che su la mensa
Risplendea, tolse : tutte l'altre frecce,
Che gli Achivi assaggiar dovean tra poco,
In sé chiudeale il concavo turcasso.
Posto su Tarco, ed incoccato il dardo,
Traea seduto, siccom'era, al petto
Con la man destra il nervo; indi la mira
Tra i ferrei cerchi prese, e spinse il telo,
Che, senza quinci deviare, o quindi.
Passò tutti gii anelli alto ronzando.
Subitamente si rivolse al figlio, •
E, Tejemaco, disse, il forestiero
Non ti svergogna, parmi. Io punto lungo
Dal segno non andai, né a tender l'arco
Faticai molto : le mie forze intere
Serbo e non merto villanie dai Proci.
Ma tempo è omai che alla cadente luce
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390 ODUSBA '-. {v.-S18E^!K)|
Lor s'appresti la cena; e poi si tocchi
La cetra molticorde, e s'alzi il canto.
In che pid di piacer la mensa acquista.
Disse, e accennò co' sopraccigli. Allora
Telemaco d'Ulisse il pegno caro,
La spada cinse, impugnò l'asta, e, tatto
Risplendendo nell'armi, accanto al padre.
Che pur seduto rimanea, locossi.
LIBRO VENTESIMOSECONDO
ARGOMENTO
Ulisse comincia la gran vendetta, e il primo che uccide, saet-
tandolo, è Antinoo. — Earimacotenta di placarlo, ma indarno,
e dopo aver confortato i compa^^ni a combattere, è ucciso
anch'egli da Ulisse. — Telemaco ammazza Aufinomo. —
Poi mentre il padre segue a maneggiar Tarco, va a pren-
der le altre armi cosi per lui, come per sé e perii due pa-
stori. — Melanzio & il medesimo per li Proci. — Puni-
zione dì lui. — Minerva comparisce ad Ulisse in forma di
Mentore».e rincoraggia — Appresso scuopre TEgida. e mette
i Proci in grande scompiglio. — Tutti rimangono uccisi, e
solamente son risparmiati il poeta Femio e V araldo ìde-
donte. — Elogio della poesia. — Le donne colpevoli obbli-
gate sono a trasportar fuori i cadaveri : indi punite. ^
Ulisse purifica con fuoco e zolfo la casa, e chiama a sé le
altre donne, che gli fanno gran fasta, e ch'egli subito rico-
nosce.
Sorse, e spogliossi de* suoi cenci Ulisse,
E sul gran limitare andò d'un salto,
L* arco tenendo, e la faretra. I ratti
strali, onde gravida era, ivi gittossi
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i
(Y. 3-40) LIBRO XXII. 391
Bavante ai piedi, e ai Proci disse: A fine
Questa difficil prova è già condotta.
Ora io vedrò, se altro bersàglio, in cui
Nessun diede sin qui, toccar m'avviene,
E se me tanto privilegia Apollo.
Cosi dicendo, ei dìrigea Tamaro
Strale in Antinoo. Antinoo una leggiadra
Stava per innalzar coppa di vino
Colma, a due orecchie, e d*oro ; ed alle labbra
Già l'appressava ; né pensier di morte
Nel cor gli si volgea. Chi avria creduto
Che fra cotanti a lieta mensa assisi
Un sol, quantunque di gran forze, il nero
Fabbricar gli dovesse ultimo fato 9
Nella gola il trovò col dardo Ulisse,
E sì colpillo, che dall'altra banda
Pel collo delicato uscì la punta.
Ei piegò da una parte, e dalle mani
La coppa gli cade: tosto una grossa
Vena di sangue mandò fuor pel naso;
Percosse colle piante, e da sé il desco
Respinse; sparse le vivande a terra;
Ed i pani imbrattavansi, e le carni.
Visto Antinoo cader, tumulto i Proci
Fer nella sala, e dai lor seggi alzaro,
Turbati raggirandosi, e guardando
Alle pareti qua e là; ma lancia
Dalle pareti non pendea, né scudo.
Allor con voci di grand'ira Ulisse
Metteansi a improverare : Ospite, il dardo
Ne'petti umani malamente scocchi.
Parte non avrai più ne' giuochi nostri:
Anzi grave mina a te sovrasta.
Sai tu che un uomo traffìgesti, ch'era,
Dell' Itacense gioventude il flore ?
Però degli avvoltoi sarai qui pasto.
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392 ODISSEA (v. 41-76)
Così, pensando involontario il oolpo,
Dicean : né s'avvedean folli, che posto
Ne'confìni di Morte avean già il piede.-
Ma torvo riguardoUi, e in questa guisa
Favellò Ulisse : Credevate, o cani,
Che d'Ilio io piti non ritornassi, e intanto
La casa disertar, stuprar le ancelle,
E la consorte mia, me vivo, ambire
Custumavate, non temendo punto
Né degli Dei la grave ira, né il biasmo
Permanente degli uomini. Ma venne
La fatai per voi tutti ultima sera.
Tutti inverdirò del timore, e gli occhi,
Uno scampo a cercar, volsero intorno.
Solo, e in tal forma, Eurimaco rispose:
Quando, il vero tu sii d' Itaca Ulisse
Fra noi rinato, di molt'opre ingiuste,
Che sì nel tuo palagio, e si ne'campi
Commesso furo, ti quereli a dritto.
Ma costui, che di tutto era cagione.
Eccolo in terra, Antiiioo. Ei delFingiuste
Opre fu l'autor primo ; e non già tanto
Pel desiderio delle altere nozze,
Quanto per quel del regno, a cui tendea.
Insidiando il tuo figliuolo; occulte
Macchine, che il Saturnio in man gli ruppe
Poiché morto egli giace, alla tua gente
Perdona tu. Pubblica emenda farti
Noi promettiamo: promettiam con venti
Tauri ciascuno, e con oro, e con bronzo.
Quel vuoto riempir, che ne'tuoi beni
Gozzovigliando aprimmo; in sin che il core
Alla letizia ti si schiuda, e sgombri
L'ira, onde a gran ragione arse da prima.
Bieco mirollo, e replicógli Ulisse:
Dove Eurimaco, tutte ancor mi desto
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>• 77-112) LIBRO XXII. 393
L'eredità vostre paterne^ e molti
Beni stranieri vi poneste accanto,
Io questa man non riterrei dal sangue,
Che la vendetta mia piena non fosse.
Op, qual de*due vi piacerà, scegliete,
Combattere, o fuggir, se pur v*ha fuga
Per un sol di voi : ciò ch'io non credo.
Ciascun de' Proci il cor dentro mancarsi
Sentì, e piegarsi le ginocchia sotto.
Ed Eurìmaco ad essi: amici, indarno
Sperate che le braccia egli ùon muova.
L'arco una volta, ed il turcasso assunti.
Disfrenerà dal limitare i dardi.
Finché tutti ci atterri. Alla battaglia
Dunque si pensi : distringiam le spade,
E, delle mense alle letali frecce
Scudo facendo a noi, piombiamgli sopra
Tutti in un gruppo. Se da quella porta
Scacciarlo ne riesce, e la cittade
Scorrere, alzando al ciel subite voci,
Dal saettar si rimarrà per sempre.
Disse, e l'acuto di temprato rame
Brando a due tagli strinse, e su lui corse
Con terribil grida. In quella Ulisse,
Votato l'arco, al petto il colse, e il pronto
Nel fegato gì* infìsse acerbo strale.
Lasciò Eurìmaco il brando, e dopo alquanti
Giri curvato su la mensa cadde,
E i cibi riversaronsi e la coppa.
Ma ei battè sopra la terra il capo.
Nell'alma tapinandosi, ed il seggio,
Che già premer solca, con ambo i piedi
Forte spingando, scosse : al fine un'atra
Tutto il coverse sempiterna notte.
Ma d'altra parte Anfinomo avventossi
Col brando in man centra Teroe, se mai
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394 ' ^ ODISSEA (v. 113.US
Dalla- soglia disvellerlo^ potesse.
Il prevenne Telemaco, e da tergo
Tra le spalle il ferì <M)n la pungente
Lancia, che fuor gli riuscì del petto.
Queirinfelice rimbombò caduto,
E con tutta la fronte il suol percosse.
Ma il garzon sottraeasi, abbandonando
La lancia entro d'Anfinomo: temea.
Non alcun degli Achei, mentr' egli chino
Stariasi Tasta a sconficcare intento.
Di furto il martellasse, o con la spada
Sopra mano il ferisse alla scoperta.
Quindi ricorro ratto, e in un baleno
Al caro padre fu vicino, e a lui,
Padre, disse, uno scudo, e lance due,
E un adatto alle tempie elmo lucente
Ti recherò, m'armerò io stesso, ed armi
A Filenzio darò, darò ad Eumèo.
De'consigli il miglior sembrami questo.
Sì, corri, Ulisse gli rispose, e riedi, i
Finché restano a me dardi a difesa:
Ma riedi prestamente, onde gli Achei |
Me, che son solo, non ismuovan quinci. i
Ubbidì il figlio, e alla superna stanza, |
Dove Tarmi giaceano, andò di passo |
Lanciato, e targhe quattro, ed otto lance
Prese, e quattro lucenti elmi di chioma
Equina folti, e in brevi istanti al caro '
Genitor si rendè. Qui del metallo |
Munì egli primo la persona, e i servi. |
Parimenti le belle armi vestirò.
Ed alTaccorto eroe stettero intorno. 1
Questi, finché le frecce a lui bastare,
Togliea la mira, ed imbroccava ognora, 1
E cadeau Tun su Taltro i suoi nemici. I
Ma poiché le infallibili saette
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(V. 149-184) LIBRO XXII. 395
Oli far venute ttien, l'arco ei depose,
E Tap poggiò del ben fondato albergo
Al nitido parete. Indi le spalle
Si carco d'uno scudo a quattro doppi.
L'elmo dedaleo con l'equina chioma
Piantossi in capo, e dae possenti lance
Nella man si recò: sovra la testa
Gli ondeggiava il cimier terribilmente.
Era in capo alla sala, e nel parete
Del ben fondato albergo una seconda
Di congiunte assi rinforzata porta,
Che in pubblico mettea non largo calle.
Di questa per cui sol s'apriva un passo
Ulisse volle il fido Euméo per guardia.
Agelao v'ebbe l'occhio, e disse: amici,
Non ci sarà chi quella porta sforzi,
E sparga voce, e il popolo a remore
Levi, perchè costui cessi dai colpi?
Ciò, rispose Melanzio, ad alcun patto
Non possiamo, Agelao di Giove alunno.
Le porte del cortil troppo vicine
Sono, ed angusta è quell'uscita, e un solo,
Cui non manchi valor, cento respinge.
Pur non temete. Io porterò a voi l'armi
Dalla stanza superna, in cui riposte
Da Ulisse e dal figliuol senz'altro furo.
Detto, andar sa e giù per l'alta scala,
Entrar, pigliar dodici targhe, e lance
Tante, e tanti criniti elmi, ed il tutto
Mettere in man de' palpitanti Proci,
Fu di pochi momenti opra felice.
Turbar l'animo Ulisse, e le ginocchia
Languir sentì, ratto che ai Proci, vide
Prender gli elmi e gli scudi, e le lunghe aste
Ir con la destra palleggiando ; e allora
L'arduo conobbe dell'assunta impresa.
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396 ODissEA^ (v. 1^-220)
Si converse al flgliuol tosto, e, Telemaco,
Con dolenti gli disse _alate voci,
€erto il capraio, o delle donne alcuna.
Raccende centra noi quest' aspra guerra.
E Telemaco a lui, Padre, rispose,
Io sol peccai, non altri, io, che la salda
Porta lasciai mezsw) tra chiusa e aperta;
Ed uno esplorator di me più astuto
Si giovò intanto del mio fallo. Or vanne
Tu, prode Eumòo, chiudi la porta e sappi.
Se ciò vien da un' ancella; o dalla trista,
Come parmi più ver, di Dolio prole.
Mentre tali correan voci tra loro,
Melanzio per le belle armi di nuovo
Salse. Adocchiollo Eumèo, né a dir tardava
Così ad Ulisse, che lontan non gli era: |
Laerziade divin, quella rea peste, j
Di cui noi sospetti am, sale di nuovo.
Parlami chiaro : degg' io porlo a morte.
Se rimangogli sopra, o qua condurlo, |
Perchè a te innanzi d'ogni suo delitto
Meritamente il fio paghi una volta?
E il saggio Ulisse: a sostenere i Prenci,
Come che ardenti, io col mìo figlio basto.
Pilezio dunque, e tu, poiché l'avrete
Entro la stanza rovesciato a terra.
Ambo i piedi stringetegli, e le mani
Sul tergo, chiusa dietro a voi la porta;
E lui d'una insolubile catena
Cinto tirate sino all'alte travi
Lungo una gran colonna, acciocché il tutto
Sconti con morte dolorosa e lunga.
Pronti i servi ubbidirò. Alla sublime
Camera s'affrettar, da lui, che dentro
Era, e cercava nel piti interno l'arme, I
Non visti e non sentiti; e si piantare
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V. 221-256) ^ LIBRO Xxii. 397,
Ciaìnci e quindi alla porta. Ei per la^ soglia
Passava ratto, in una man portando
Luminosa celata, ed un vetusto
Nell'altra, e largo e arruginito scudo
Glie gli omeri gravò del buon Laerte
Sul primo fior dell'età sua: deposto
Poscia, e dimenticato, da cui rotte
Le coregge pendevano. Veloci
L'assgJtùr, l'abbrancar, lo trascinaro
Dentro pel ciuffo, e l'atterrar dolente:
Indi ambo i piedi gli legaro, ed ambo
Sovra i] tergo le man, qual di Laerte .
Conciando il figlio; e lui d'una catena
Insolubile cinto in sino all'alte
Travi tirar lungo una gran colonna.
1^ cosi allor tu il deridesti, Eumèo:
Melanzio, or certo vegghierai la notte
Sai letto molle come a te s'addice,
Corcato; né uscirà dalle correnti
I>eirOceàn, che tu non la vagheggi,
L'aurora in trono d'or, quando le pingui
Capre alla mensa condurrai de' Proci.
Tal fu Melanzio fra legami acerbi
Sospeso, e abbandonato ; e quei con l'arme
Sceser, la porta risplendente chiusa:
E presso al ricco di consigli Ulisse,
Forza spiranti e ardire, il pie fermare.
Cosi quattro guerrieri in su la soglia
Erano ; e nella «ala un numeroso
Drappello, e non ignobile. Ma Palla,
L'armipotente del Saturnio figlia.
Con la faccia di Mentore, e la voce.
Tra le due parti d'improvviso apparve.
Gioì a vederla il Laerzìade, e disse:
Mentore, mi seconda, e ti rammenta
Del tuo dolce compagno, onde a lodarti
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398 ' ODISSEA ' (v. '25Y^2)
Non raro avesti, e a cui sei d'anni eguale.
Cosi Teroe : ma non gli tace il core.
Che la sua diva in Mentore s'asconde.
Dall'altra parte la garrìano i Proci,
E primo dì Damastòride Agelao
A minacciarla fu: Mentore, bada,
Che a pugnar in suo prò centra gli Achivi
Non ti seduca favellando Ulisse.
Però che quando per man nostra uccisi
Giaceran, come ho fede, il padre e il figlio
Morrai tu ancora e il sangue tuo darai
Per ciò che oprar nella magione or pensi.
Che più? Te fatto cenere, co'beni
D'Ulisse in monte andrà quant'or possiedi
Nel tuo palagio e fuor; né a figli, o a figlie
Menare i di sotto il natio lor tetto
Consentirem, né alla tua casta donna
D'Itaca soggiornar nella cittade. !
Vie più s'accende a cosi fatte voci
L'ira di Palla, ed in rimbrotti scoppia
Centra Ulisse lanciati: Io nulla, Ulisse,
Di quel fermo vigor, nulla più veggio
Di quell'ardire in te, che allor mostrasti
Che innanzi a Troia per le bianche braccia
Della nata di Giove inclita Elèna
Combattesti un decennio. Entro -il lor sangue
Molti stendesti de' nemici e prima
S'ascrive a te, se la dall'ampie strade |
Città di Priamo in cenere fu vòlta.
Ed or che giunto alle paterne case
La tua donna difendi e i beni tuoi,
Mollemente t'adopri? Orsù, vicino
Stammi, ed osserva, quale il figlio d'Alclioo,
Mentore, fra una gente a te nemica
De'beneficii tuoi morto ti rende.
Tal favellava: ma perchè l'innata
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V. ^03-328)' LIBRO ^xxiL 399
Virtù del padre e del figliuol volea
Provare ancor, per alcun tempo incerta
La vittoria lasciò tra loro e i Proci.
Quindi montando rapida, su trave
Lucido ed alto, a rimirar la pugna,
Di rondine in sembianza, ella s'assise.
Frattanto il Damastòride Agelao,
Anfinaedonte, Eurinomo, e il prudente
Polipo, e Demoptòlemo, e Pisandro,
Di PoUttore il figlio, alla coorte
Spirti aggiungean, come color che i primi
Kran di forza tra i rimasti in piede,
E r alma difendeau: gli altri avea domi
Li' arco. famoso e le frequenti frecce.
Parlò a tutti Agelao: Compagni, io penso
Che le indofnite man frenare un tratto
Costui dovrà. Già Mentore disparve
Dopo il bravar suo vano, e su la soglia
Quattro sono, e non più. Voi non lanciate
Tutti, io ven priego, unitamente: sei "
Aste volino in prima; e il vanto Giove
Di colpire in Ulisse a noi conceda.
Caduto lui, nulla del resto io curo.
Sei, com'egli bramava, aste volaro,
E tutte andar le feo Pallade a voto.
L* un de' pungenti frassini la porta
Percosse, un altro su la soglia cadde,
Ed un terzo investì nella parete.
Scansati i colpi, di Laerte il figlio,
Amici , disse, nello stuol de' Proci ,
Che, non contenti alle passate offese,
Della vita spogliar voglionci ancora.
Io crederei che saettar si debba.
Ciascun la mira di rincontro tolse,
E trasse d'una lancia. Il divo Ulisse
Demoptòlemo uccise, e scagliò morte
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400 ODISSEA ' (V. i
Telemaco ad Eurìade, a Elato Eumèo,
Ed a Pisandro il buon Filezio; tutti
Del pavimento morsero la polve.
Gli altri nel fondo della sala il piede
Tiraro indietro: Ulisse e i tre compagni
Corsero, e svelser dagli estinti Y aste.
AUor lanciaro novamente i Proci
Di tutta forza, e tutti quasi i colpi
Novamente sviò Pallade amica.
La gran soglia, la porta e la parete
Li ricevette, o li respinse: solo
Anfìmedonte tanto o quanto lese
La destra di Telemaco nel polso,
E appena ne graffiò la somma cute;
E la lung' asta di Ctesippo, a Eumèo
Lo scudo rasentando, e lievemente
Solcandogli la spalla, il suo tenore
Seguì, e ricadde sovra il palco morta.
Ma non cosi dall'altra parte spinte
Fur centra i Proci le pungenti travi.
Quella del distruttor di muri Ulisse
Fulminò Euridamante, Anfimedonte
Per quella giacque del suo figlio : Eumèo
Scontrò con la sua Pòlibo, e Filezio
Ctesippo colse con la sua nel petto,
E su lui stette alteramente, e disse:
Politerside, degli oltraggi amante.
Cessa dal secondar la tua stoltezza.
Con vana pompa favellando, e ai Numi
Cedi che di te son molto piti forti.
Questo è il dono ospitai di quello in merto,
Che al nostro Re , che mendicava, fosti.
Alla zampa del bue 1* asta rispose.
Cosi d'Ulisse T armentario illustre.
In questo mezzo di Laerte il figlio
Conquise il Damastòride da presso
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V. 385400) LIBRO xxir.- - 401
IJi profonda ferita; 6 a Leocrfto
Telemaco piantò nel Tentre il telo,
Che delle reni fuor gli ricomparve.
L'Envenoride stramazzò boccone,
E la terra battè con tutto il fronte.
Pallade allor, che rivestì la Diva,
Alto levò dalla soffitta eccelsa
La funesta ai mortali Egida, e infuse
Ne* superstiti Proci immensa tema.
Saltavan qua e là, come le agresti
Madri talvdta del cornuto armento,
Se allo scaldarsi ed allungar de' giorni,
Le punge il fiero assillo e le scompiglia.
Ma in quella guisa che avvoltori il rostro
Ricurvi, e l'unghia, piombano calando
Balla montagna, su i minori augelli.
Che trepidi vorrìano ir vèr le nubi;
E quei su lor ripiombano, e ne fanno,
Quando difesa non rimane o scampo.
Strazio e rapina del villano agli occhi.
Che di tale spettacolo si pasce :
Non altrimenti Ulisse e i tre compagni
Si scagliavan su i Proci, e tale strage
Ne menavan, che fronte ornai non v'era
Che non s'aprisse sotto i gran fendenti;
£ un gemer tetro alzavasi, e di nero
Sangue ondeggiava il pavimento tutto.
Leode le ginocchia a prender corse
Del figliuol di Laerte, e in supplice atto
Gli drizzò tali accenti: Eccomi, Ulisse,
Alle ginocchia tue, che di te imploro
Gli sguardi e la pietade. Io delle donne
In fatto o in detto non offesi alcuna:
Anzi gli altri alle sozze opre rivolti
Di ritenere io fea. Non m'obbedirò:
Però una morte subitana e acerba
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402 . ODissBA (v. 401-43»i
Delle sozze opre lor fu la mercede.
Ma io, io, che indovin tra i Proci vissi,
.Io, che nulla commisi unqua di male.
Qui spento giacerò degli altri al paro?
É questo il pregio che a virtù si serba?
E Ulisse, torvi in lui gli occhi fissando:
Poiché tra i Proci indovinar ti piacque,
Spesso chiedesti nel palagio ai Numi,
Che dèi ritorno il di non mi splendesse;
Che te seguisse, e procreasse figli
La mia consorte a te: quindi e tu al grave
Sonno perpetuo chiuderai le ciglia.
Così dicendo, con la man gagliarda
Dai suol raccolse la tagliente spada,
Che Agelao su la morte avea perduta;
E di percossa tal diede al profeta
Pel collo, che di lui, che ancor parlava.
Rotolò nella polvere la testa.
Ma di Terpio il figliuol, 1* inclito Femio,
Che tra i Proci sciogliea per forza il canto,
Morte schivò. Della «econda porta
Con la sonante in man cetra d'argento
Vicino erasi fatto, e in due pensieri
Di videa la sua mente: o fuori uscito
Sedersi all'ara del gran Giove Ercèo,
Dove Laerte e il suo diletto figlio
Molte solean bruciar cosce taurine;
O ad Ulisse prostrarsi, e le ginocchia
Stringergli, e supplicarlo; e delle due
Questa gli parve la miglior sentenza.
Prima tra una capace urna, e un distinto
D* argentei chiovi travagliato seggio
Depose a terra V incavata cetra :
Poi vèr r eroe si mosse , e le ginocchia
Stringeagli, e gli dicea con voci alate:
Ulisse, ascolta queste mie preghiere,
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(v. i&ì'Al^ LIBRO xxii. 403-
E di Femio pietà T alma ti punga.
Doglia tu stesso indi ne avrai, se uccidi
Uona che agli uomini canta, ed agli Dei.
Dotto io son da me solo, e non già l'arte.
Ma un Dio mi seminò canti infiniti
Nell'intelletto. Gioirai, qual Nume,
Della mia voce al suono. E tu la mano
Insanguinar ti vuoi nel corpo mio ?
Ne domanda Telemaco, il tuo dolce
Figlio, ed ei ti dirà, che né vaghezza
Di plauso mai, né scarsità di vitto,
Tra i Proci alteri a musicar m* indusse.
Ma co^ molti , co* giovani , co' forti ,
Uom che potea, debile, vecchio e solo?
Tal favellava; e la sacrata possa
. Di Telemaco udillo , e ratto al padre ,
Che non gli era lontan , T* arresta, disse,
E di questo innocente i dì rispetta.
Medonte ancor, che de' miei giorni primi
Cura prendea, noi serberemo in vita:
Sol eh' ei non sia per man d' un de* pastori
Caduto, e in te dato non abbia, mentre
Per la sala menavi in furia i colpi.
L'udì Medonte, il bandi tor solerte,
Che sdraiato giacca sotto un sedile,
E , r atro fato declinando, s' era
D'una fresca di bue pelle coverto.
Sarse da sotto il seggio, e il bovin cuoio
Svestissi, e andò a Telemaco, e, gittate
A* suoi ginocchi ambe le braccia. Caro,
Gridava, eccomi qua: salvami, e al padre
Di', che irato co' Proci, onde scemati
Gli erano i beni, e vilipeso il figlio,
Non s'inasprì in me ancora, e non m'uccida.
Sorrise Ulisse, e a lui: Sta' di buon core.
Già di rischio Telemaco ti trasse,
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404 ODISSÈA. (v. 473-508)
E in salvo pose, acciocché sappi, e il narri,
Quanto piti del far male il ben far torna. -
Tu, araldo, intanto, e tu, vate immortale,
Fuor del palagio e della strage usciti,
Sedete nel cortil , fìnch* io di dentro
Tutta l'impresa mia conduco a riva.
Tacque; ed uscirò, e appo l'aitar del sommo
Giove sedean, guardandosi all'intorno,
Qual se ad ogni momento, e in ogni loco,
Dovesse lor sopravvenir la Parca.
Lo sguardo allora per la casa in giro
L' eroe mandò, se mai de' Proci alcuno
Fuggito avesse della morte il fato.
Non rimanea di tanti un che nel sangae
Steso non fosse, e nella polve. Come
Oli abitatori del canuto mare.
Che il pescator con rete a molti vani
Su dall'onda tirò nel curvo lido,
Giaccion, bramando le native spume,
Per l'arena odiata, e loro il Sole
Con gì* infiammati rai le anime fura:
Così giacean 1* un presso 1' altro i ProcL
Subitamente Ulisse in questa forma
Si converse a Telemaco: Telemaco,
La nutrice Euriclèa, su, via, mi chiama, .
Ciò per udir, che a me di dirle è in grado.
Ubbidì egli, e incamminossi, e dato
D'urto alla porta, d'anni carca, disse.
Sorgi, Eurici èa, che nella nostra casa
Vegli sovra le ancelle. Il padre mio,
Che desia favellarti, a sé ti vuole.
Non sen portava le parole il vento.
Apri Euriclèa le porte, e in via con lui,
Che precedeala, entrò veloce, e brutto
Di polve tra i cadaveri, e di sangue
Ulisse ritrovò, Qual par leone,
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(v". 509.544) LIBRO XXII. 40S
die vien da divorar nel campo un toro,
E il vasto petto, e Tuna guancia e 1* altra
Ne riporta^ cruenta, e dalle ciglia
Spira terror: tale insozzati Ulisse
Mostrava i piedi, e delle mani i dossi.
Quella, come i cadaveri ed il molto
Sangue mirò, volle gridar di gioia
A spettacolo tal: ma ei frenoUa,
Benché anelante, e con parole alate.
Godi dentro di te, disse, ma in voci.
Vecchia, non dar di giubbilo: che vampo
Menar non lice sovra gente uccisa.
Questi domò il destino, e morte a loro
Le stesse lor malvagitati furo:
Quando non rispettare alcun giammai,
Buon fosse o reo, che in Itaca giungesse.
Dunque a dritto perirò. Or tu, nutrice,
Di* delle donne a me, quai nel palagio
Son macchiate di colpa, e quali intatte.
E la diletta a lui vecchia Euriclèa:
Figliuol, da me tu non avrai che il vero.
Cinquanta chiude il tuo palagio, a cui
Le lane pettinar, tesser le tele,
E sostener con animo tranquillo
La servitude, io stessa un giorno appresi.
Dodici tra costor tutta spogliare
La verecondia, e, non che me, la stessa
Dispregiare Penelope. Non era
Troppo innanzi venuto ancor negli anni
Il figlio tuo, né su le donne alcuno
Gli consentia la saggia madre impero.
Ma che fo io, che alle lucenti stanze
Non salgo di Penelope, che giace
Da un Dio sepolta in un profondo sonno?
Non la destare ancor, rispose Ulisse:
Bensì alle donne, il cui peccar t* è noto,
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4Ó& ODISSEA (v. 545 OSO)
Che a me si rappresentino, dirai.
La balia senza indugio a invitar mosse
Le peccatrici, e ad esortarle tutte,
Che si rappresentassero all' eroe.
E intanto egli, Telemaco a se avuto,
E il custode de* verri, e quel de' tori,
Tai parole lor feo: Le morte salme
Più non si tardi a trasportare altrove,
E dell' infide ancelle opra sia questa.
Poi con Tacqua, e le spugne a molte bocche
I bei sedili tergeransi e i deschi.
Tutta rimessa la magione in punto,
Le ancelle ne trarrete, e poste in mezzo
Tra la picciola torre, ed il superbo
Recinto del cortil, tanto co* lunghi
Le cercherete feritori brandi.
Che si disciolga dai lor corpi l'alma,
E dalle menti lor fugga l'immonda
Venere, onde s' unian di furto ai Proci.
Ciò detto appena, ecco venire a un corpo
Le grame, sollevando alti lamenti,
E una pioggia di lagrime versando.
Pria trasportar gl'inanimati corpi,
Che del cortile, aitandosi a vicenda,
Sotto alla loggia collocare. Instava
Co' suoi comandi Ulisse; e quelle il tristo
Ministero compiean, benché a mal cuore.
Poi con l'acqua, e le spugne a molte bocche,
I bei sedili si tergeano e i deschi.
Ma Telemaco, e seco i due pastori
Con rigide scorrean pungenti scope
Sul pavimento del ben fatto albergo;
E la bruttura raccogliean le afflitte
Donne, e fuori recavanla. Né prima
Rimessa fu la magion tutta in punto,
Che frs^ Ig^ torre ed il recinto poste.
DigitizedbyGo.Ogle
(v, 581-616) LIBRO xxii. ' '407
Le xnalvage 8i videro, e in tal guisa
Serrate là che del fuggir nulla era.
E Telemaco: Io no, con morte onesta
Non torrò l'alma da coteste donne,
Che a me sul capo, ed alla madre, scherni
Versare, e che s*unian d*amor co* Proci.
Disse ; e di nave alla cerulea prora
Canape, che partia da un gran pilastro,
Grittò alla torre a tale altezza intorno,
Che le ancelle, per cui gittarlo piacque,
Non potesser del pie toccar la terra.
E come incontra, che o colombe, o torde.
Che il ^erde chiuso d*una selva entrare,
Van con ali spiegate a dar di petto
Nelle pendule reti ove ciascuna
Trova un letto feral: tali a mirarle
Eran le donne con le teste in fila
E con avvinto ad ogni collo un laccio.
Di morte infelicissima strumento.
Guizzan co' piedi alquanto, e più non sono.
Telemaco indi, e i due pastori seco
Nella corte per l'atrio il mal capraio
Conducean : recideangli orecchie e nari,
E i genitali, da buttarsi crudi
Ai can voraci, gli svelleano, e i piedi
Mozzavangli e le man; tanta fu l'ira.
Punito al fine ogni misfatto, e mani
Con pura onda di fonte, e pie lavati,
Ritorno fér nella magione a Ulisse.
Questi allor tai parole alla diletta
Nutrice rivolgea: Portami, o vecchia,
Il zolfo salutifero ed il fuoco.
Perchè l'albergo vaporare io possa.
E Penelope a me con le fedeli
Sue donne venga; e tu l'altre per casa
Femmine tutte a qua venir conforta.
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408 ^ODISSEA (v.- 617-637)!
Ed ella: Piglio mio, quanto dicesti.
Io lodo assai. Ma non vuoi tu, che prima
Manto a coprirti, e tunica, io ti rechi?
Indegno fora con tai cenci indosso ^
Nel tuo palagio rimaner più a lungo.
Prima il zolfo ed il fuoco, ad Euriclèa
Rispose il pien d'accorgimenti eroe.
La nutrice, ubbidendo, il sacro zolfo
Portogli, e il fuoco prestamente; e Ulisse
La sala, ed il vestibolo, e il cortile
Più volte vaporò. Salì frattanto
Colei le ancelle a confortar, che franche
Vedere omai si fessero. Le ancelle
Delle camere uscirò, in man tenendo
Lucide faci; poscia intorno a lui
Si spargeano, e abbracciavanlo, ed il capo
Baciavangli, stringendolo, e le spalle,
E Tafferravan nelle mani. Ulisse
Tutte le riconobbe ad una ad una
Nel consapevol petto, e un dolce il prese
Di sospiri e di lagrime desio.
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LIBRO VENTESIMOTERZO
ARGOMENTO
Suriclèa corre a destar Penelope, e a farle sapere che Ulisse
è giunto, ed ha uccisi i Proci. — Penelope tratta, la vec-
chia da folle, e attribuisce la uccisione de' Proci a un Dio,
parendole che un uomo non potesse giuDgere a tanto. —
Tattaria scende, ma tiensi lox^na da Ulisse cui non rav-
visa. •— èdegno dì Telemaco contra la madre, che si giu-
stifica. — Ulisse comanda una festa da ballo , perchè i vi-
cini credan e la Regina sia passata a novelle nozze . e re-
sti occulta frattanto la morte de* Proci. — Poi entrato nel
iMigno, e restituitogli da Minerva Tantica sembianza, si pre-
senta di nuovo a Penelope, che non vuol riconoscerlo an-
cora. — Finalmente, uditolo ella parlare del coniugale lor
letto, di cui altri non potea aver contezza, depone tutti i
suoi dubbi, e alla gioia abbandonasi e all'amore. — Minerva
prolunga la notte. — Ragionamexkti di Penelope e Ulisse.
— Sorta r aurora, egli levasi e va col figlio e co' due pa-
stori a trovar Laerte, passando per la cittèi in una nube,
di cui gli avvolse, per occultarli, la Dea.
La buona vecchia gongolando ascese
Nelle stanze superne, alla padrona
Per nunzìar, ch'era il marito in casa.
Non le tremavan più grinvigoriti
Ginocchi sotto; ed ella a salti giva.
Quindi le stette sovra il capo, e, Sorgi, .
410 ODISSEA. (v. 7-42)
Disse, Penelopèii, figlia diletta,
Se il desio rimirar de* giorni tutti
Vuoi co* propri occhi. Ulisse venne, Ulisse
Nel suo palagio entrò dopo anni tanti,
E i Proci temerari, onde turbata
La casa t'era, consumati i beni,
Molestato il figliuol, ruppe e disperse.
E Penelope a lei: Cara nutrice,
or Iddii, che fanno, come lor talenta,
Del folle un saggio, e del più saggio un folle,
La ragion ti travolsero. Guastaro
Cotesta mente, che fu sempre integra.
Senza dubbio gFIddii. Perchè ti prendi
Gioco di me, cui sì gran doglia preme,
Favole raccontandomi, e mi scuoti
Da un sonno dolce, che abbracciate e strette
Le mie tenea care palpebre? Io mai,
Dacché Ulisse levò nel mar le vele
Per la malvagia innominanda Troia,
Così, no, non dormii. Su, via, discendi,
Balia, e ritorna, onde movesti, e sappi,
Che se tali novelle altra mi fosse
Delle mie donne ad arrecar venuta,
E me del sonno scossa, io rimandata
Tostamente l'avrei con modi acerbi:
Ma giovi a te, che quel tuo crin sia bianco.
Diletta figlia, ripigliò la vecchia.
Io di te gioco non mi prendo. Ulisse
Capitò veramente, ed il suo tetto
Rivide al fin: quel forestier da tutti
Svillaneggiato nella sala è Ulisse.
Telemaco il sapea: ma scortamente
I paterni consigli in sé celava,
Delle vendette a preparar lo scoppio.
Giubbilò allor Penelope, e, di letto
Sbalzata, al seno s*accostò la vecchia,
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(v. 43-78) LIBRO xxiii. 411
Lasciando ir giù le lagrime dagli occhi,
E con parole alate, Ah! non volermi.
Balia cara, deludere, rispose.
S*ei, come narri, in sua magione alberga, ~
Di qual guisa potè solo agli audaci
Drudi,. che in folla rimaneanvi sempre,
Le ultrici far sentir mani omicide?
Io noi vidi, né il so, colei riprese:
Solo il gemer di quei, ch'eran trafìtti.
L'orecchio mi feria. Noi delle belle
Stanze, onde aprir non potevam le porte,
Nel fondo sedevam turbate il core;
Ed ecco a me Telemaco mandato
Dal genitor, che mi volea. Trovai
Ulisse in pie tra i debellati Proci
Che giacean Tun su l'altro, il pavimento
Tutto ingombrando. Oh come ratto in gioia
La tua lunga tristezza avresti vòlto,
Se di polve e di sangue asperso e brutto,
Qual feroce leon, visto l'avessi!
Or del palagio fuor tutti in un monte
Stannosi; ed ei con solforati fuochi,
Ei, che a te m'inviò nunzia fedele,
La nobila magion purga e risana.
Seguimi adunque; e dopo tanti mali
Ambo schiudete alla letizia il core.
Già questo lungo desiderio antico.
Che distruggeati, cessa: Ulisse vivo
Venne al suo focolare, e nel palagio
Trovò la sposa e il figlio e di coloro,
Che gli noceano, vendicossi a pieno.
Tanto non esultar, non trionfare.
Nutrice mia. Penelope soggiunse.
Perchè t'è noto, quanto caro a tutti,
E sovra tutti a me caro, e al cresciuto
Suo figlio, e mio, capiterebbe Ulisse,
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412 ' ODISSEA. (v. 79-114;
Ma tu il ver non parlasti. Un Nume, un Nume
Fu, che deir opre ingiuste, e de* superbi
Scherni indegnato, mandò all'Orco i Proci,
Che dispregiavan sempre ogni novello
Stranier, buon fosse o reo: quindi perirò.
Ma Ulisse lungi dall'Acaica terra
Il ritorno perde, perde la vita.
Deh quale, o figlia, ti sfuggì parola
Dalla chiostra de' denti? a lei la vecchia.
Il ritorno perde, perde la vita.
Mentre in sua casa, e al focolar suo sacro
Dimora? Il veggio; chiuderai nel petto
Un incredulo cor, finché vivrai.
Se non che un segno manifesto in prova
Ti recherò: la cicatrice onesta
Della piaga, che in lui di guerreggiato
Cinghiai feroce il bianco dente impresse,
Quella, i piedi lavandogli, io conobbi,
E volea palesartela: ma egli.
Con le mani afferrandomi alla bocca,
D' accortezza maestro, il mi vietava.
Seguimi, io dico. Ecco me stessa io metto
Nelle tue forze: s'io t'avrò delusa,
La morte più crudel fammi morire.
E di nuovo Penelope: Nutrice,
Chi le vie degli Dei conoscer puote?
Né tu col guardo a penetrarle basti.
Ogni modo a Telemaco si vada,
E la morte de' Proci, e il nostro to vegga
Liberatore, un uomo ei siasi o un Nume*
Detto così, dalla superna stanza
Scese con mente in due pensier divisa:
Se di lontano a interrogar l'amato
Consorte avesse, o ad appressarlo in vece,
E nelle man baciarlo e nella testa.
Varcata, entrando, la marmorea .soglia,
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(v. 115-150j LIBRO XXTII. * '413
Da quella parte, e contra lui s' assise,
Dinanzi al foco, che su lei raggiava;
Ed ei, poggiato a una colonna lunga,
Sedea con gli occhi a terra, © le parole
Seinpre attendea della preclara donna.
Poiché giunti su lui n* eran gli sguardi.
Tacita stette e attonita gran tempo:
Il riguardava con immote ciglia,
E in quel che ravvisarlo ella credea,
Traeanla fuor della notizia antica
Gli abiti vili, onde scorgealo avvolto.
Non si tenne Telemaco, che lei
Forte non rampognasse: O madre mia,
Madre infelice, e barbara consorte,
Perchè così dal genitor lontana?
Che non siedi appo lui? che non gli parli?
Nuli' altra fora così fredda e schiva
Con marito alla patria ed a lei giunto
Dopo guai molti nel ventesim* anno.
Ma una pietra per cuore a te sta in petto.
E a rincontro Penelope: Sospesa,
Figlio, di stupor sono, ed un sol detto
Formar non valgo, una dimanda sola,
E né, quant' io vorrei, mirarlo in faccia.
Ma s'egli è Ulisse, e la sua casa il tiene,
Nulla più resta che il mio stato inforsi.
Però che segni van del nuziale
Ricetto nostro impenetrabil tratti.
Ch'esser noti sappiano a noi due solo.
Sorrise il saggio e paziente Ulisse,
E converso a Telemaco, La madre
Lascia, diceagli, a suo piacer tentarmi:
Svanirà, figlio, ogni suo dubbio in breve.
Perchè in vesti mi vede umili e abbiette.
Spregiami, e penetrar non san per queste
Sino ad Ulisse i timidi suoi sguardi.
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414 - . ' ODISSÈA. (v; 151-180)
Noi quel partito consultiamo intanto.
Che abbracciar sarà meglio, Uom che di vita
Spogliò un uom solo ed oscuro, e di cui pochi
Sono i vendicator, pur fugge, e il dolce
Nido abbandona, ed i congiunti cari.
Or noi della città tolto il sostegno,
E il fior dell* Itacese gioventude
Mietuto abbiamo. Qual è il tuo consiglio?
E il prudente Telemaco, A te spetta,
Diletto padre, il consigliar, rispose.
A te, con cui non v'ha chi d'accortezza
Contendere osi. Io seguirotti pronto
In ogni tuo disegno, e men, cred' io,
Le forze mi verran pria, che il coraggio.
Questo a me sembra, ripigliava Ulisse.
Bagnatevi, abbigliatevi, e novelle
Prenda ogni donna, le più leggiadre vesti.
Poi con l'arguta cetera il divino
Cantore inviti a una gioconda danza «
Acciò chi di fuori ode, o passa, o alberga
Vicin, le nozze celebrarsi creda.
Così pria non andrà per la cittade
Della strage de* Proci il sanguinoso
Grido, che noi non siam nell* ombreggiata
Campagna nostra giunti, in cui vedremo
Ciò che inspirarci degnerà 1* Olimpio.
Scoltato ed ubbidito ei fu ad un* ora.
Si bagnar, s'abbigliar, vesti novelle
Prese ogni donna, e piti fregiata apparve.
Femio la cetra nelle man recossi,
E del canto soave, e dell* egregia
Danza il desio svegliò. Tutta sonava
Quella vasta magion del calpestio
Degli uomini trescanti, e delle donne.
Cui bella fascia circondava i fianchi.
E tal, che udia di fuor, tra sé dicea:
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(y. 18'y-222) ' LIBRO xxiii. . ' 415
Alcun per fermo la cotanto ambita
Regina ottenne. Trista! che gli eccelsi
Tetti di quel, cui vergine congiunta
S' era, non custodi, finch'ei venisse.
Così parlava; e di profonda notte
Lo strano caso rimanea tra T ombre.
In questo mezzo Eurinome cosperse
Di lucid'onda il generoso Ulisse,
E del biondo licor V unse, ed il cinse
Di tunica e di clamide: ma il capo
D' alta beltade gì' illustrò Minerva.
Ei da* lavacri uscì pari ad un Nume,
E di nuovo s' assise, ond' era sorto,
Alla sua moglie di rincontro, e disse:
Mirabile, a te più, che all'altre donne,
Gli abitatori dell' Olimpie case
Un cuore impenetrabile formaro.
Quale altra accoglierla con tanto gelo
L'uom suo, che dopo venti anni di duolo
Alla sua Patria ritornasse, e a lei?
Su, via, nutrice, per me stendi un letto,
Dov'io mi corchi, e mi riposi anch'io:
Quando di costei 1' alrpa è tutta ferro,
Mirabil, rispondea la saggia donna.
Io né orgoglio di me, né di te nutro
Nel cor disprezzo, né stupor soverchio
M'ingombra: ma guardinga i Dei mi fero.
Ben mi ricorda, quale allor ti vidi.
Che dalle spiaggie d'Itaca naviglio
Ti allontanò di remi lunghi armato.
Or che badi Euriclea, che non gli stendi
Fuor della stanza maritale il denso
Letto- eh* ei di sua mano un dì costrusse,
E pelli, 6 manti, e sontuose coltri
Su non vi getti? Ella così dicea.
Far volendo di lui V ultima prova,
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416 onissEA (v. 2234èSy;
Crucciato ei replicò: Donpa, parola
T'uscì dai labbri fieramente amara.
Chi altrove il letto coUocommi? Dura
Al piti saputo torneria l'impresa.
Solo un Nume potrebbe agevolmente
Scollocarlo: ma vivo uomo nessuno,
Benchò degli anni in sul fiorir, di loco
Mutar potria senza i maggiori sforzi
Letto così ingegnoso, ond'io già fui,
Nò compagni ebbe ali* opra, il dotto fabbro.
Bella d' oliva rigogliosa pianta
Sorgea nel mio cortile i rami larga,
E grossa molto, di colonna in guisa.
Io di commesse pietre ad essa intorno
Mi architettai la maritale stanza,
E d'un bel tetto la coversi, e salde
Porte v'imposi, e fermamente attate.
Poi, vedovata del suo crin l'oliva,
Alquanto su della radice il tronco
Ne tagliai netto, e con le pialle sopra
Vi andai leggiadramente, e v' adoprai
La infallibile squadra, e il succhio acuto.
Così il sostegno mi fec*io del letto;
E il letto a molta cura io ripolii,
L' intarsiai d* oro, d* avorio e argento
Con arte varia, e di taurine pelli,
Tinte in lucida porpora, il recinsi.
Se a me riman, qual fabbricailo, intatto,
alcun, succiso dell'oliva il fondo.
Portello in altra parte, io, donna, ignoro.
Questo fu il colpo che i suoi dubbi tutti
Vincitore abbattè. Pallida, fredda.
Mancò, perde gli spiriti, e disvenne.
Poscia corse vèr luì dirittamente.
Disciogliendosi in lagrime; ed al collo
Ambe le braccia gli gittava intorno,
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(v. 259-294) LIBRO xxiii. 417
E baciavagli il capo, e gli dicea:
Ah ! tu con me non t* adirare, Ulisse,
Che in ogni evento ti mostrasti sempre
Degli uomini il più saggio. Alla sventura
Coadannavanci i Numi, a cui non piacque.
Che de' verdi godesse anni fioriti
Li' uno appo l'altro, e quindi a poco a poco
Li' un vedesse imbiancar dell' altro il crine.
Ala, se il mirarti, e T abbracciarti, un punto
Per me non fu, tu non montarne in ira.
Sempre nel caro petto il cor tremavami.
Non venisse a ingannarmi altri con fole:
Che astuzie ree covansi a molti in seno.
Né la nata di Giove Eiena Argiva
D'amor sarìasi e sonno a uno straniero
Congiunta mai, dove previsto avesse
Che degli Achei la bellicosa prole
Novamente l'avrebbe alla diletta
Sua casa in Argo ricondotta un giorno.
Un Dio la spinge a una indegna opra ; ed ella
Pria che di dentro ne sentisse il danno.
Non conobbe il velen, velen da cui
Tanto cordoglio a tutti noi discorse.
Ma tu mi desti della tua venuta
Certissimo segnale : il nostro letto.
Che nessun vide mai, salvo noi due,
E Attoride la fante a me già data
Dal padre mio, quand'io qua venni, e a cui
Dell'inconcussa nuziale stanza
Le porte io guardia son , tu quello affatto
Mi descrivesti; e alfìn pieghi il mio cuore,
Ch'esser potria, noi vo' negar, più molle.
A questi detti s'eccitò in Ulisse
Desio maggior di lagrime. Piagnea,
Si valorosa donna e sì diletta
Stringendo al petto. E il cor di lei qual era?
Odissea Digtzed by Go^le
418 ODISSÈA* (v. ^295-33«
Come ai naufraghi appar grata la terra,
Se Nettuno fracassò nobile nave,
Che i vasti flutti combatteana, e i venti,
Tanto che pochi dal canato mare
Scampar notando a terra, e con le memhra
Di schiuma e sai tutte incrostate, e lieti
Sulla terra montar, vinto il periglio:
Cosi gioia Penelope, il consorte
Mirando atteuta, né staccar sapea
Le braccia d'alabastro a lui dal collo.
E già risorta lagrimosi il ciglio
Visti gli avria la ditirosea Aurora,
Se l'occhio azzurro di Minerva un pronto
Non trovava compenso. Egli la Notte
Nel fln ritenne della sua carriera.
Ed entro all'Oceàn fermò l'Aurora,
Giunger non consentendole i veloci
Dell'alma luce portator destìeri,
Lampo e Fetonte, ond'è guidata in cielo
La flglia del mattin su trono d'oro.
Ulisse allor queste parole volse
Non liete alla sua donna: donna, gianto
Non creder già de' miei travagli il fine.
Opra grande rimane, immensa, e cui
Fornir, benché a fatica, io tutta deggio.
Tanto mi disse di Tiresia l'ombra
li dì eh* io, per saver del mio ritorno,
E di quel de' compagni, al fosco albergo
Scesi di Dite. Or basta. Il nostro letto
Ci chiama, e il sonno, di cui tutta in noi
Entrerà l' ineffabile dolcezza.
E Penelope a lui cosi rispose :
Quello a te sempre apparecchiato giace,
Poiché di ritornar ti diero i Numi.
Ma tu quest'opra, di cui qualche Dio
Risvegliò in te la rimembranza, dimmi. \
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i
(V. 331-366) ' LIBRO xxiii. 419 "
Tu non vorrai da me, penso, celarla
Poscia, e il tosto saperla a me par meglio.
Sventurata, perchè, l'altro riprese,
Tal nel Jtuo petto, e sì fervente brama ?
Nulla io trascenderò : benché goderne
Certo più, che il mio core, il tuo non deggià.
L'Ombra ir m'impose a città molte, un remo
Ben fabbricato nelle man tenendo,
Né prima il pie fermar, che ad una nuova
Gente io non sia, che non conosce il mare,
Né cosperse di sai vivande gusta.
Né delle navi dalle rosse guance,
O de'r^mi, che sono ale alle navi,
Notizia vanta. E mi die un segno il vate.
Quel dì, che un altro pellegrino, a cui
M'abbatterò per via, me un ventilabro
Portar dirà su la gagliarda spalla,
Allora, infìtto nella terra il remo ,
E vittime perfette a re Nettuno
Svenate, un toro, un ariete, un verro,
Riedere io debbo alle paterne case,
E per ordine offrir sacre ecatombi
Agli Dei tutti che in Olimpo han seggio.
Quindi a me fuor del mare, e mollemente
Consunto al fin da una lenta vecchiezza.
Morte sopravverrà placida e dolce,
E beate vivran le genti intorno.
Ecco il destio <»,he il tuo consorte aspetta.
Ed ella ripigliò : Se una vecchiezza
Migliore i Dei promettenti, che tutta
L'altra etade non fu, t'allegra dunque,
Q d'ogni angoscia vincitor felice.
Éurinome frattanto, ed Euriclèa
Di molli coltri, e di tappeti il casto
Letto adornavan delle faci al lume.
Ciò in brev'ora compiuto, a* suoi ripostale
420 ODISSEO (v. 367-402)
Euriclèa si ritrasse, ed Eurinòme
Inver la stanza maritale Ulisse
Precedeva, e Penelope, tenendo
Fiaccola in man : poi ritirossi anch*ella :
E con pari vaghezza i due consorti
Del prisco letto rinnovaro i patti.
Telemaco non meno, ed i pastori,
Fatti i lor pie cessar dalla gioconda
Danza, e quei delle donne, al sonno in preda
S'abbandonaro nell'oscura sala.
Ma Penelope e Ulisse un sovrumano
De' mutui lor ragionamenti vari
Che la notte copria, prendean diletto.
Ella narrava, quanto a lei di doglia
Die la vista de'Proci, ed il trambusto
In ch'era la magion, mentre, velando
La loro audacia dell'amor col manto
Sempre a terra stendean pecora o bue,
E dai capaci dogli il delicato
Vino attigneano. D'altra parte Ulisse
Que' mali, che in sé stesso, o a gente avversa,
Sofferti avea pellegrinando, o inflitti.
Le raccontava: un non so che di dolce
L'anima ricercavale, ed a lei,
Finch'ei per tutte andò le sue vicende.
Non abbassava le palpebre il sonno.
Tolse a dir come i Ciconi da prima
Vinse, e poi de* Lotòfagi alla pingue
Terra sen venne ; e rammentò gli eccessi
Del barbaro Ciclope, e la sagace
Vendetta fatta di color tra i suoi ,
Ch'ei metteasi a vorar senza pietade.
Come ad Eolo approdò, da cui gentile
Accoglienza e licenza ebbe del pari :
Ma non ancor gli concedeano i fati
^.a contrada natia, doudo ^rap^^^gle ^
(t. 403*438) Libito xxm. 421
Subitana procella, e sospirante
Molto, e gemente, il ricacciò neiralto.
Quindi Tamaro descriveale arrivo
Alla funesta dalle larghe porte
Cittade de* Lestrìgoni, e gli ancisi
Compagni tanti, e fracassati legni ,
Fuor che uno , sovra cui salvossi appena.
Gli scaltrimenti descrivea di Circe,
E il viaggio impensato in salda nave.
Per consultar del Teban vate l'alma.
Alla ea^a inamabile di Pluto,
Dove s'offrirò a lui gli antichi amici,
Ombre guerriere, ed Anticlèa, che in luce
Poselo, e intese alla sua infanzia cara.
Aggiunse le Sirene, innanzi a cui
Passare ardì con disarmati orecchi ;
E gl'instabili scogli, e la tremenda
Cariddi e Scilla, cui non vider mai
I più destri nocchieri impunemente.
Né l'estinto tacca del Sole armento,
E la vermiglia folgore di Giove
Altitonante, che percosse il legno,
E i compagni sperdè. Campò egli a terra
Solo, e afferrò all'Ogigia isola; ed ivi
Calipso, che bramava essergli sposa,
II ritenea nelle sue cave grotte.
L'adagiava di tutto, e giorni eterni
Senza canizie prometteagli : pure
Nel seno il cor mai non piegògli. Al fine
Dopo infiniti guai giunse ai Feaci,
Che al par d*un Nume l'onorare , e in naye
Di rame carca, e d'oro, e di vestiti,
AU'aer dolce de' natii suoi monti
Rimandarlo. Quest'ultima parola
Delle labbra gli uscia, quando soave
Scioglitor delle membra, e d'ogni cura
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422 ODISSEA ' (v. 439-474]
Disgombrator ^ sovra lui cadde ir sonno/
Ma in questo mez^o la Pup.illeazzura
Di Laerte il fìgliuol non obliava.
Come le parve ch'ei goduto avesse
Di notturna quiete appo la fida
Moglie abbastanza, incontanente mosse,
E a levarsi eccitò dall'Oceano
Sul trono d*òr la ditirosea Aurora ,
Perchè la terra illuminasse, e il cielo.
Surse allora l'eroe dal molle letto,
B quesiti accenti alla consorte volse:
Consorte, sino al fondo ambi la coppa
Bevemmo del dolor ; tu, che piagnevi
Il mio ritorno disastroso, ed io,
Cui Giove, e gli altri Dei, dalla bramata
Patria volean tra mille affanni in bando.
Or, che agli Eterni riunirci piacque ,
Cura tu prenderai di quanto in casa
Restami ; ed io di ciò, che gli orgogliosi
Proci usurparo a me pj^rte co' doni
Del popol mio, parte co* miei conquisti,
Ristorerommi a pieno, in sin che tutte
Si riempian di nuovo a me le stalle.
Io nella folta di diverse piante
Campagna sua corro a veder l'antico
Genitor, che per me tanto dolora.
Tu, benché saggia , il mio precetto ascolta.
Sorto il novello Sol, per la cittade
Della morte de' Proci andrà la fama.
Sali nell'alto con le ancelle, e siedi.
Ed in guisa ivi sta', che non t'accada
Né voce ad alcun volgere, né sguardo.
Detto, vestissi le bell'armi, e il prode
Figlio animava, e i due pastori, e a tutti
Prendere ingiunse i marziali arnesi.
Quelli, obbedendo, armavansi, e dischiuse
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(v. 475-478) hiBKO xxsih 423
Le porte, usciano : precedeali Ulisse.
Già si spargea su per la terra il lume ;
Ma fuor della città tosto li trasse
Di nubi cinti TAtenèa Minerva.
LIBRO VENTÉSIMOQDARTO
ARGOMENTO
Mercurio conduce all' Inferno le anime de' Proci. ?- Colloquio
tra l'anima d'Agamennone e quella d'Achille ; e racconto che
il primo fa de' funerali magnifici del secondo. — Altro col-
loquio tra lo stesso Agamennone e Antimedonte, che fu dei
Proci. — Ulisse giunge con Telemaco e i due pastori al
soggiorno di Laerte suo padre. — Riconoscimento d'Ulisse,
e gioia di Laerte. — Dolio, vecchio servitor di quest' ulti-
mo , ritoma dal lavoro con sei figliuoli : altro riconosci-
mento. •* Frattanto , corsa la fama della morte de' Proci ,
Euplte, il padre d'Antinoo, oocita il popolo a vendicarla. —
Se gli oppongono Medonte e Aliterse. — Egli nondimeno
esce co' suoi seguaci della cittK. — Ulisse armasi co' suoi
pochi, e va loro incontro, combattendo lo stesso Laerte,
che, incoraggiato da Minerva, lancia centra Eupite il pri-
mo colpo, e l'uccide. — Ulisse e Telemaco menano strage.
— Finalmente Minerva , a cui Giove fa cadere un fulmine
innanzi ai piedi, termine impone al conflitto, e la pace, sotto
la figura di Mentore, ristabilisce.
Mercurio intanto, di Cillene il Dio,
L'alme de' Proci estinti a sé chiamava.
Tenea la bella in man verga dell'oro,
Onde i mortali dolcemente assonna,
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4è4 ' ODISSEA (v. 5-40)
Sempre che il vuole, o li dissoDua ancora.
CoD questa conducea i' alme chiamate,
Che stridendo il seguiano. E come appunto
Vipistrelli nottivaghi nel cupo
Fondo talor d'una solenne grotta.
Se avvien che alcun del sasso, ove congiunti
L'uno appo l'altro s'atteneano, caschi ,
Tutti stridendo allor volano in folla :
Così movean gli spirti, e per la fosca
Via precedeali il mansueto Ermete.
L'Oceau trapassavano, e la bianca
Pietra, e del Sole le lucenti porte,
Ed il popol de' sogni : indi ai vestiti
D'asfodelo immortale Inferni prati
Giunser, dove soggiorno han degli estinti
Le aeree forme e i simulacri ignudi.
L'alma trovare del Peliade Achille,
Di Patroclo, d'Antiloco e d'Aiace,
Che i Danai tutti, salvo il gran Pelide,
Di corpo superava e di sembiante.
Corona fean di Peleo al figlio : ed ecco
Dolente presentarsegli lo spirto
Dell'Atride Agamennone, cui tutti
Seguian coloro che d'Egisto un giorno
Nella casa infedel con lui perirò.
Primo gli volse le parole Achille:
Noi credevamti sovra tutti, Atride,
Della Grecia gli eroi diletto al vago
Del fulmin Giove, poiché a molta e forte
Gente imperavi, sotto l'alte mura
Di Troia, lungo degli Achivi affanno.
Pur te assalir dovea primo tra quelli.
Che ritornare, la severa Parca,
Da cui scampar non lice ad uom che nacque.
Che non moristi almeno in queir eccelso
Grado, di cui godevi, ad Ilio innanzi?
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(y. 41-76) LIBRO XXIV, 425
Qual tomba i Greci, che al tuo figlio ancora
Somma gloria saria ne' dì futuri,
X*^on t'avrianp innalzata? miseranda
IFine che invece ti prescrisse il fato!
- Felice te, gli rispondea TAtride,
li'iglio di Peleo, Achille ai Numi eguale,
Te, che a Troia cadesti, e lunge d'Argo ,
3E a cui de* Greci e de* Troiani i primi.
Che pugnavan per te, cadeano intorno !
Tu de' cavalli immemore, e de* cocchi,
Cadaver grande sovra un grande spazio,
Giacevi in mezzo a un vortice di polve;
E noi combattevam da mane a sera,
Né cessava col di, credo, l'atroce
Pugna ostinata, se da Giove mosso
Gli uni non dividea dagli altri un turbo.
Tosto che fuor della battaglia tratto,
E alle navi per noi condotto fosti.
Asterso prima il tuo formoso corpo
Con tepid'acque e con fragranti essenze^
Ti deponemmo in su funebre letto;
E molte sovra te lagrime calde
Spargeano i Danai, e recideansi il crine.
Ma la tua madre, il grave annunzio udito ^
Del mare usci con le Nereidi eterne,
E un immenso clamor corse per l'onde,
Tal che tremarsi le ginocchia sotto
Gli Achei tutti sentirò. E già salite
Precipitose avrian le ratte navi,
S'uom non li ritenea, la lingua e il petto
Pien d'antico saver, Nestor, di cui
Ottimo sempre il consigliar tornava.
Arrestatevi, Argivi, non fuggite.
Disse il profondo del Nelide sennp,
O figli degli Achei : questa è la madre ,
Ch'esce dell'onda con Tequoree Dive,
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426 ' ODISSEA ^ {v. 7T-112)
E al figliuol morto viene. A lai parole
Ciascun ristè! Ti circondaro allora
Del vecchio Nereo le cerulee figlie,
Lugubri lai mettendo, e a te divine
Vesti vestirò. Il coro anche plorava
Delle nove sorelle, alternamente ^
Sciogliendo il canto or Tuna, or l'altra; e tale
lì poter fu delle canore Muse,
Che un sol Greco le lagrime non tenne.
Dieci dì e sette, ed altrettante notti,
Uomini e Dei ti pìangevam del pari:
Ma il giorno che segui ti demmo al foco,
E agnelle di pinguedine fiorite
Sgozzammo, e buoi dalla lunata fronte.
Tu nelle vesti degli Dei, nel dolce
Mèle. fosti arso, e nel soave unguento;
E, mentre ardevi, degli Acaichi eroi
Molti corser con Tarme intorno al rogo,
Chi sul cocchio, chi a piedi; ed un rimbombo
Destossi, che sali fino alte stelle.
Come consunto la Vulcania fiamma,
Achille, t'ebbe, noi le candide ossa,
Del più puro tra i vini, e del più molle
Tra gli unguenti irrigandole, su l'alba
Raccoglievamo; e la tua madre intanto
Portò lucida d'oro urna, che dono
Dìcea di Bacco, e di Vulcan fattura.
Entro quest'urna le tue candide ossa
Con quelle di Patroclo, illustre Achille,
Giacciono; ed ivi pur, benché disgiunte,
L'ossa posan dAntiloco, cui tanto
Sovra tutti i compagni onor rendevi.
Spento di vita il Meneziade. Quindi
Massima ergemmo e sontuosa tomba
Noi, de' pugnaci Achivi oste temuta,
Su l'Ellesponto, ove più sporge il Udo:
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(v. 113-148) LI6R0 XXIV,' ' 427
Perchè chi vive, e chi non nacqae ancora.
Solcando il mar, la dimostrasse a dito.
La madre tua, che interrogonne i Numi,
Splendidi in mezzo il campo al for dell'oste
Giochi propose. Io molte esequie illustri,
Dove air urna d* un Re la gioventude
Si cinge i fianchi, e a lotteggiar s'appresta,
Vidi al mio tempo: ma più assai che gii altri
Certami tutti, con le ciglia in arco
Quelle giostre io mirai, che per te diede
Si belle allor la piediargentea Teti.
Così caro vivevi agl'Immortali!
Però il tuo nome non ni spense teco:
Anzi la gloria tua pel mondo tutto
Rifiorirà, Pelide, ognor piti bella.
Ma io qual prò di cosi lunga guerra
Da me finita, se cotal ruìna
Per man d'Egisto, e d'una moglie infame, -
Pronta mi tenea Giove al mio ritorno?
Codesti avean ragionamenti, quando
Lor s'accostò l'interprete Argicida,
Che de* Proci testé da Ulisse vinti
L'alme guidava. Agamennone e Achille
Non prima gli sguardàr, che ad incontrarli
Maravigliando mossero. L'Atride
Ratto conobbe Anfìmedonte, il caro
Figlio di quel Melanio, onde ospizio ebbe
In Itaca, e così primo gli disse:
Anfimedonte, per qual caso indegno
Scendeste voi sotterra, eletta gente,
E tutti d'una età? Scerre i migliori
Meglio non si potria nella cittade.
Nettuno forse vi annoiò sul mare,
Fieri venti eccitando, e immani flutti?
v'offesero in terra uomini ostili,
Mentre buoi predavate, e pingui agnelle ?
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428 ODISSEA. " (r.' 140184)
Q per la Patria, e per k care donne
Combattendo cadeste? A un tuo paterno
Ospite, che tei chiede, il manifesta.
Non ti ricorda di quel tempo, ch'io
Col divin Menelao venni al tuo tetto,
Ulisse a persuader, che su le armate
Di saldi banchi e ben velate navi
Ci accompagnasse a Troia? Un mese intero
Durò il passaggio per T immenso mare.
Poiché svolto da noi fu a stento il prode
Rovesciator delle cittadi Ulisse.
E di rincontro Anfimedonte: figlio
Glorioso d'Atrèo, Re delle genti,
Serbo in mente ciò tutto; e qual reo modo
Ci toccasse di morte, ora io ti narro.
D'Ulisse, eh' era di molt' anni assente.
La consorte ambivamo. Ella nel core
Morte a noi macchinava, e, non volendo
Né rifiutar, né trarre a fin le nozze,
Un compenso inventò. Mettea la trama
In sottile, ampia, immensa tela ordita
Da lei^nel suo palagio; e, noi chiamati.
Giovanetti, dicea, miei Proci, Ulisse
Senza dubbio mori. Tanto a voi dunque
Piaccia indugiar le nozze mie, ch'io questo
Lugubre ammanto per l'eroe Laerte,
Onde a mal non mi vada il vano stame,
Pria fornir possa, che la negra il colga
D'eterno sonno apportatrice Parca.
Volete voi che mordanmi le Achee,
Se ad uom, che tanto avea d'arredi vivo,
Fallisse un drappo, in cui giacersi estìnto?
Con sì fatte parole il core in petto
Ci tranquillò. Tessea di giorno intanto
L'insigne tela, e la stessea^di notte.
Di mute faci al consapevol raggio.
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185-220) LIBRO XXIV. . 429
it triennio cosi nella sua frode
|!elaya8i, e tenea gli Achivi a bada.
^la sorgianto il quart'anno, e le stagioni,
"^scendo i mesi, novamente apparse,
compiuta de' giorni ogni rivolta,
'I^oi, da un'ancella non ignara instrutti,
IPenelope trovammo al suo notturno
Retrogrado lavoro, e ripugnante
l?ur di condurlo la sforzammo a riva.
Quando ci mostrò al fin l'inclito ammanto.
Che risplendea, come fu asterso tutto,
Del Sole al pari, o di Selene, allora
Ulisse, non so donde, un Genio avverso
Menò al confin del campo, ove abitava
Il custode de' verri, ed ove giunse
D'Ulisse il figlio, che ritorno fea
Dall'arenosa Pilo in negra nave.
Morte a noi divisando, alla cittade
Tennero; innanzi il figlio, e il padre dopo.
Questi in lacero arnese, e somigliante
A un infelice paltoniere annoso.
Che sul bastone incurvasi, condotto
Fu dal pastor de' verri: i più meschini
Vestiti appena il rìcoprian, nò alcuno.
Tra i più attempati ancor, seppe di noi,
Com'ei s'offerse, ravvisarlo. Quindi
Motteggi e colpi le accoglienze furo.
Colpi egli paziente in sua magione
Per un tempo soflfria, non che motteggi.
Ma come spinto dall' egioco Giove
Sentissi, l'armi dalla sala tolse,
E con l'aita del figliuol nell'alto
Le serrò del palagio. Indi con molto
Prevedimento alla Reina ingiunse.
Che l'arco proponesse, e il ferro ai Proci,
Funesto gioco, che fini col sangue.
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430 ODISSEA (v. 221-256)
Nessun di noi del valid'apco il nervo
Tender potea: che opra da noi non era.
Ma dell'eroe va in man Tarma. Il pastore
Nói tutti sgridavam, perchè all'eroe
Non la recasse. Indarno fu. Telemaco
Cornandogli recarla, e Ulisse Tchhe.
Ei, preso in man l'arco famoso, il tese
Così, e il tirò» che ambo le corna estreme
Si vennero ad unir: poi la saetta
Per fra tutti gli anei sospinse a volo.
Ciò fatto, stette in su la soglia, e i ratti
Strali versossi ai piedi orrendamente
Guardando intorno. Antinoo colse il primo,
E dopo lui, sempre di centra or l'uno
Tolto, e or l'altro di mira, i sospirosi
Dardi scoccava, e cadea l'un su l'altro.
Certo un Nume l'aitava. I suoi compagni,
Seguendo qua e là l'impeto suo,
A gara trucidavanci : lugubri
Sorgean lamenti, rimbombar s'udia
Delle teste percosse ogni parete,
E correa sangue il pavimento tutto.
Così, Atride, perimmo, e i nostri corpi
Giaccion negletti nel cortil d'Ulisse:
Poiché nulla ne san gli amici ancora,
Che dalle tabe a tergerci, e dal sangue
Non tarderiano, e a piangerci deposti.
De' morti onor, sovra un funebre letto.
fortunato, gridò allor l'Atride,
Di Laerte figliuol, con qual valore
La donna tua riconquistasti! E quanto
Saggia e memore ognor dell'uomo, a cui
Nel pudico suo fiore unita s'era.
Visse d* Icario la figliuola illustre !
La rimembranza della sua virtude
Durerà sempre, e amabile ne' canti
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(v, 257-292) LIBRO xxiy. 431
N^ sonerà per T universo il nome.
Non così la Tindàride, che osando
Scellerata opra, con la man, che data
Vergine aveagli, il suo marito uccise.
Costei fia tra le genti un odioso
Canto perenne: che di macchia tale
Le donne tutte col suo fallo impresse,
Che le più oneste ancor tinte n'andranno.
Tal nell'oscure, dove alberga Pluto,
Della terra caverne, ivan quell'alme
Di lor vicende ragionando insieme.
Ulisse, e il figlio intanto, e i due pastori
Qiunser, dalla città calando, in breve
Del buon Laerte al poder culto e bello
De* suoi molti pensier frutto, e de' molti
Studi e travagli suoi. Comoda casa
Gli sorgea quivi di capanne cinta,
Ove cibo e riposo ai corpi, e sonno
Davan famigli, che, richiesti all'uopo
Delle sue terre, per amor più ancora.
Che per dover, servianlo; ed una buona
Pur v'abitava Siciliana fante.
Che in quella muta solitudin verde
De' canuti anni suoi cura prendea.
Ulisse ai due pastori, e al caro pegno.
Entrate, disse, nella ben construtta
Casa, e per cena un de' più grassi porci
Subito apparecchiate. Io voglio il padre
Tentar, s' ei dopo una sì lunga assenza
Mi ravvisa con gli occhi, o estinta in mente
Gli abbia di me la conoscenza il tempo.
Detto, consegnò lor l'armi; e Telemaco,
E i due pastor rapidi entrare. Ulisse
Del grande orto pomifero alla volta
Mosse, né Dolio, discendendo in quello,
Trovò, né alcun de' figli, o degli schiavi,
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432 ODISSEA (v. 293-328)
Che tutti a raccor pruni, onde il bell'orto
D'ispido circondar muro campestre,
S'eran rivolti; e precedeali Dolio.
Sol trovò il ^enitor, che ad una pianta
Curvo zappava intorno. Il ricopria
Tunica sozza, ricucita e turpe:
Dalle punture degli acuti rovi
Le. gambe difendevangli schinieri
Di rattoppato cuoio, e le man guanti:
Ma berretton di capra in su la testa
Portava il vecchio: e cosi ei la doglia
Nutriva ed accrescea nel caro petto.
Tosto che Ulisse l'avvisò dagli anni i
Suoi molti, siccom'era, e da'suoi molti
Mali più ancor, che dall'età, consunto,
Lagrime, stando sotto un idto pero,
Dalle ciglia spandea. Poi nella mente
Volse e nel cor, qual de' due fosse il meglio,
Se con amplessi a lui farsi e con baci,
E narrar del ritorno, il quando e il come,
interrogarlo prima, e punzecchiarlo
Con detti forti, risvegliando il duolo.
Per raddoppiar la gioia; e a ciò s'attenne.
Si drizzò dunque a lui, che basso il capo
Tenea, zappando, ad una pianta intorno.
E, Vecchio, disse, della cura ignaro.
Cui domanda il verzier, certo non sei.
Arbor non v'ha, non fico, vite, oliva,
Che l'abil mano del cuitor non mostri,
Né sfuggì all'occhio tuo di terra un palmo.
Altro, e non adirartene, io dirotti:
Nulla è negletto qui, fuorché tu stesso.
Coverto di squallor veggioti, e avvolto
In panni rei, non che dagli anni infranto.
Se mal ti tratta il tuo signor, per colpa
Della pigrizia tua non è ciò, penso:
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(v. 329-364) . LIBRO XXIV. • 4S3
Anzi tu nulla di servii nel corpo
Tieni, o nel volto, chi ti guarda Asso.
Somigli ad un Re nato; ad uom somigli,
Che dopo il bagno e la gioconda mensa
Mollemente dormir debba su i letti,
Com'è l'usanza de' vegliardi. Or dimmi
Preciso e netto chi tu servi, e a cui
L'orto governi, e fa' ch'io sappia in oltre,
Se questa è veramente Itaca, dove
Son giunto, qual testé colui narrommi,
Che in me scontrossi, uom di non molto senno,
Quando né 11 tutto raccontar, né volle
Me udir, che il richiedea se in qualche parte
D'Itaca un certo vive ospite mio,
O morto il chiude la magion di Dite.
A te parlerò invece, e tu l'orecchio
Non ricusar di darmi. Ospite un tale
Nella mia Patria io ricevei, di cui
Non venne di lontano al tetto mio
Forestìer mai, che più nel cor m' entrasse.
Nato ei diceasi in Itaca, e Laerte,
D'Arcesio il figlio, a genitor vantava.
Il trattai, l'onorai, l'accarezzai
Nel mio di beni ridondante albergo,
E degni in sul partir doni io gii porsi:
Sette di lavorato oro talenti,
Urna d'argento tutta, e a fiori sculta,
Dodici vesti, tutte scempie, e tanto
Di tappeti, di tuniche di manti;
E quattro belle, oneste, e di lavori
Femmine sporte, ch'egli stesso elesse.
Stranier, rispose lagrimando il padre.
Sei nella terra di cui chiedi, ed ove
Una pessima gente ed oltraggiosa
Regna oggidì. Que' molti doni, a cui
Ei^ con misura eguale avrìa risposto,
Oditsea ^ 28,
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434 ODISSEA' . (y. 365^400)
Come degno era bene, or, che qui vivo
Noi trovi più, tu gli spargesti al vento.
Ma schiettamente mi favella: quanti
Passaro anni dal dì che ricevesti
Questo nelle tue case ospite gramo,
Che, s'ei vivesse ancor, sana il mio figlio?
Misero ! in qualche parte, e dalla Patria
Lungi, fu in mar pasto de* pesci, o in terra
De* volatori preda e delle fere:
Né ricoperto la sua madre il pianse,
Né il pianse il genitor; né In dotata
Di virtù, come d'or, Penelopèa
Con lagrime onorò l'estinto sposo
Sopra funebre letto, e gli occhi prima^
Non gli compose con mal ferma destra.
Ciò palesami ancor: chi sei tu? e donde?
Dove a te la città? la madre, il padre?
A qual piaggia s'attiene il ratto legno
Che te condusse, e i tuoi compagni illustri?
O passeggier venisti in nave altrui,
E, te sbarcato, i giovani partirò?
Tutto, riprese lo scaltrito eroe,
Narrerò acconciamente. Io figlio sono
Del re Polipemònide Afidante;
In Alibante nacqui, ove ho un eccelso
Tetto, e mi chiamo Epirito. Me svolse
Dalla Sicilia un Genio avverso, e a quesfe
Piagge sospinse; ed or vicino ai campi.
Lungi dalla città, stasai il mio legno.
Volge il quint'anno omai che Ulisse sciolse
Dalla mia patria. Sventurato! a destra
Gli volavano allor gli augelli, ed io
Lui che lieto partì, congedai lieto:
Quando ambi speravam che rinnovato
L'ospizio avremmo, e ricambiati i doni.
Disse, e fosca di duol nube coverse
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(v. 4Ó1-436) LIBRO xxiv' 435
La fronte al padre, che la fulva polve
Prese ad ambo le mani, e il venerando
Capo canuto se ne sparse, mentre
Nel petto spesseggiavangli i sospiri.
Ulisse tutto commoveasi dentro,
E un acre si sentia pungente spirto
Correre alle narici, il caro padre
Mirando attento: al fin su lui gittossi,
E stretto il si recava in fra le braccia,
E il baciava più volte, e gli dicea:
Quell'io, padre, quell'io, che tu sospiri.
Ecco nel ventesmo anno in Patria venni.
Cessa dai pianti, dai lamenti cessa,
E sappi in breve, perchè il tempo stringe,
Ch'io tutti i Proci uccisi, e vendicai
Tanti e sì gravi torti in un dì solo.
Ulisse tu? così Laerte tosto,
Ta il figlio miol Dammene un segno, e tale,
Che in forse io non rimanga un solo istante.
E Ulisse: Pria la cicatrice mira
Della ferita che cinghiai sannuto
M'aperse un dì sovra il Parnaso, quando
Ad Autòlico io fui per quei che in Itaca
M'avea doni promessi, accompagnando
Col moto della testa, i detti suoi.
Gli arbori inoltre io ti dirò, di cui
Nell'ameno verzier dono mi fosti.
Fanciullo io ti seguia con ineguali
Passi per l'orto, e or questo arbore, or quello
Chiedeati, e tu, come andavam tra loro,
Mi dicevi di lor l'indole e il nome.
Tredici peri a me donasti, e dieci
Meli, e fichi quaranta, e promettesti
Ben cinquanta filari anco di viti,
Che di bella vendemmia eran già carche:
Poiché vi fan d'ogni sorta uve, e l'Ore,
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436, . omssEA , (v, 437.4'72)
Del gran Giove ministre, i lop tesori
Versano in copia su i fecondi tralci.
Quali dar gli potea segni più chiari t
Laerte, a cui si distemprava il core,
E vacillavan le ginocchia, avvolse
Subito ambe le mani al collo intorno
Bel figlio; e il figlio lui, ch'era dì spirti
Spento affatto, a so prese, ed il sostenne.
Ma come il fiato in seno, e nella mente
I dispersi pensieri ebbe raccolti,
O Giove padre, sclamò egli, e voi,
Numi, voi certo su l'Olimpo ancora
Siete, e regnate ancor, sa la dovuta
Pena portar de'lor misfatti i Proci.
Ma un timore or m' assai, non gl'Itacesl
Vengan tra poco a queste parti in folla,
£ méssi qua e là mandino a un tempo
Be' Cefaleni alle città vicine.
Sta* di buon core, gli rispose Ulisse,
Né ti prenda di ciò cura o pensiero.
Alla magion, che non lontana siede,
Moviamo: io là Telemaco inviai
Con Filezio ed Eumèo, perchè allestita
Prestamente da lor fosse la cena.
In via, ciò detto, entrare, e, come giunti
Furo al rural non disagiato albergo,
Telemaco trovar co' due pastori,
Che incidea molte carni, ed un possente
Vino mescea. La Siciliana fante
Lavò Laerte, e di biond'olio l'unse,
E d'un bel manto il rivestì: ma Palla,
Scesa per lui di ciel, le membra crebbe
Be' popoli al pastore, e di persona
Più alto il rese, e più ritondo in faccia.
Maravigliava Ulisse, allor che il vide
Simile in tutto agl'immortali, e, Padre,
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(v. 473-508) LÌBRO xxiy. 437
Disse, opra fa, cred'io, d'iin qualche Nume
Còtesta tua statura, e la novella
Beltà, che in te dopo i lavacri io scorgo:
Oh, riprese Laerte, al padre Giove
Stato fosse, e a Minerva, e a Febo in grado,
Che quale allora io fai, che su la terra
Continental, dé*Cefaleni duce,
La ben costrutta Nèrito espugnai.
Tal potuto avess'io con l'arme in dosso
Starmi al tuo fianco nella nostra casa,
E i Proci ributtar, quando per loro
Splendea l'ultimo Sol! Di loro a molti
Sciolte avrei le ginocchia, e a te sarebbe
Infinito piacer corso per l'alma.
Così Laerte e il figlio. E già, cessata
Dell'apparecchio la fatica, a mensa
Tutti sedeansi. Non aveano ai cibi
Stese l'avide man, che Dolio apparve,
E seco i figli dal lavoro stanchi;
Poiché uscita a chiamargli era la buona
Sicula madre, che nodrìali sempre,
E il vecchio Dolio dall' etade oppresso
Con amor grande governava. Ulisse
Veduto, e ravvisatolo, restaro
Tutti in un pie di maraviglia colmi:
Ma ei con blande voci, O vecchio, disse.
Siedi alla mensa, e lo stupor depom.
Buon tempo è già che, desiando ai cibi
Stender le nostre mani, e non volendo
Cominciar senza voi, cen rimanemmo.
Dolio a tai detti con aperte braccia
Mosse dirittamente incontro a Ulisse,
E la man, che afferrò, baciògli al polso,
Poi così gli dicea: Signor mio dolce,
S'è ver che a noi, che di vederti brama
PiU assai, che speme, chiudevam ^^S§^o^
438 ODISSEA ' (v; 509-544)
Te rimenaro al fin gli stessi Numi,
Vivi, gioisci, d'ogni dolce cosa
Ti consolino i Dei. Ma dirami il vero:
Sa la Regina per indizio certo.
Che ritornasti, o vuoi che a rallegrarla
Di sì prospero evento un nunzio corra?
Dolio, ripigliò Ulisse, la Regina
Già il tutto sa. Perchè t'affanni tanto?
Il vecchio allor sovra un polito scanno
Prontamente sedè. Né men di lui,
Festa feano ad Ulisse i suoi figliuoli,
E or l'un le mani gli afferrava, or l'altro:
Indi sedean di sotto al caro padre
Conforme all'età loro. Ed in tal guisa
Della mensa era quivi ogni pensiero.
La fama intanto il reo destin de* Proci
Per tutta la città portava intorno.
Tutti, sentite le funeste morti,
Chi di qua, chi di là, con urli e pianti
Venian d'Ulisse al tetto, e i corpi vani
Fuor ne traeano, e li ponean sotterra.
Ma quei, cui diede altra isola il natale,
Mettean su ratte peschereccie barche,
E ai lor tetti mandavanli. Ciò fatto,
Nel Fòro s'adunar dolenti e in folla.
Come adunati fur, surse tra gli altri
Bupite, a cui per Antinòo sua prole.
Che primo cadde della man d'Ulisse,
Stava nell'alma un indelebil duolo.
Questi arringò, piangendo amaramente:
Amici, qual costui strana fortuna
Agli Achei fabbricò! Molti, ed egregi.
Ne addusse prima su le navi a Troia,
E le navi perdette, ed i compagni
Seppellì in mar: poi nella propria casa,
Tornato, altri ne spense, e d'Aide ai regni
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( V. 545-580) LIBRO XXIV. ^ 439
Mandò di Cefalenia i primi lami.
Su, via, pria ch'egli a Pilo, e alla regnata
Dagli Epei divina Elide ricoyri,
Vadasi; o infe^mia patiremo eterna.
Sì, Tonta nostrale' |ituri tempi
Rimbombar s'udrà o^or, se gli uccisori
Be' figli non puniamo, e de* fratelli.
Io certo più viver non curo, e, dove
Subito non si vada, e la lor fuga
Non si prevenga, altro io non bramo, o voglio,
Sadvo che riunirmi Ombra a queirOmbre.
Così ei, non restandosi dal pianto,
E la pietade in ogni petto entrava.
Giunsero allor alla magion d'Ulisse
Medonte araldo, ed il cantor divino,
Dal sonno sviluppatisi, e nel mezzo
Si collocaro. Alto stupore invase
Tutti, e il saggio Medonte i labbri aperse:
O Itacesi, uditemi. Credete
Voi che Ulif<se abbia tolto impresa tale
Contra il voler de' Sempiterni? Un Dio
Vidi io stesso al suo fianco, un Dio, che affatto
Mentore somigliava. Or gli apparia
Davanti, in atto d'animarlo, ed ora
Per l'atterrita sala impeto fea.
Sgominando gli Achei, che l'un su l'altro
Traboccavano. Disse; e di tai detti
Inverdì a tutti per timor la guancia.
Favellò ancor nel Fòro un vecchio eroe,
Aliterse Mastoride, che solo
Vedea gli andati ed 1 venturi tempi,
E che, sentendo rettamente, disse:
Or me udite, Itacesi. Egli è per colpa
Vostra che ciò seguì: però che sordi
Agli avvisi di Mentore, ed a* miei ,
Lasciar le briglie. sovra il collo ^i vostri
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440 ODISSEA (y. 581-610)
Figli Ti piacque, che al mal far dirotti
La davano pel mezzo in ogni tempo,
Le sostanze rodendo, e ingiuriando
La casta moglie d'un signor preclaro,
Di cui sogno parca loro il ritorno.
Obbeditemi al fin, mossa non fate,
Onde pur troppo alcun quella sventura,
Che sarà ito a ricercar, non trovi.
Tacque ; e s'alzaro i piti con grida e plausi.
Gli altri uniti rimasero: che loro
Non gustò il detto, ma seguiano Eupite.
Poscia chi qua, chi là, correano all'armi.
Cinti e splendenti del guerrier metallo
Si raccolser davanti alla cittade
Quasi in un globo; ed era incauto duce
Della stoltezza loro Eupite stesso.
Credea la morte vendicar del figlio,
E lui, che redituro indi non era,
Coglier dovea la immansueta Parca.
Pallade, il tutto visto, al Saturnide
Si converse in tal guisa : nostro prode.
Di Saturno figliuol, Re de* Regnanti,
Mostrami ciò che nel tuo cor s'asconde.
Prolungar vuoi la guerra e i fieri sdegni?
O accordo tra le parti, e amistà porre?
Perchè di questo mi richiedi, o figlia.
Il nembifero Giove a lei rispose.
Non fu consiglio tuo, che ritornato
Punisse i Proci di Laerte il figlio?
Fa* come più t'aggrada: io quel che il meglio
Parmi, dirò. Poiché l' illustre Ulisse
De* Proci iniqui vendicossi, ei fermi
Patto eterno con gli altri, e sempre regni.
Noi la memoria delle morti acerbe
In ogni petto cancelliam: risorga
Il mutuo amor nella città turbata,
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(t. 617-652) LIBRO XXIV. 441
£) v'abbondili, qual pria, ricchezza e pace.
Con questi detti stimolò la Diva,
Ch'era per sé già pronta, e che dall'alte
D'Olimpo cime rapida discese.
~ Ulisse intanto, che con gli altri avea
Sotto il campestre di Laerte tetto
Hinfrancati del cibo ornai gli spirti,
Esca, disse, alcun fuori, e attento guardi
Se alla volta di noi vengon gli Achei.
Subitamente usci di Dolio un figlio,
E su la soglia stette, e non lontani
Scorse i nemici. All' armi I All'armi! ei tosto
Gridò, vicini sono. Ulisse allora,
Ed il figlio sorgeano, e i due pastori.
E l'armi rivest;ano; i sei figliuoli
Rivestianle di Dolio, e poi gli stessi
Dolio e Laerte. In cosi picciola oste
Anco i bianchi capei premer dee l'elmo.
Ratto che armati fur, le porte aperte.
Tutti sboccare: precedeali Ulisse.
Nò di muover con lor lasciò la figlia
Di Giove, Palla, a Mentore nel corpo
Tutta sembiante, e nella voce. Ulisse
Mirella, e n'esultava, e vòlto al figlio^
Telemaco, dicea, nella battaglia,
Ove l'imbelle si conosce, e il prode,
Deh non disonestàr la stirpe nostra,
Che per forza e valor fu sempre chiara.
E Telemaco a lui: Padre diletto,
Vedrai, spero, se vuoi, eh' io non traligno.
Gioì Laerte, ed esclamò: Qual Sole
Oggi risplende in cielo, amati Numi!
Gareggian di virtù figlio e nipote.
Giorno più bello non mi sorse mai.
Qui l'appressò con tali accenti in bocca
La Diva che ne' begli ocohi azzurreggia:
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442 ODISSEA.. (v, 653-688)
d'Arcesio fìgliuol,- che a me. più caro
Sei d'ogni altro compagno, a Giove alzati
Prima e alla figlia dal ceruleo sguardo ,
Devotamente i prieghi tuoi, palleggia
Cotesta di lunga ombra asta, e l'avventa.
Cosi dicendo, una gran forza infuse
In Laerte Minerva. 11 vecchio, a Giove
Prima, e alla figlia dal ceruleo sguardo.
Alzati i prieghi, palleggiò la lunga
Sua lancia, ed avventolla, e in fronte a Eupite,
Il forte trapassando elmo di rame.
La piantò, e immerse: con gran suono Eupite
Cadde, e gli rimbombar l'armi di sopra.
Si scagliaro in quel punto Ulisse e il figlio
Contra i primieri, e con le spade scempio
Ne feano, e con le lancio a doppio filo.
E già nessuno alla sua dolce casa
Tornato fora degli Achei, se Palla,
Dell* Egioco la figlia, un grido messo.
Non mutava i lor cuori: Cittadini
D'Itaca, fine all'aspra guerra. Il campo
Lasciate tosto, e non più sangue. Disile:
Ed un verde pallor tinse ogni fronte.
L'armi scappavan dalle man tremanti.
D'aste coverto il suolo era e di brandi.
Levata che Minerva ebbe la voce;
E tutti, avari della cara vita.
Alla città si rivolgeano. Ulisse
Con un urlo, che andò sino alle stelle,
Insegula ratto i fuggitivi, a guisa
D'aquila tra le nubi altovolante.
Se non che Giove il fulmine contorse;
E alla Sguardo azzurrina innanzi ai piedi
Cascò l'eterea fiamma. generoso.
Così la Diva, di Laerte figlio,
Contienti, e fr^na il desiderio ardente
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(v- 6SD-696) LIBRO XXIV. 443
I>ella guerra^ che a tutti ò sempre grave,,
Non contro a te di troppa ira a* accenda
JLi*ampiovcg^ente di S^iturno prole.
Obbedì Uiisse, e s'alle^^rò nel!" alma-
Ma eterno poi tra le duo parti accordo
La figlia strinse delTegioco Giove,
Che a Mentore nel corpo e nella voce
Rassomigliava, la gran Dea d'Atene,
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FlNB.
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INDICE
Libro Primo .
— Secondo
— Terzo .
— » Quarto .
— Quinto •
— Sesto .
— Settimo .
— Ottavo .
-^ Nono .
-i. Decimo .
— Decimoprìmo.
M Decimosecondo
— • Decimoterzo
— Decimoquarto
>^ Decimoquinto
-» Decimosesto •
— Decimosettimo
— Decimottayo .
— « Decimonono •
— Ventesimo .
— Ventesimoprimo
»— Yentesimosecondo
— Yentesimoterzo
— Yentesimoquarto
Pag.
5
22
M 38
w 57
w 87
h106
.« 119
H 132
H 154
H 175
M 195
h218
^235
m250
» 268
H 304
N 825
f«340
m361
« 375
.«390
.«409
h423
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